Walter Siti: macché proteste, questo è il Paese dell’apatia

Regrediti e rallegrati. Fossero un cast teatrale, gli italiani sarebbero condannati al varietà. Nonostante la crisi nera, che invade e riduce spazi di libertà e di vita civile, resiste una trascuratezza generale, una levità ingiustificata, un’apatia, un sonno che acquieta gli animi. Walter Siti è una specie di anatomo-patologo del capitalismo finanziario e della società sua figlia legittima. Nel libro di maggior successo (Resistere non serve a niente, Rizzoli) ha indagato le quote di voracità che ci hanno condotto dove siamo approdati. Scialuppa stordita dalle onde.
C’è fermento in giro, le piazze si riempiono, l’autunno si fa caldo.
Non nutro troppa fiducia nella rabbia, produce più letteratura (penso a Pasolini) che cambiamenti sociali. Si dimostra inefficace, e quando non lo è tende a farsi ritrarre come una devianza pericolosa che spaventa e riconduce all’ordine. Ricordo i tempi degli Indignados e quelli ancora più recenti di Occupy. Rammento un’intervista televisiva a una ragazza finlandese che protestava a Londra davanti alla chiesa di St.Paul. Spiegava la protesta, atto di solidarietà verso il popolo siriano, la sua amicizia con una ragazza di Damasco. L’intervistatore chiese: dormirà qui stanotte? Rispose: vado da una mia amica perché il rintocco delle campane della chiesa ad ogni ora non mi farebbero dormire. Era bastato un rintocco di campane a farle togliere le tende.
Le proteste avanzano però.
Sono piene le piazze? Non mi sembra. Con la crisi così crudele le strade dovrebbero davvero essere gonfie di corpi. Invece non è così. Forse perché al governo c’è un partito di sinistra e si sa che se vuoi togliere i diritti devi mandare la sinistra a fare quel lavoro. Gli operai, o almeno un buon numero di loro, avranno la coda di paglia.
Stiamo dunque sempre peggio ma osserviamo seduti in salotto con le pantofole ai piedi. Spiega lei perché?
Molti dei senza lavoro o dei precarizzati riescono a condurre una vita ancora decente grazie alla ricchezza accumulata dai genitori. È una condizione che ti sospinge verso l’apatia. C’è un’illusione di onnipotenza per effetto di una tecnologia così elevata e diffusa che riesce a farti credere di avere il mondo in mano con un telefonino acceso. È un’illusione ignobile, siamo in una bolla fantastica che distorce, fa regredire il collettivo all’individuale, sminuzza il successo in millesimi di felicità e ciascuno si accontenta della sua razione.
È internet che ci fa addormentare?
Ero ragazzo e lottavo per cambiare la società. Era una lotta anche cruenta, ma avevo davanti a me un grande orizzonte. Volevamo sovvertire i caratteri culturali di quella convivenza. Se vuoi rovesciare il potere perché ti affama, ti riduce la qualità della vita, i diritti, la felicità, devi anzitutto mutarne la cultura. Ai miei tempi avevamo la fortuna di credere in un mondo che potesse cambiare. Credere in una grande cosa, in un grande futuro, una grande speranza. Ma oggi, con i social network cosa c’è?
Ma è colpa di Facebook o della politica?
È la sinistra che non trova una speranza, non offre una prospettiva. Non combatte una sola battaglia perché il capitalismo finanziario mostri il suo volto: nomi e cognomi, facce, curriculum. La disperazione è data da questa assenza di prospettiva. Lottiamo come? E per cosa?
Quindi ci teniamo Matteo Renzi.
Matteo Renzi che da giovane va alla Ruota della fortuna mostra che, finiti i grandi sogni, restano i piccoli. Finite le rivoluzioni resta il piccolo piacere della vittoria personale nello show televisivo, nell’azzardo individuale. L’apparire in un luogo finto diviene l’unica garanzia di esistere. La televisione è servita a questo.
Come le sembra questo Matteo?
L’ho apprezzato al tempo della sconfitta alle primarie, le prime che ha combattuto con Bersani, per la nettezza con la quale ha ammesso di aver perso. Intuii subito che aveva la capacità di imporsi come persona autentica.
Autentico lo è, competente non sembra.
La competenza passa in secondo piano. Non ha bisogno di esibirla se trova che il suo carisma gli permette di evitare questa fastidiosa incombenza.
Ma un incompetente al potere non è il massimo.
Potrebbe farsi consigliare da chi ne sa più di lui, ma temo che patisca ogni concorrenza. È veramente l’erede di Berlusconi.
E andremo avanti così?
La crisi della democrazia dovremmo prenderla molto più sul serio. Siamo vittime di una frenesia immobile, di una corsa senza senso. Perciò mi meraviglio che la protesta operaia sia ancora contenuta, timida, sussiegosa.
da: Il Fatto Quotidiano 22 novembre 2014

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