Chi pagherà per lo sgoverno delle Regioni?

Le regioni sono le centrali operative dello sgoverno. Il motore inesauribile della polemica quotidiana, della contestazione da talk show, di quell’andirivieni di decisioni e revoche che fanno dell’Italia a colori il labirinto perfetto delle inadempienze a cordata multipla. La pandemia ha dato ai governatori non la responsabilità di spiegare le falle infinite di un sistema sanitario per il quale spendono e sprecano da quarant’anni l’ottanta per cento del loro bilancio e l’obbligo di renderne conto. No, i governatori – per merito di noi giornalisti – si sono trasformati in opinionisti da talk show o – nei casi peggiori, come quello della Campania – in odiatori del web.

Rimuovere Arcuri, perfetto (anche in questo caso, va detto, per suo merito) capro espiatorio, è la soluzione insieme più spettacolare e più ipocrita. Un sommovimento apparente. Intatto il potere deviante dei ventuno possedimenti regionali, ciascuno col suo gruzzolo elettorale da far valere, il partito da cui essere difeso, e la gloria dell’ultima cazzata sparata in tv. Prendiamo, ad esempio Giovanni Toti, il fantuttone ligure televisivo. Parla, parla e parla. Ma poi cosa fa? La sua regione è riuscita a curare bene? Non si direbbe. E’ riuscita a vaccinare meglio? Fa piangere. E perché ce lo teniamo? Per dirci che è necessario aprire, invece che chiudere e bla bla bla. E quello calabrese, e il molisano? Ciascuno sceglie e decide in autonomia cosa non fare. Campobasso si ritrova senza terapie intensive, mai allestite. Chi paga? La Calabria senza punture, benché i vaccini siano in frigo. Anche qui: chi paga? E chi pagherà in Lombardia? Chi chiederà conto alla Campania dei criteri di somministrazione delle dosi? Sono andate secondo la regola del maggior bisogno, secondo i criteri esatti del piano ministeriale?

Rimuovere Arcuri è stato facile. Più complicato rievocare il tempo in cui i medici visitavano a mani nude e mettevano ai piedi i sacchetti di plastica. Oggi torna in voga l’organizzazione perfetta della Protezione civile. Eppure a marzo scorso non c’era una, una! mascherina nei suoi depositi e il piano pandemico, che pure sarebbe uno strumento essenziale di protezione civile, sepolto dalla polvere. Facile dire oggi che i banchi di scuola non servono. Difficile dirlo ieri, quando il Cts nel maggio scorso ammoniva la ministra dell’Istruzione che l’unica possibilità di riaprire a settembre fosse quella di dotare ogni aula di banchi singoli. Arcuri li ha acquistati, com’era nel suo compito. Doveva invece rifiutarsi? In nome di quale potere alternativo?

Ora che gli ospedali bolognesi sono pieni di nuovi ammalati e il sindaco della città chiede subito la zona rossa, riascoltare le parole del presidente dell’Emilia Stefano Bonaccini di appena qualche giorno fa: tutte un cip e ciop con quelle di Matteo Salvini che – indossata la maglietta “Io riapro” – indicava naturalmente la strada inversa.

La realtà è questa. Non farci i conti sarebbe da buffoni.

