Lui ministro razzista, lei rifugiata: quando non è solo l’amore ma anche la logica a sconfiggere la xenofobia

Succede in Norvegia. Lui, uomo bianco, panciuto, maturo, abbastanza ricco e molto razzista, si innamora di una giovane dalla pelle color ambra, molto bella, rifugiata per motivi politici. Lui, Per Sandberg, 58 anni, deputato da oltre venti, è anche ministro della Pesca e ha un curriculum xenofobo di tutto rispetto. Lei, Bahareh Letnes, 28 anni, iraniana, dagli occhi verde smeraldo, risponde all’amore imprevisto e improvviso con l’amore.

La coppia che si forma, secondo la considerazione più immediata e anche banale, è figlia del sentimento che vince contro ogni altra ragione.

Non è però l’amore che fa scavalcare le montagne, come a prima vista sembrerebbe, ma il destino dell’uomo. La sua migrazioneda un luogo all’altro della terra ha costruito il mondo. Il viaggio è la sua condizione incoercibile, la misura irrinunciabile, il senso del dire e del pensiero. Senza la migrazione saremmo oggi ancora all’homo erectus. Perciò i razzisti non solo non hanno ragione, ma neppure hanno logica perché non sanno di essere figli di coloro che odiano e non sanno che coloro che odiano hanno costruito il mondo che loro dicono di voler difendere.

Gli usi e i costumi hanno in sé la cifra del divenire. Mutano i gusti, i vestiti, lo scrivere e l’abitare solo perché abbiamo potuto viaggiare, vedere, gustare, capire.

Se i razzisti sapessero, conoscessero, diventerebbero rossi come i pomodori che fanno raccogliere in casa nostra agli schiavi neri. I razzisti, gli schiavisti forse pensano che i pomodori siano il frutto eletto della Capitanata di Foggia. Mica sanno che gli aztechi ce li hanno fatti conoscere, e che se oggi li mangiamo è solo perché tanti e tanti anni fa siamo andati fin laggiù, nell’America centrale, a scoprire, guardare, conquistare. Cioè a migrare.

da: ilfattoquotidiano.it

Siamo uomini o cellulari?

Divenuti trasponders, celle telefoniche vaganti in perenne attesa del segnale, noi uomini abbiamo trasferito al cellulare la nostra memoria, chiedendogli di sistemare quel che adesso non ci viene più facile né possibile: il ricordo. Poi abbiamo scelto di trasferire a lui la nostra vista, i momenti più belli e anche quelli così così, le foto di rito e quelle di lato, lo scatto memorabile e il fotogramma per l’idraulico, la necessità quotidiana e il momento clou. Foto, e poi foto e poi ancora foto e video e time lapse e ogni altra fantasticheria. Infine abbiano donato il nostro cuore. Con whatsapp o messenger innamorarsi è divenuto un po’ più facile, diretto, possibile. E abbastanza alla nostra portata. Possiamo dirci innamorati in un nano secondo. Basta un emoticon (cuore) per comunicare all’altra il nuovo inizio. Due (cuore più cuore trafitto) se siamo già sulla via dell’intramontabile unione. Tre o più (volto con gli occhietti a forma di cuore è particolarmente increscioso ma pure è all’apice della classifica dell’amore) se la coppia è solida come marmo di Carrara.

Io e voi, quasi tutti voi perché le eccezioni sono davvero poche, dobbiamo ammettere che il cellulare è corpo del nostro corpo, elemento indiscutibile non più ornamento. Siamo sempre connessi. E condividiamo tutto. Condividiamo, cioè facciamo rete, ci colleghiamo, facciamo partecipi l’altro della nostra felicità o del nostro dolore, della nostra preoccupazione, della nostra speranza, delle nostre idee, della nostra civiltà, della nostra verza, dei calli ai piedi, del nostro amato parrucchiere, eccetera. Condividiamo la pizza, il bacio, il ballo, la foto sugli scogli, la foto senza scogli, il nostro bimbo che spegne le candeline, il nostro cane che spegne le candeline, il nostro gatto, i nostri nonni, i funerali, i matrimoni, le gite al lago. Condividiamo tutto, e ci siamo capiti. E grazie a internet, che è uno strumento di conoscenza immediato, popolare, orizzontale, istantaneo, possiamo sapere ogni cosa: dal Ku Klux Klan a Geronimo Stilton, da Beethoven alla pasta frolla.

