Gian Enrico Rusconi : “Uniti nell’odio per la Merkel, tanti gli europei con B.”

Ombra nera, secondino d’Europa, pietra invece che cuore. Esiste solo la Germania nelle piazze di Lisbona e di Roma, di Atene e di Parigi. Traghetta odio, mangia rancore, diviene vessillo della finanza amorale perché detiene il codice dei soldi, e usa la leva del potere immemore dei suoi crimini, irresponsabile della memoria, perfino della Shoah.
Gian Enrico Rusconi, politologo torinese, è tra gli italiani più accreditati a Berlino.
Nella sua doppia cittadinanza culturale, vive la rabbia italiana e lo stupore tedesco.
Perchè ci detestano così tanto? É una domanda ricorrente e sconsolata. É un chiodo conficcato nella carne viva di una società in salute, civile, democratica. Perchè ci trattano in questo modo? A Berlino se lo chiedono senza riuscire a darsi una risposta. Loro hanno semplicemente rispettato gli impegni, chiedono agli altri di fare altrettanto.

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Avellino, rivolta contro l’energia verde della Nutella

NON SOLO CREMA: LA FAMIGLIA FERRERO USERÀ L’OLIO VEGETALE PER UNA CENTRALE
L’adorata Nutella un po’ si spalma, un po’ si brucia. É successo che la famiglia Ferrero, felice ma oramai forse sazia del successo della sua buonissima crema, ha iniziato a diversificare il suo business. Nel polo di Sant’Angelo dei Lombardi in Irpinia, dove produce parte dei deliziosi barattoli che tra qualche giorno compiranno 50 anni (e il prossimo 18 maggio in piazza Plebiscito a Napoli verranno festeggiati con un concerto di Mika), si è iniziato a valutare che l’olio vegetale, ingrediente della cioccolata liquida, fosse anche la base eccellente per produrre energia elettrica. Dall’idea al progetto.

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M come medici

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QUI LA MORTE e la vita si incontrano. Chi spinge e chi resiste come si fosse in quelle file al botteghino per guadagnarsi il biglietto di uno spettacolo imperdibile. Esiste l’enormità della vita, l’impellenza che essa rimanga tale e che il corpo riconquisti la luce, gli occhi si riaprano, e la bocca, le mani, le gambe ritornino nella loro condizione originaria. Ora sono manichini sdraiati, denudati, immobili, bucati da aghi, tracheotomizzati, tenuti al caldo o al freddo da elettrodi, coperti per compassione da un telo verde. Incoscienti, incapaci, quasi perduti.
Guarire con la speranza
Nella sala di terapia intensiva del San Giovanni Bosco, ospedale torinese, la giornata segue i beep delle macchine, e le macchine aggiornano i monitor, i monitor registrano i battiti, assistono il ritmo ossessivo della lotta finale. Si può essere felici in questa valle di lacrime, in questo deposito di dolore, in questo teatro di piaghe infinite, di esami ricorrenti e quasi sempre inconcludenti? Sergio Livigni ha il compito di dare speranza a chi non ne ha più, e offrire una ragione alla crudeltà del destino, un motivo alla scelta di resistere, una speranza alla disperazione. Da medico dirigente, è lui il primario del reparto, ha scelto di trasformarsi in motivatore, in una macchina della fiducia. Ed è straordinario quel che succede in questa piccola fabbrica della vita. Perché lo Stato arrivava a pagare anche 2.500 euro al giorno (ora meno) per assistere chi lotta, ma non riesce a dare sorrisi o lacrime a quelli che accompagna. Non riesce a essere umano. Livigni invece ricerca oltre la terapia l’umanità, un sorriso, studia il benessere, teorizza la cura del conforto, la mano nella mano, l’amore come riabilitazione.

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A come Apprendista

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QUESTO EDIFICIO ha le sbarre, come tutte le carceri del mondo, e ha i letti a castello, le cellette strette, il muro di cinta, le garritte, le telecamere, i parenti in attesa, le mamme nervose e i bambini stupiti del destino dei loro papà nella saletta dei colloqui protetti. “Ti amo papà” gli ha scritto uno di loro su un foglio di quaderno da terza elementare. Quel “Ti amo” è orgogliosamente appeso al muro, e le mura sono finalmente colorate, aperte alla luce dei sogni, al giallo sgargiante di una stella. E ogni corridoio, ogni parete, ogni centimetro quadrato di questo territorio nemico è stato colorato. “Ho ospite un pittore inesauribile, si chiama Saverio Barone. Allora l’ho convocato e gli ho detto: libera le tue energie, dipingi quel che vuoi, dove vuoi”. Uscito dal colloquio col direttore del carcere Massimiliano Forgione, Saverio ha destinato alla sua passione ogni minuto del proprio tempo e iniziato a intonare, come faceva all’Accademia delle Belle Arti, gialli e blu e verdi spaziali, strisce elettriche e ansiogene insieme a tonalità più dismesse o lievi. Saverio ha forzato la mano al suo desiderio di libertà e ha chiuso gli occhi: c’è il suo pennello ovunque, tra le corsie lunghe che dividono le celle e i corridoi brevi degli uffici amministrativi. Ogni grigio è stato ucciso: viva il rosso, l’ocra, il bianco, l’azzurro. Viva Pluto e Paperino, viva noi. E poi, ironizzando sul destino di ciascuno, una monumentale banda Bassotti apre la strada alla prima sezione, l’ultima cena scorre mentre ci si dirige alla mensa. Lo skyline di New York e un grande ritratto di Ray Charles fanno avanzare verso la stanza della musica: chi ha voglia di suonare e scaricare la tensione può accomodarsi: batteria, piano, chitarra. C’è tutto.