Da: ilfattoquotidiano.it

Il Nord e quei malati immaginari

Il nord e quei malati immaginari. Nelle scorse ore una manina ha infilato nel testo di conversione del cosiddetto “Milleproroghe”, l’orribile catino dove la rendita parassitaria della politica fa strage di ogni diritto, un emendamento che avrebbe alterato la base di calcolo della divisione delle risorse tra le regioni in tema di sanità. Come si sa il Sud versa più di un miliardo di euro all’anno al Nord per far curare lì i suoi malati. E’ il disastroso effetto del turismo sanitario, figlio di una malagestione pluridecennale di cui il Meridione dovrebbe vergognarsi. Nel caso specifico però la vergogna, se proprio dobbiamo dirla tutta, è di chi ha l’ansia di godere, oltre il giusto, di questo via vai di disperati. Infatti la manina della deputata leghista Andreina Comaroli aveva proposto al governo esordiente, già sonnacchioso e distratto, di praticare la divisione dei soldini col vecchio criterio andato in soffitta l’anno scorso. Cioè ripartire i soldi del 2021 tenendo a mente i ricoveri del 2019 e non quelli del 2020, come per legge. L’anno scorso infatti, causa pandemia, il turismo dei malati si è quasi azzerato, ciascuno ha curato – si fa per dire – i propri guai in casa, e dunque la voce “mobilità passiva” che nel bilancio delle Asl di Emilia, Veneto e Lombardia è divenuta una delle più ricche, adesso langue. Per far quadrare i bilanci la leghista Comaroli ha dunque proposto “l’alterazione” del criterio: il governo doveva far finta che la pandemia non fosse esistita, le regioni del Sud sganciare 700 milioni di euro a quelle tre del nord per la cura di malati immaginari. Meglio di Totò e Peppino. L’emendamento non è stato approvato per merito, bisogna dirlo, delle proteste di quattro parlamentari (due di Forza Italia e due del Pd: Stefania Prestigiacomo, Paolo Russo, Ubaldo Pagano e Pietro Navarra) che hanno convinto la ministra del Sud Mara Carfagna a dare parere negativo. Resta però intatta la filosofia della manina leghista, quella propensione a sgraffignare un po’ sui conti, e, con eleganza, a fregare il prossimo.

Da: ilfattoquotidiano.it

La crisi di governo toglie alla politica la radice della sua funzione: rappresentare la società

Provocare la crisi di governo adesso, pur mettendo uno sull’altro tutti gli errori compiuti, è contro la logica, la banale comprensione, il minimo senso della misura. Questo, prima che ogni altra considerazione, resta il chiodo a cui sono appese le responsabilità di Matteo Renzi.

In qualunque modo vada, lo spettacolo di Montecitorio – riunito in seduta straordinaria, con l’ansia dei presenti e quell’eccitazione di chi coglie nella giornata un evento campale – disconnette la politica dalla società, le toglie la radice della sua funzione: rappresentarla.

Sono 82mila i morti e se quei morti fossero oggi vivi non riuscirebbero tutti a trovar posto a San Siro. E sappiamo che domani saranno di più, dopodomani ancora di più, e chissà per quanto tempo ancora. E tanti altri, troppi altri sono stati piegati, se non dalla salute, nella loro condizione economica, nelle loro speranze.

Solo oggi, ma perché c’è la crisi, il Parlamento riempie i suoi spalti. Solo oggi.

Da: ilfattoquotidiano.it

I tre paradossi della crisi di governo: Matteo Renzi, Giuseppe Conte e il contesto in cui è maturata

Nella catena dei paradossi che alimenta questa crisi di governo, almeno tre sono fuori dell’ordinario e assumono l’aspetto di fenomeni parossistici. Primo paradosso: il contesto. La crisi si apre non semplicemente nel pieno di una pandemia ma nel periodo più oscuro, difficile e rischioso, in quella che sembra una vera e propria emergenza umanitaria. Il virus si è messo così tanto a correre che proietta su numeri “esorbitanti”, come ci annuncia la vicina Germania, il saldo della sue infezioni. Al punto che la Baviera oggi rende obbligatoria la mascherina FFP2 perché evidentemente quella chirurgica non difende più, o non difende abbastanza. Sempre oggi le Poste londinesi riducono in molti distretti della città le consegne. Nei quartieri più a rischio sono addirittura sospese per via del timore che anche quel minimo gesto che riduce le distanze possa provocare contagio.