Quello che non mi torna è che, pur condividendo tanto, non siamo coesi, e pur connettendoci di notte e di giorno restiamo sempre più soli. E anche se abbiamo la fortuna della conoscenza gratuita e istantanea, promuoviamo forme di ignoranza collettiva, di analfabetismo funzionale, quando non di vera e propria idiozia. A me sembra, e chiedo scusa se sono di parere opposto al vostro, che anche nel dibattito pubblico ci sia una corsa verso la cretineria, di gruppo o singola. Forse però la risposta che dovremmo darci è più amara ma più vera: il fatto è che siamo più stupidi di quanto riteniamo, e meno talentuosi di quel che supponiamo, e forse anche un tantino più ignoranti di quanto speravamo. Internet ci ha fatto allora questo regalo: tenere lo smartphone sempre acceso, e chiedergli di fare le nostre veci: ricordare al nostro posto, e ricordare quanto più è possibile (memoria illimitata!), indicarci la retta via (con google maps!), l’amore per la vita (cuoricini, uno o un suo multiplo), e infine la convinzione di essere stimabili anche se risultiamo ridicoli.

da: ilfattoquotidiano.it

Lei canta, il padre muore sotto il palco: Martina e quell’ultimo bacio

La storia di Martina Salsedo, livornese, cantante blues, è la storia della vita, il mistero che ci trascina alla felicità o ci restituisce l’infelicità come fosse un servizio promesso, un obbligo da adempiere.

Martina, come racconta oggi il Corriere della Sera, mette la sua voce al servizio dei più grandi bluesmen. Domenica sera invece era tutto suo il concerto, nella sua Livorno, tra i suoi amici. Ad un tratto la platea ha iniziato a urlare, uno spettatore si era sentito male e aveva bisogno di soccorso. Lei ha bloccato i musicisti, ed è corsa a vedere. Si è accorta, benché le luci psichedeliche fossero ancora in funzione e rendessero meno nitidi i volti, i lineamenti, che l’uomo steso a terra, sessantotto anni, era il suo papà. Gli stavano praticando il massaggio cardiaco, e a farlo era una sua amica infermiera, anch’ella presente allo spettacolo.

Martina non sapeva che suo padre era lì, e non poteva immaginare di assistere alla sua morte in diretta. Quando, qualche istante dopo, ha dovuto riaccendere il suo telefonino ha trovato l’sms: “Sono qui che ti ascolto, sei una forza figlia mia. Un bacio”.

Quel bacio è stato l’ultimo suo bacio. Un bacio dato e mai ricevuto.

Dovremmo far fronte all’impellenza della vita, e anche al suo mistero, con più generosità, con più ardore e soprattutto con più necessità. Bisognerebbe far presto per esempio, e più presto che si può, ad amare, e cogliere con tutte le forze la felicità possibile, agognata, persino necessaria. Perché il tempo dell’infelicità è sempre in agguato, non smette mai di sorprenderci.