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Dentro un barattolo tutto il riscatto della nuova Calabria

Nessun cedimento alla ‘ndrangheta e nessuna riduzione di fatturato. Pippo Callipo fa un buon tonno e lo vende a caro prezzo. Segmento premium del mercato, costa più del doppio rispetto ai concorrenti. “Nonostante la crisi abbiamo retto bene, e ci ha aiutato molto il target cui ci rivolgiamo. Fascia alta dei consumatori e doviziosa ricerca delle materie prime”. Callipo non è un mecenate ma non è un imprenditore asservito. Ha goduto dei finanziamenti pubblici ma non li ha inguattati, dispersi, sprecati. Quello che ha preso dalla Calabria ha restituito alla Calabria. Lui è nato a Pizzo Calabro e la sua fabbrica è a Pizzo Calabro. Qualche pallottola gli è stata recapitata ma non ha mai accettato lo scambio mafioso: protezione contro danaro. “Ho avuto incontri ravvicinati con la malavita ma sono orgoglioso di non aver mai abbassato la testa. Loro parlavano (anche con le armi) e io andavo dai carabinieri a denunciare. Quando non ero certo della determinazione degli inquirenti cambiavo caserma, salivo di grado per avvertire del pericolo”.

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A come Artigiani

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PRIMA di giungere a Gioiosa Ionica, quando la piana di Rosarno si allarga verso est, la radio informa che i carabinieri hanno appena sequestrato nelle campagne di Rizziconi, un paese del primo entroterra, dodici micidiali kalashnikov, il pacchetto bomba quotidiano. Nulla di che meravigliarsi: nella Locride ci sono più armi in circolazione che bambini all’oratorio, più poliziotti nelle caserme che educatori nelle scuole, più case abusive che legali. La Locride infatti, prima di essere una fetta d’Italia, è la sede dell’Authority della ‘ndrangheta, con San Luca capitale. È il territorio del più vasto carosello di ’ndrine alleate, ora anche federate, comunque cooperanti per il male comune.

Disoccupato il 75% dei giovani

Conta 140 mila abitanti, comprende 42 comuni, ha il 75 per cento della disoccupazione giovanile. La Locride ha perciò smesso di essere una parola e si è trasformata in una malattia. È divenuta un’infezione del nostro corpo, piaga purulenta, dannazione pura. “Io sono scappato, non ce la facevo più”, dice Carmelo al telefono. Vive a Milano ora, fa il pubblicitario, ma è nato a Caulonia, davanti allo Ionio, alle coste greche, a quella che fu la civiltà di Pericle e ora è la radice quadrata del male. Eppure cangiari si può. Continue reading

Treni: il dovere di garantire collegamenti economici

Il treno prima che un vettore è un connettore di comunità. Come un bruco, attraversa pianure e buca montagne, lega i paesi alle città. Se l’Italia oggi assomiglia a un barcone pericolosamente ammassato ai suoi lati, con le città che si gonfiano a dismisura e la dorsale appenninica che si spopola al punto da divenire un immenso ospizio all’aperto è anche in ragione dell’impossibilità di un pendolarismo che superi i trenta chilometri dal luogo di lavoro.
PENSATECI un momento! Pensate a quanta gente vive in città senza abitarla, a quanti sono costretti a pagare un posto letto trecento euro. A quante coppie giovani ipotecano ogni futuro con un mutuo trentennale per due stanze e servizi in periferia. E a quanti anziani rinunciano a ogni piacere per non vedere la loro pensione annientata dopo i primi dieci giorni del mese. Adesso puntate gli occhi nell’Italia interna, alle migliaia di paesi oramai disabitati, alla quantità di case vuote, o ad alloggi che sono in affitto a poche decine di euro. Pensate a quanti sindaci si disperano per non riuscire a mantenere in vita le scuole elementari o le medie e all’opposto a quante mamme nelle metropoli si disperano per non riuscire a oltrepassare la lista di accesso nelle scuole materne. Garantire collegamenti regolari, veloci, possibili ed economici (e oltretutto poco inquinanti) tra le campagne e le città, tra i paesi piccoli e quelli grandi significherebbe garantire a un universo sociale la possibilità di vedersi aumentata la capacità di spesa, di ottenere dai soldi il di più che adesso gli manca. Con mille euro al mese a Roma non ci vivi, a Rieti forse sì. Con 800 euro al mese custodisci la tua dignità di operaio, seppure in cassa integrazione, se puoi vivere in un paese dell’Irpinia invece che a Napoli. Certo, non è compito dell’amministratore delegato di Trenitalia fare questi conti, ma del Governo sì. Eccome che sì! Cos’è un ammortizzatore sociale se non questo? Invece niente: tutti tracciano la linea della indifferenza e si producono nella facile sottrazione costi/ricavi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: chi ha i soldi e abita in città prende il frecciarossa, chi vive fuori della sua cintura si mette in fila e, trasfigurato in sardina, inizia la giornata.

