Nei panni dell’avversario

Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l’accorgerti che ha un po’, o molto, di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire.

La Città Futura, 1917

Il saccheggio dei palloncini

GIORGIO MOTTOLA

A Napoli, ormai, solo nel quartiere di Forcella si possono ancora trovare le sigarette di contrabbando. Sono esposte per strada, in via Giudecca Vecchia, su tavolini di legno, a cui siedono anziane con il nasone e i capelli crespi da zingara. Di fronte a loro, cumuli di immondizia fetida, sovrastati dalla merce invenduta o “invendibile” dei fruttivendoli e dei pescivendoli ambulanti. A fianco ai cassonetti, hanno, da vent’anni, le loro bancarelle attrezzate su cassette di plastica: ogni giorno, le montano al mattino per poi smontarle la sera. Lasciando il posto, quando cala il buio, agli immigrati di tutto il mondo. Davanti ai phone center e agli alimentari, aperti fino a notte fonda, e gestiti da gente con diverso accento ma ugualmente straniero, trascorrono la loro silenziosa e malinconica movida, appollaiati su scatole di cartone. Lontani anni luce dalle schiumose birre doppio malto della studentesca piazza del Kesté o dai mojto che a San Pasquale fanno scorrere più fluide le serate della borghesia napoletana.
Ora, provate a immaginare che in un posto come Forcella, in una domenica di fine giugno, compaia all’improvviso un cavallo bianco. Bardato e con il pennacchio, legato a una carrozza scoperta, con le imbottiture bianche e soffici. Sarebbe un perfetto quadro surrealista. Un provocatorio paradosso degno di un film di Bunuel o forse di Ciprì e Maresco.Continue reading

Il giorno dell’America

(…) Così, è vero — secondo Rudyard Kipling — le scimmie Bandar Log della giungla cantano ogni minuto di ogni ora, di ogni settimana, di ogni mese, di ogni anno. Cantano e non fanno, parlano e il verbo non diventa mai carne (le scimmie sono erbivore e gli alti prezzi non stimolano in loro le iniziative individuali). La democrazia italiana non è invece tribù di scimmie: alle parole fa seguire i fatti, educa le velleità e le fa diventare volontà consapevoli dei mezzi e dei fini. Il giorno dell’America ne ha dato una prova. Il giorno dell’America è stato un momento di vita democratica: il «popolo» italiano vagamente sentiva il bisogno di entrare in comunione spirituale col «popolo» degli Stati Uniti. Abbandonato a se stesso questo bisogno vago e indistinto si sarebbe esaurito tutto in vane esteriorità, in manifestazioni di spolvero: cortei, fiaccolate, grida di abbasso ed evviva; non si sarebbe la commemorazione in nulla distinta da una sagra cattolica. Ma il «popolo» italiano ha la rara fortuna di possedere nel suo seno la democrazia, cioè l’organizzazione politica che trasforma il pensiero in volontà, in consapevolezza le indistinte tendenze dell’«anima» popolare. (…) Non fu davvero una giornata perduta. Il popolo italiano apprese a conoscere meglio un altro popolo: furono suscitate simpatie solide, condizione necessaria per la pacifica convivenza internazionale, garanzia preziosa che se domani un gruppetto di scalmanati (tutto è possibile!) predicasse la necessità della guerra agli Stati Uniti, spontaneamente il popolo rigetti le invenzioni interessate e abbia gli elementi per giudicare le manovre interessate. La democrazia ha svolto opera nobilissima, altamente encomiabile. Ha svolto? Ohibò, ha svolto o svolgerà; il futuro è uguale al presente: se non lo ha fatto quest’anno lo farà l’anno venturo o in un altr’anno. Si farà, si farà… noi siamo i più saggi, i più geniali, i più chiaroveggenti uomini della terra, vedrete cosa saremo capaci di fare… domani, perché la vita nuova incomincerà domani, come per i Bandar Log della giungla di Rudyard Kipling.