Dovremmo farci sorprendere dalla gioia, la gioia pura. A volte, chissà perché, resistiamo a questa eventualità, non la riteniamo un’impellenza. E i nostri pensieri si fanno tristi, ritenendo forse che la malinconia, lo scoramento o solo la rabbia per tutto quello che non va si addicano alle nostre giornate spesso piene di noia. Senza sapere che il dolore è lì dove non pensiamo, proprio quando non ci sembra possibile, nel modo che nemmeno immaginiamo.

da: ilfattoquotidiano.it

I libri da leggere in estate e quelli che vanno bene in inverno. I consigli della leghista

Ci sono libri più consoni all’estate. E libri che andrebbero letti d’inverno. Cappuccetto rosso, Geronimo Stilton e altri grandi classici del fumetto, Paperino a Paperopoli, le avventure di Gastone, oppure, per le femminucce, La bella addormentata nel bosco vanno bene ai bambini in gita. Per le ragazze da matrimonio, le nubili attempate, o le single di successo i romanzi sono il meglio per una vacanza da sogno. I maschi, sotto l’ombrellone, potrebbero fantasticare con i libri d’avventura. Secondo Elisa Montemagni, capogruppo della Lega in Toscana, esistono dei libri “più consoni al periodo estivo” a differenza di altri. La leghista ce l’aveva col mio saggio su Salvini (“Il ministro della paura”, Paper First) che oltre ad essere “contro” il suo leader, sarebbe risultato inappropriato presentarlo in una serata estiva e per di più patrocinato da un ente pubblico.

Montemagni, senza alcun dubbio, divora i saggi, e specialmente quelli politici, ma solo nel periodo autunno-inverno. E con lei tutti i dirigenti leghisti. L’idea, ora che ce l’ha spiegata, non risulta affatto peregrina: leggere qualcosa che faccia sorridere o fantasticare o anche appassionare è sempre meglio che incupirsi con la realtà a noi contemporanea specialmente in un periodo in cui il nostro corpo e la nostra mente raggiungono l’agognata libertà dal pensiero. Sono sempre preoccupazioni in meno. Con il corpo in ammollo a mare oppure al pascolo sulle montagne è opportuno, desiderabile, invidiabile un libro di inchiesta? Decisamente no. Ridurrebbe la vacanza a uno strazio e farebbe perdere l’attimo fuggente della felicità.

Chissà se la Montemagni farà carriera nel partito di Salvini. A occhio, direi di sì.

da: ilfattoquotidiano.it

Migranti, meglio morti. Perché solo così ci sembrano umani, proprio come noi

Tre giorni fa furono quattroIeri dodici. E ricordo di altri tre morti per strada, non so bene dove. Io però dico: meglio morti. Se questi migranti muoiono almeno smettono di essere dei fantasmi, dei senza nome, dei corpi abbandonati che si piegano in terra oppure sorreggono col loro corpo una montagna di indumenti. Loro ingobbiti e noi in spiaggia sdraiati a guardarli, a volte persino infastiditi da tutto quel traffico di chincaglierie.

Perciò il ministro dell’Interno ha finanziato l’assunzione temporanea di altri vigili urbani, per far sì che le nostre spiagge siano al sicuro da questi abusivi, per lo più neri.

Meglio morti, dicevo. Sono morti chiusi nei furgoni, serrati nella lamiera come i maiali nei tir. E questo ci fa dispiacere. E proviamo pietà. E diversamente dagli americani – che alcune settimane fa hanno ributtato in mare venti migranti perché a prua e a poppa non c’era una cella frigorifero e dunque, purtroppo, dispiacendosi molto, li hanno dati in pasto ai pesci – noi siamo più sensibili e umani. Capiamo che hanno bisogno anche loro di una bara e persino di un nome, e di un vestito pure, perché un morto nudo non sta bene. Ieri, per dire, un medico dell’ospedale di San Giovanni Rotondo ha chiesto a sua madre di portare un pigiama per uno dei feriti nell’ultimo schianto mortale. E ciò ci commuove.

Meglio morti, sì. Almeno avremo la speranza che il questore di Foggia sarà chiamato da qualcuno a dare conto del fatto che nella sua provincia, ad ore prestabilite, transitano dei furgoni che trasportano uomini come se fossero maiali. Li trasportano dai campi, dove sono impegnati a tre euro l’ora o a cinque euro a cassone a riempire di pomodori la nostra tavola. O di angurie, oppure di fragole e di uva. Li trasportano senza che la polizia stradale se ne accorga, senza che una sirena si allarmi, un vigile alzi la paletta, un carabiniere elevi uno straccio di contravvenzione. I militi sono impegnati altrove.