Secondo paradosso: Renzi. Non c’è alcun dubbio che Matteo Renzi non conterà mai in nessun altro governo con nessun altro premier quanto conta con questo che sta buttando a mare. Quel che ha ottenuto non è poco: le correzioni al Recovery, l’apertura alla possibilità di avere un terzo ministero di peso, la gestione, non più diretta da parte del premier dei servizi segreti. Ma senza Giuseppe Conte, con un esecutivo di unità nazionale o di “scopo” la presenza di Italia viva e la sua utilità marginale sarebbero azzerate. Entrerebbero altri attori in campo e con una maggiore dimensione numerica, sempre ammesso che nel Parlamento si trovassero le disponibilità a realizzare questo esecutivo di salvezza nazionale. Nel caso invece, a mio avviso più probabile, che la strada fossero le elezioni anticipate il costo dell’operazione per Matteo Renzi sarebbe ancora più salato. Sparirebbe o quasi dalla circolazione.

Terzo paradosso: Giuseppe Conte. Sta imparando adesso che il dosaggio delle mediazioni, che fino a qualche mese fa gli sarà parso elisir di lunga vita, non allunga l’esistenza ma anzi l’accorcia. Le mezze misure, i mezzo altolà, la diluizione continua dei contrasti hanno dato sponda a colui che non aspettava altro di dire: non lo faccio per le poltrone, ma per il Paese. Come per la revoca della concessione autostradale ai Benetton, anche la discussione e la correzione di questo benedetto Recovery andava anticipata. Conte dice che ora bisogna correre. L’avesse detto ad ottobre adesso forse la corsa si sarebbe già conclusa.

Da: ilfattoquotidiano.it

Trump bloccato da Facebook e Instagram: ma se fosse lui a decidere chi silenziare sui social?

Facebook e Instagram hanno bloccato a tempo indeterminato gli account di Donald Trump. Tutti noi siamo consapevoli dell’atteggiamento eversivo che ha condotto il presidente uscente degli Stati Uniti a fomentare la rivolta barbarica, pienamente golpista, che ha sconvolto gli Usa e il mondo intero.

Eppure anche in queste ore, anche noi che siamo fieri di avversare ogni sillaba di quest’uomo pericoloso, abbiamo il dovere di giungere fino al fondo della questione: è possibile che un uomo detenga il monopolio assoluto di tutta l’informazione che corre sui social network? E’ possibile che decida, a suo insindacabile giudizio, chi ammettere e chi estromettere? E’ possibile che il suo giudizio lo fondi sulle proprie convinzioni politiche o religiose? E se domani Mark Zuckerberg, il padrone del vapore, vendesse a un altro ricchissimo e potente, la sua merce? Se domani fosse un altro, per esempio Donald Trump, a impossessarsi del vapore? E se costui usasse il suo potere per deviare, manipolare, disinformare, ostruire la libera partecipazione dei cittadini alla vita democratica del proprio Paese?

La conoscenza è il bene indiscutibile e inalienabile della democrazia. Il fatto che gli Stati non la sottraggano al monopolio di privati, non costruiscano una rete di regole trasparenti e chiare, una serie di garanzie che diano la possibilità a ciascuno dell’esercizio del diritto alla difesa delle proprie opinioni, a vederle almeno discusse, a conoscerne l’epilogo, è il pericolo più grande e più grave.

Oggi siamo contenti che il fanatismo criminogeno di Trump sia stato messo a tacere. Domani potremmo essere feriti se uguale sorte, secondo gli insindacabili giudizi di un padrone assoluto, toccasse a chi – a nostro avviso – non la merita affatto.

Da: ilfattoquotidiano.it

Colpa d’Arcuri: il ritornello delle opposizioni (anche) sui vaccini. Ma avere antipatico lui è comprensibile, avere sulle scatole la logica no

Non vi è dubbio alcuno che Domenico Arcuri, il commissario straordinario all’emergenza, ce la metta tutta per risultare antipatico. Nello sviluppo altezzoso del lessico, pieno di subordinate ad ampio spettro borbonico, nel tono di chi invece di spiegare le cose illustra la sua sapienza e nell’illustrarla svicola spesso dalla linea retta della realtà. Dunque, ripetiamo: non è un ammaliatore. Eccede in autostima (per sfotterlo narrano che, nel salutare un amico, lui dica: “Ciao, come sto?”) tanto da ritenersi capace di raccogliere sotto la sua mano tutte le emergenze d’Italia, dal Covid all’Ilva.