da: Il Fatto Quotidiano 6 aprile 2014

Schiavi del vento: la famiglia prigioniera delle pale eoliche

SICIGNANO DEGLI ALBURNI. La casa di Rosa e Gerardo può volare. Ha così tante pale ai suoi lati, e sui tetti che potrebbe schizzare da un momento all’altro dagli Alburni, la catena montuosa che apre le porte del Cilento, e atterrare nella piana del Sele, che si allunga fino ai suoi piedi. Sono i nuovi schiavi del vento. Gerardo ha cinquant’anni e fa il minatore, Rosa lo aspetta in casa. Hanno due figli: Stefano e Giuseppe. “Quando venne l’impresa che costruiva pale e si diresse davanti la nostra abitazione capimmo che qualcosa non andava. Ma ci rassicurarono: signora, le pale sono silenziose e non succederà nulla. Ci fidammo, che altro puoi fare? Non abbiamo studiato e tante cose non le sappiamo. Poi questi mostri hanno iniziato a girare e la nostra vita se n’è andata”. Il parco eolico cinge la casa, posta nel comune di Sicignano degli Alburni, da ogni lato e la rende invivibile, inutilizzabile. “Siamo in carcere e vogliamo scappare, chi ci viene a liberare?”, chiede Gerardo. Nessuno, finora nessuno.Continue reading

C come Contadini

alfabetoEnergie rinnovabili: in Basilicata Teknosolar, una multinazionale spagnola, è arrivata con una proposta: dateci la terra per costruire un impianto solare e avrete una divisa da operaio. Un gruppo di contadini si oppone
L’ORO di Banzi è rosso come i suoi pomodori, giallo come le spighe di grano. Luccica e si distende nel meraviglioso vuoto che separa questo lembo di Lucania dalla Puglia. È l’orizzonte vasto del sud, pianura persa tra i monti. A Banzi e in tutti gli altri paesi dell’alta valle del Bradano la zappa è la regina maestosa della vita. Amica fedele ma crudele, sacrificio perenne ma anche salvezza di chi non ha altro tra le mani che le mani e il pomodoro e il grano in testa. Nessuno finora veniva a cercare i contadini, anzi per dirla tutta chi può ha sempre cercato di scappare da loro, da qui. L’emigrazione svuota le case, riduce le piazze a ritrovo di corpi ormai inabili al lavoro e trasforma ogni viaggio verso nord in un miraggio. Poi, colpo di scena! È successo che qualcuno ha finalmente bussato alla porta delle masserie.

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Vivere sotto una tenda davanti alla fabbrica che è morta di eutanasia

Risalendo verso nord, mi fermo a Battipaglia. Nel paradosso italiano non poteva mancare l’esemplare, incredibile storia di questo default alla rovescia. Gruppo Paif. Qui gli operai coprivano i turni di giorno e qualche volta anche di notte, e pure i festivi erano impegnati in fabbrica. Non avevano bisogno di correr dietro i clienti, era il lavoro che correva dietro agli 84 lavoratori del gruppo. “Producevamo posate e piatti di plastica. Due milioni di pezzi all’anno. Le migliori posate, i migliori piatti erano i nostri. E le grandi catene di distribuzione non ci mollavano: Auchan, Coop… anticipavano i pagamenti per ottenere forniture regolari”. Quaranta milioni di fatturato, salute ottima ma impresa fallita. Produzione eccellente, innovazione continua, alta tecnologia: i fondamentali erano a posto eppure non c’è stato scampo. I proprietari, con uno slalom tra banche e investimenti temerari verso altri business, hanno svuotato la cassa e ridotto gli operai sotto una tenda. Sono lì da dicembre, quando l’ora x è scattata. Continue reading