Se muoiono, e come per fortuna già accade ne muoiono in tanti, anche il ministro dell’Interno conoscerà l’approdo finale della crocevia che in tanti fanno nel Mediterraneo e – chissà – penserà pure lui che meglio morti che vivi. Forse dirà in un tweet: Più morti = meno migranti = meno furti = meno abusi sessuali = meno spaccio = meno droga = meno Islam contaminante. Dal male a volte viene il bene, come si sa.

E se ci sarà chi, riflettendo ad alta voce, spiegherà che i nostri cimiteri sono già al collasso per via dei tanti anziani che ogni anno vi soggiornano, risponderemo che una salma per trasferirla in Africa costerebbe non meno di 10mila euro. Possiamo permetterci di spendere tutti quei soldi, mentre i nostri figli sono disoccupati?

Meglio di no.

Ps: stasera presento il mio libro a Nardò, Lecce. Questa città, bellissima e che amo tanto, una perla preziosa e nascosta del barocco pugliese, ha visto suoi onorevoli concittadini condannati per riduzione in schiavitù. È stata la prima condanna in assoluto pronunciata da un tribunale italiano non dell’Alabama.

da: ilfattoquotidiano.it

Anche il Papa perde consensi. La Chiesa immobile e quel crocifisso nelle mani sbagliate

Non c’è covo di criminale senza che alla parete non appaia un crocifisso, una effige della Madonna, un santino dell’Immacolata, l’ex voto al patrono del paese. Da Totò Riina in giù, i più grandi delinquenti comuni, ancor di più se associati, coniugano la loro vita efferata e crudele col segno della Chiesa, testimone universale di compassione e di pietà. I carabinieri, due giorni fa, sono dovuti intervenire per impedire a un presunto boss della ‘ndrangheta, Giuseppe Accorinti, di portare sulle sue spalle e tra le sue mani, macchiate di delitti gravi già sanzionati dalla giustizia, la Madonna delle Neve a Zungri, in provincia di Vibo Valentia. Una novità quasi assoluta, con il comitato promotore che aveva protestato per questa intrusione e il vescovo di Vibo che ha usato parole chiare contro fatti simili.

Una novità, dicevamo. Perché purtroppo le processioni – benedette dai parroci e salutate dal gregge di Cristo – sono servite a formalizzare la forza del boss, il dominio sul territorio e la sudditanza dei suoi concittadini, tutti naturalmente credenti. Con le forze dell’ordine che spesso assistevano inoperose e distratte a questo ulteriore misfatto civile e religioso. In un libro documentatissimo e spietato nella sua crudezza (I preti e i mafiosi, edito da Baldini&Castoldi) Isaia Sales ha illustrato il legame a volte inscindibile e rivelato le responsabilità storiche della Chiesa che in alcuni casi si è dimostrata indifferente, in altri omissiva, in altri ancora coscientemente collusa. Apriamo una parentesi. Di queste ore il sondaggio sulla popolarità di Papa Francesco, con l’indice sceso di alcuni punti.

Il Papa dei poveri, dei diseredati, il Papa a cui piace parlare degli ultimi, andare fra gli ultimi stenta a farsi riconoscere e a guidare le grandi trasformazioni che auspica nel mondo tra la sua Chiesa. Le masse lo applaudono ma la burocrazia vaticana, a quel che appare, diffida, rallenta, ostruisce e a volte contesta. Dunque il carisma del vicario di Cristo, agli occhi dell’opinione pubblica, si appanna, perde lo splendore di un tempo. Chiusa questa parentesi, rileviamo che tra i paradossi del nostro tempo c’è senza dubbio quello che per noi italiani è il più duro da digerire: vedere esibito il crocifisso per motivi opposti alla sua ragione e al grande mistero della fede. Vederlo innalzato per strumentali e a volte abietti motivi politici o – addirittura – vederlo portato al petto da chi ogni giorno fa sanguinare il petto altrui.