Ma la presunta antipatia di Arcuri non è un motivo ancora sufficiente per prendersela con lui. E invece, come in queste ore, frotte di accusatori lo convocano sul banco degli imputati a rendere conto delle lentezze del piano vaccini. Molti Capezzone (dal nome del re del pensiero ad capocchiam) si fanno avanti e domandano, increduli, come sia possibile che Arcuri sia ancora al proprio posto. Per l’efficientista Carlo Calenda (e quelli di Italia Viva e tutta l’opposizione) andrebbe licenziato su due piedi. Per tutto ciò che ha combinato prima e sta combinando adesso. Cioè? Incredibilmente, goccia che farebbe traboccare il famoso vaso, ancora non sono al lavoro i vaccinatori, la squadra dei 15mila medici e infermieri appena reclutati che dovranno somministrare agli italiani il vaccino. “Solo dal prossimo 1 febbraio inizieranno a prestare servizio!”. Vergogna!

Ora, santa pazienza, le dosi dei vaccini per gli italiani rinchiusi a casa arriveranno solo a febbraio e in quantità purtroppo limitate. Quelle giunte la settimana scorsa sono destinate all’organico della sanità e agli ospiti delle Rsa protette. E le dosi, nel numero di 470mila settimanali, sono tutte giunte nei luoghi di somministrazione. Quale colpa dovremmo dunque imputare ad Arcuri? Di aver fatto giungere le dosi nei luoghi esatti della somministrazione nei tempi stabiliti e anzi con sette giorni di anticipo? O di non aver arruolato un plotone di medici e infermieri per inoculare il vaccino ad altri medici e infermieri? Sarebbe stata questa una buona spesa? Avremmo di sicuro fatto ridere il mondo. E allora qual è il problema? Mancano le siringhe? Non sembra affatto. Le dosi? Sono esattamente quelle preventivate. E allora? E allora Arcuri.

La verità è che le direzioni sanitarie degli ospedali italiani avevano tutte in agenda l’arrivo dei vaccini il 4 gennaio, e predisposto i turni di somministrazione da quel giorno. L’anticipo è stato valutato da quelle direzioni come un inconveniente e non come un aiuto in più per avanzare nell’immunizzazione della prima linea. Tutte le regioni avevano infatti comunicato al commissario i piani per completare quotidianamente la somministrazione di 65mila dosi, cifra utile per raggiungere il totale settimanale in arrivo da Pfizer.

I turni dei vaccinatori interni non sono stati però rimodulati nella settimana a cavallo tra Natale e Capodanno. “Non li richiamo certo dalle ferie”, ha dichiarato per esempio lo stupefacente assessore lombardo Gallera. Gli altri suoi colleghi hanno avuto la prudenza di non dirlo così sfacciatamente ma più o meno hanno fatto uguale. E allora? Allora Arcuri.

Avere sulle scatole lui è anche comprensibile, ma avere sulle scatole la logica no.

Da: ilfattoquotidiano.it

Ciao, Fuck, Vaffa, Red. Le proposte dei partiti di maggioranza per il Recovery

Nella corsa all’utilizzo più straordinario possibile del Recovery Fund i partiti di maggioranza e anche quelli di opposizione stanno per inaugurare una competizione virtuosa per portare al tavolo di Giuseppe Conte proposte concrete, con un’anima e una vision finora inespresse dallo striminzito piano del premier. Leu non ritiene – viste anche le percentuali elettorali – di lasciare a Italia Viva il monopolio delle osservazioni. E sta mettendo in campo un documento con ben 122 indicazioni “cogenti, necessarie e insopprimibili” per rendere l’Italia davvero protagonista. R.E.D. è l’acronimo (ma l’intestazione completa è ancora segreta) che illustrerà la proposta. Possiamo già dire che il documento di Renzi, noto come C.I.A.O., sembra al confronto un bignamino.