Sotto la Mole, Avanti!, 8 luglio 1918

Commercio e crisi

MARCO MORELLO

Per scovarlo, a Roma, bisogna lasciarsi alle spalle il Senato, camminando lungo corso del Rinascimento verso il curvone che svela piazza delle Cinque Lune. Dall’esterno, accanto al civico 72, il negozio ha l’apparenza di una comune enoteca, con la vetrina a specchio, le bottiglie disposte in fila indiana, persino una botte in legno e tre grappoli d’uva stilizzati, a conforto della tesi di un passante distratto. Bisogna varcare la soglia perché «Ai monasteri» sveli tutto il suo potere evocativo, la forza di un passato impacchettato in confezioni e vasetti eleganti, dal sapore marcatamente retrò e il marchio di fabbrica dell’esclusività.
Qui si vendono, e il proprietario assicura sia un caso unico al mondo, i prodotti realizzati dalla maggior parte degli ordini monastici: liquori e miele, cosmetici e dolciumi. Tutti preparati ubbidendo a ricette antichissime, tramandate di generazione in generazione nel segreto buio e inviolabile delle celle. Il presente, però, rischia di coniugarsi al passato: a fine anno le saracinesche potrebbero abbassarsi per sempre. Colpa della crisi, dei conti che non tornano più, di una domanda che langue anche quando l’offerta non ha rivali ma solo goffi imitatori, pure quando le principali guide turistiche dedicano uno spazio o una citazione al negozio da non perdere, all’attrazione del tempo in formato souvenir.
«Sto facendo un grande atto d’umiltà a lanciare questo grido d’allarme, vorrei evitare di chiudere, di imboccare quella che al momento mi pare una direzione obbligata», chiarisce Umberto Nardi, un uomo d’altri tempi per stile ed eleganza, che quando pronuncia la parola fallimento abbassa gli occhi, quasi arrossisce. Che di mestiere non fa il venditore, ma il professore di Botanica Farmaceutica alla Cattolica. «Ai monasteri» per lui non è soltanto un hobby, ma anche una lucente eredità di famiglia, il ricordo tangibile di una storia centenaria. Fu il bisnonno Domenico ad aprire i battenti nel 1894, sempre nello stesso angolo sonnacchioso al centro di Roma: era un medico che partecipò a numerose spedizioni in Africa Orientale, finché non divenne una sorta di messo dei monaci, un inviato sul campo a caccia di erbe rare.Continue reading

Le bufale in autogestione

La storia sentimentale tra l’allevatore Antonio Palmieri e le sue bufale ha inizio qualche decennio fa quando gli toccano, in eredità, duecento ettari di terreno acquitrinoso nella piana del Sele sui quali si adagiano questi bestioni neri, parecchio selvatici e parecchio puzzolenti. Dagli occhi pieni di sangue, scriveva Goethe. “Pensai invece che sarebbe stato un ottimo affare voler bene alle bufale”. Palmieri voleva fare la migliore mozzarella col latte della sua mandria e trovò la radice quadrata della sua fortuna: “Il loro benessere garantisce la qualità del latte e, per proprietà transitiva, la mia mozzarella… Capii presto che le bufale non amano lo sporco e nella palude ci sguazzano se non ne possono fare a meno. Sono invece piuttosto educate, democratiche nella gestione della vita di mandria, delicate nell’utilizzo degli attrezzi che le fanno star bene. Non legano con chi è scorbutico: i mungitori per esempio hanno spesso fretta e le indispongono. L’uomo sa essere cattivo e quindi loro restituiscono pan per focaccia”.
Da qui, con un occhio al sentimento e l’altro al portafoglio, la nascita del primo gruppo di bufale autogestite.
Fanno tutto da sole. Si lavano, si spazzolano, si mungono, si dividono i pasti. Entrano ed escono (da sole) dall’infermeria quando qualcosa non va e, in caso di gravidanza, godono di un permesso sindacale di tre mesi di astensione dal lavoro prima del parto: al pascolo allo stato brado, su e giù senza far nulla fino all’arrivo della figliolanza.
Il computer è stato l’amico di Palmieri e un sistema robotizzato lo strumento col quale fa girare a meraviglia la società animale, distesa proprio dietro i Templi di Paestum. “Il robot me l’hanno venduto gli svedesi, ma che fatica! Dicevano che le bufale erano meno intelligenti delle vacche e il loro sistema, adatto alla gestione della sola comunità di vacche, avrebbe fallito. Io a ripetergli: “La bufala è molto intelligente, e non c’è paragone tra lei e una mucca. Ma scherziamo?”.Continue reading

Ottimismo e pessimismo

È da osservare che l’ottimismo non è altro, molto spesso, che un modo di difendere la propria pigrizia, le proprie irresponsabilità, la volontà di non far nulla. È anche una forma di fatalismo e di meccanicismo. Si conta sui fattori estranei alla propria volontà ed operosità, li si esalta, pare che si bruci di un sacro entusiasmo. E l’entusiasmo non è che esteriore adorazione di feticci. Reazione necessaria, che deve avere per punto di partenza l’intelligenza. Il solo entusiasmo giustificabile è quello che accompagna la volontà intelligente, l’operosità intelligente, la ricchezza inventiva in iniziative concrete che modificano la realtà esistente.

Quaderni del carcere, Passato e presente