da: ilfattoquotidiano.it

Istituire le “Notti Grigie”: rassegna – città per città – della bruttezza che ci circonda

Fu Walter Veltroni, al tempo sindaco di Roma, a immaginare la Notte Bianca. La città spalancava a chiunque le sue porte e si offriva nella sua bellezza. Negli anni tanti sindaci emularono finché anche questa festa è andata declinando per poi scomparire. Era la festa della bellezza.

Ma oltre alle rose ci sono le spine, e tanta bellezza di cui godiamo è assediata da altrettanta bruttezza. Riconoscerla, almeno per una notte all’anno, significherebbe riflettere sui disastri che combiniamo, su ciò che accade e non dovrebbe accadere, e su ciò che possiamo evitare, sul tanto che possiamo ancora impedire. Ieri l’Istantanea si è occupata di Gallipoli, il martirio di una città bellissima trascurata per troppo tempo e imbruttita dai tanti che invece ne hanno abusato.

Ne riparlerò, ospite di questa città, mercoledì prossimo. Però tanti hanno visto in Gallipoli la condizione della loro comunità. Tante, troppe sono le città che oramai non distinguono il bello dal brutto e anzi subiscono l’arrembante bruttezza dei concittadini predatori, un numero sempre crescente di persone prive di saggezza, di competenza, di decoro. Dobbiamo fare i conti con la bruttezza, dunque.

Per farli dobbiamo anzitutto individuarla, catalogarla, guardarla. Vedere il brutto, immergersi almeno per una notte dentro l’orrido, è una prova salutare di riflessione e una chiamata alla resistenza. Saranno Notti Grigie, non bianche. E la ricorrenza servirà a destarci dal torpore, almeno a inquietarci. Il web, tra i mille suoi difetti, ha un pregio: la capacità di auto-organizzarsi, di promuovere iniziative, di produrre eventi, fatti, prese di posizione. Il web, per sua fortuna, non ha bisogno di autorizzazioni, non chiede permesso.

Ecco allora la proposta: senza chiedere permesso a nessuno immaginiamo di restituire alla coscienza sporca delle nostre comunità, delle tante che da nord a sud sono assediate da questa corsa a rendere brutto ciò che è bello, la bruttezza edificata. Il brutto non è solo l’arbusto edilizio che ci toglie la vista, ma è una filosofia, uno stile di vita. Tanti sono i pensatori che potrebbero educare invece alla bellezza, che è anche piacere, gusto, emozione. Riconoscere la bellezza, per tanti di noi ignoranti, significherebbe avere i riflessi pronti quando ci apprestiamo, magari persino con le migliori intenzioni, a erigere ciò che è brutto scambiandolo per bello.

La Notte Grigia servirebbe a promuovere, città per città, paese per paese, una profilassi di massa per difenderci dalla bruttezza, per riconoscerla e contrastarla. Bisognerebbe anche immaginare una forma di tributo al disonore. Apporre – che so – una piccola targa davanti ai luoghi dello scempio, un segno affinché la memoria ci assista sempre e i nostri figli, domani, possano essere messi sull’avviso: il brutto è pericoloso e fa male anche a te.

da: ilfattoquotidiano.it

Gallipoli, la città martire della cafonaggine

Allarme! Allarme! Gallipoli non è più la Ibiza italiana! Sfortunata e morente, sta versando lacrime amare. I giovani ad un tratto sono spariti, le strade si sono fatte buie, e i ristoratori, gli albergatori, i commercianti sono sull’orlo di una crisi di nervi. Tra le più fameliche orde di predatori io inserisco d’impeto coloro che campano di turismo. Perché non hanno misura, non hanno equilibrio. È tutta una corsa ad arraffare, conquistare spazi, promuovere abusi, scansare ogni minima regola.