E Zingaretti? Il Pd non sta certo con le mani in mano e da 61 giorni 61 commissioni paritetiche stanno lavorando per sfornare un documento completo in ogni sua parte, declinato in 244 misure “coerenti e indispensabili” per fare entrare a pieno titolo l’Italia tra i costruttori della famigerata “next generation”. F.U.C.K. è il titolo che vuole enfatizzare l’energia propositiva del riformismo italiano. Anche i Cinquestelle, primo partito in Parlamento, non si sono sottratti alla sfida. La novità più importante che portano alla discussione pubblica è la rottura lessicale, la sfida politica e linguistica annunciata già dal titolo. Si chiamerà V.A.F.F.A. il documento naturalmente tutto centrato sull’orgoglio italiano. Inutile dire che sono pagine dense e numerose che contemplano anche espressioni tipiche dialettali per rispettare le identità e le autonomie locali. In tutto sono 488 proposte, contrassegnate dall’asterisco “prendere o lasciare”.

Spetterà ora a Conte fare sintesi delle 915 indicazioni (ciascuna dotata di una unità di missione dedicata per rendere efficiente la macchina burocratica) e giungere nel più breve tempo possibile a una proposta che raccolga anche quelle (in tutto solo altre 1830) dell’opposizione che assolutamente deve essere coinvolta in questo disegno strategico.

Da: ilfattoquotidiano.it

Fenomenologia di Zangrillo

Che figata salvare vite umane mentre gli sciacalli che non hanno mai tenuto la mano a un malato sparano cazzate in televisione”. Questo testo, così curato nella forma, è del professor Alberto Zangrillo, primario anestesista al San Raffaele e medico personale di Silvio Berlusconi. Se è il linguaggio che svela l’uomo (“dimmi come parli e ti dirò chi sei”) allora siamo già alla top ten. Perché l’uomo in questione ci comunica, rinfrancato dalla “figata” di aver salvato la vita a un paziente, che in giro ci sono vari “sciacalli” travestiti da scienziati. Sarebbero suoi colleghi, se non fosse che Zangrillo medesimo ci garantisce il contrario e ci assicura che non solo “non hanno mai tenuto la mano a un malato”, ma “sparano cazzate” a raffica e per di più in televisione.

L’eccellenza scientifica, nella fluida esposizione zangrillesca, è visivamente riunita in un club di coglioni e purtroppo per noi anche parecchio stronzi. In definitiva sciacalli. L’intento supponiamo che sia pieno di buone intenzioni. Il professore infatti tenta, filologicamente, di separare il grano dal loglio, e contribuire alla buona sanità indicandoci per tempo i rischi che corriamo. Qui non c’è di mezzo solo il Covid e Zangrillo medesimo ci esorta a mantenere un rigido distanziamento quando, per disgrazia, dovessimo ricorrere alle cure ospedaliere e per sovrammercato dovessimo riconoscere tra i curanti qualcuno visto in tv.

Zangrillo ci garantisce che non potrebbe mai succedere perché gli “sciacalli” sono medici per modo di dire, scienziati senza clinica, chirurghi senza bisturi. Non è affatto detto però che presto sempre Zangrillo – dopo essersi consultato con Ippocrate – non pubblichi la lista dei medici cazzoni che sparano cazzate, e lo faccia parlando – per la virtù dell’empatia lessicale – proprio nel modo di un cazzone che spara cazzate.