Gallipoli è stata definita ingiustamente la perla del Salento. Lei, la città di mare che si affaccia sullo Ionio, è innocente ed era in gioventù bellissima. La natura e gli avi l’hanno resa preziosa con l’incanto di una lingua di terra tonda che si adagia sull’acqua e dall’acqua raccoglie ogni frutto. La natura e gli avi non hanno pensato però a chi, secoli dopo, l’avrebbe abitata e abusata. Un’orda di predatori che in nome dell’arraffa – conquistare ad ogni costo e ad ogni prezzo, ogni disgraziato che avesse le sembianze di turista – l’hanno allagata di cemento. Hanno eretto, con la presenza di attiva omissione dello Stato, dell’amministrazione comunale e di tutti gli altri enti chiamati a tutelare il paesaggio, l’equilibrio e la bellezza, un’edilizia cafona, incivile, tracimante. E per anni, nei palazzotti costruiti ai margini della città vecchia, nelle stamberghe trasformate in case, nei parcheggi trasformati in b&b, hanno raccolto poveri cristi, per lo più giovani, chiedendogli questo mondo e quell’altro.

Gallipoli l’anno scorso non era una città ma, in alcune sue porzioni, una latrina a cielo aperto. E in troppi altri casi una serie infinita di abusi. Finalmente la magistratura, ridestatasi da un sonno lungo vent’anni, ha sanzionato chi aveva infranto non una regola ma una montagna di prescrizioni chiudendo locali e l’esercizio abusivo di attività turistiche. Apriti cielo! Turisti spariti, albergatori in crisi. E solo perché adesso finalmente per tuffarsi a mare non bisogna accoltellare il vicino di ombrellone, per mangiare un gelato non bisogna fare la fila come alla Asl, e andare al ristorante non deve trasformarsi in un’avventura.

Gallipoli è la quintessenza della nostra coscienza sporca, perché diciamo che il turismo è una fonte preziosa della nostra ricchezza ma poi dimentichiamo di curare la radice quadrata di questa pietra preziosa: la bellezza. L’Italia è bellissima e il suo Sud lo è in una forma straordinaria. Ma migliaia di azioni di rapina l’hanno sfregiata e ora gli autori dello sfregio, dopo aver incassato (fatturando però incassi miserabili) ogni ben di Dio, si lagnano se qualcuno, magari dopo anni, chiede conto.

Il lamento è tanto più orrido perché proviene da gente che non ha avuto misericordia di un ulivo, di una duna, di uno scoglio. È gente senza cuore e senza anima, che governa la sua vita immaginando che i soldi debbano servire a farne altri, solo quello. Non hanno un pensiero, gli basta essere clienti di qualcuno, non hanno personalità, gli basta essere devoti. Sono cattivi cittadini che non hanno cura dei loro figli e non hanno amore dei loro luoghi. Oggi va di moda eleggere una località capitale di qualcosa.

Gallipoli, a mio avviso, dev’essere eletta città martire per l’anno 2018. Ha subìto, come altre sue innocenti sorelle calabresi, campane, siciliane, il martirio senza che sia mai scoppiata una guerra, solo grazie alla forza di gravità della cafonaggine che lì, per motivi imprescrutabili, si è data convegno.

da: ilfattoquotidiano.it

C’era una volta il popolo bue. Ora invece più cattivi, più emotivi (e un po’ cretinetti)

Un particolare tipo di umani ritiene che la vita sia compendio di sfortune, di soprusi abietti, di scontri epocali. C’è sempre qualcuno nel mirino, perché la realtà non è mai mutevole, e l’avversario è intramontabile, nemico per sempre. Cosicché anche quando il suo avversario, o colui che ritiene tale, fa qualcosa di decente trova il modo di screditarne il valore per mettersi a pari con la coscienza e ristabilire il giusto equilibrio della dose di veleno quotidiano. Dopo la stagione dei cosiddetti “buonisti”, coloro che impalmavano ogni faccenda, anche la più screanzata, con un sorriso, è nato – grazie a internet – il regime dei “cattivisti”.