Da: ilfattoquotidiano.it

La passione per la lagna ai tempi del coronavirus. Solo chi parla ha sempre ragione

La lagna è quel misto di capriccio e riprovazione che segue al declinare della paura. E infatti – oggi più di ieri – ci lagniamo a ogni piè sospinto e per qualunque cosa. L’altro ieri ci siamo lagnati per le piste di sci chiuse, oggi e domani per il cenone di Natale annullato. Domani e dopo domani per i ristori grami. Si lagna chi ha diritto di lagnarsi e chi, quel diritto, proprio non ce l’ha.

In estate ci siamo lagnati, per esempio, dell’annuncio del presidente del Consiglio che addirittura a dicembre sarebbe giunto il vaccino. Eravamo pronti ad attenderlo alla fine del prossimo anno e perciò l’abbiamo ritenuta una inavvedutezza e alcuni di noi, soprattutto noi giornalisti, hanno intimato: “Sono insopportabili questi annunci costruiti nel vuoto”. Ad agosto ci siamo lagnati che le scuole non fossero ancora riaperte. Ad ottobre ci siamo lagnati del fatto che le scuole fossero state riaperte. A novembre che non si fosse fatto ad ottobre un lockdown duro, al primo colpo di tosse. Così avremmo avuto un Natale sereno.

Invece Conte ha scelto i semafori, il giallo, il rosso e l’arancione, garantendoci comunque un Natale sereno. Oggi abbiamo chiesto conto del perché ci avesse promesso un Natale sereno e spensierato e invece non lo è. E lagnandoci, abbiamo anche chiesto a Conte del perché tanti italiani muoiano. Il presidente del Consiglio è stato assai evasivo. E questo è insopportabile. Avrebbe dovuto parlare un linguaggio di verità. Per esempio? Dirci che i medici ancora non ci stanno capendo nulla con questo virus, si affaticano ma spesso sono inconcludenti. Alcuni, in verità se la danno a gambe levate e curano attraverso whatsapp. Tachipirina e amen. E anche i virologi dicono e poi negano. Parlano e straparlano. Come pure i politici. Figurarsi i politici poi!

Forse dovremmo fare come in Cina, se però fossimo cinesi. O come in Giappone, se fossimo giapponesi. O come in Svezia, se fossimo svedesi. No, svedesi no. Anche lì si muore e il loro re ha accusato il governo di essere stato terribilmente inetto. Allora come in Svizzera, se fossimo svizzeri. Però, avete sentito? Hanno persino vietato di cantare i motivetti natalizi in casa.

Ridicoli tutti (tranne naturalmente me!).

Da: ilfattoquotidiano.it

Se la morte comincia a essere valutata come un inevitabile effetto collaterale dell’economia

“E i soldi?”. Finora eravamo abituati a valutare l’indice di contagio, il famoso Rt, come l’unica e ultima verità che ci liberava oppure ci chiudeva in casa. Invece ieri, nel continuo traccheggiamento governativo sul lockdown natalizio, proprio Giuseppe Conte ha sottoposto ai ministri la nuova questione cruciale. Più del contagio sono i soldi che impongono un lockdown leggero. Chiudere per troppo tempo significherebbe innalzare l’asticella dei ristori. Ma la cassa, dopo l’ultimo scostamento di bilancio, è vuota.

Perciò nella tragica lotta tra salute ed economia, cosa difendere per prima, la necessità si fa virtù e l’orizzonte si capovolge. Dobbiamo limitare l’emorragia economica, ridurre l’ampiezza dei sussidi, non deprimere gli affari già boccheggianti.

E allora quella dichiarazione che ci è parsa così disumana pronunciata due giorni fa dal presidente di Confindustria della provincia di Macerata sulla necessità di andare avanti e “pazienza” se perderemo per strada qualche altro nonno, si regge sul fondo di una verità che avanza, è condivisa ed è terribile.

La morte, che sei mesi fa ci atterriva, inizia a essere valutata come un doloroso ma inevitabile effetto collaterale dell’economia che deve riprendere la sua corsa.

Costi, per l’appunto, quel che costi.

Da: ilfattoquotidiano.it