I cattivisti si dividono in due fazioni: i razionali e gli emotivi. Una sub specie è quella dei cretinetti: sono i cattivi che cibano le loro giornate di ironie di quarta categoria. Internet ci ha rimessi in riga e fatto ritornare quelli che siamo sempre stati senza però mai dircelo: ci ha fatto ritrovare il gusto di essere cattivi. Cosicché qualunque cosa ci riempie di bile.

Anche a chi scrive Luigi Di Maio non sembra abbia somiglianza alcuna con Karl Marx, e il suo decreto “dignità” sarà anche pieno di buchi, imprecisioni e contraddizioni. Ma è troppo convenire su un punto, almeno su uno? Sul fatto cioè che il lavoro – qualunque tipo di lavoro – sia stato squalificato, derubricato, svilitoanche oltre le contingenze di una crisi economica senza pari? È troppo convenire almeno sul fatto che, in nome della crisi, una genia di imprenditori abbia costruito il nuovo teorema dello sfruttamento? Acquisire a qualunque latitudine e per qualunque necessità una forza lavoro a un costo sempre più contenuto, spinto addirittura sotto i limiti della fame?

Non bisogna essere marxisti, figuratevi se comunisti, per acquisire questo dato elementare come elemento condiviso e da lì partire per tentare di dare un futuro alle nostre speranze. Niente. I cattivisti sono all’opera. Forti del fatto che quegli altri, che ora sono al governo, nel ruolo degli oppositori erano ugualmente cattivi, anzi di più!, bisogna rendere la pariglia.

Merita un plauso invece Matteo Salvini, del quale sempre chi scrive non è un appassionato estimatore delle sue parole. Salvini ha compreso da tempo che ci piace essere cattivi, anzi cattivissimi, anzi ancora di più. E ogni giorno serve il menù che attendiamo, come i cani davanti alle macellerie di paese aspettano l’osso. Poi, per far fluidificare il nostro cattivismo e renderlo simpatico, il nostro Matteo, che la sa lunga, aggiunge come fosse il dessert dei giorni di festa, un pizzico di allegro ma pingue sarcasmo. Lui sa infatti che siamo anche un po’ cretinetti. Oggi per esempio ha scritto un bellissimo tweet: “Contro il caldo africano purtroppo non posso fare nulla. Come va da voi?”.

Fa un caldo africano anche qui, Matteo. Ma che forza di ministro che sei, e che ridere che fai!

da: ilfattoquotidiano.it

Rai, Marcello Foa si è trasformato in un Fantozzi in sedicesimo

Il servizio pubblico è un servizio privato. I partiti hanno sempre utilizzato la televisione di Stato come macchina di propaganda, alloggio per i connessi, piattaforma espositiva delle amicizie influenti. L’informazione fa rima con manipolazione e tutto il mondo è paese. Il potere ha bisogno di indirizzare la comunicazione, orientare l’opinione pubblica, governare, assopire, o anche esaltare.

È storia di questi decenni di come la sinistra abbia gestito insieme alla destra, ed è cifra peculiare di questo Paese che abbia avuto al comando un tycoon dell’industria televisiva.

Queste elementari premesse dovevano consigliare assolutamente a Lega e Cinquestelle di cambiare registro e, almeno sul nome del presidente, ruolo di garanzia e non di governo, offrire al Parlamento la possibilità di scelta su una rosa minima ma degna.

Invece è successo che i Cinquestelle, incassata la nomina dell’amministratore delegato, l’uomo solo al comando, abbia lasciato alla Lega la facoltà di esercitare il diritto di proprietà sulla presidenza. Il nome che è stato imposto, quello di Marcello Foa, aveva unicamente questa funzione: spiegare bene chi comanda e non lasciare agli altri  nemmeno la cortesia dell’offerta, solo l’obbligo dell’approvazione.

Il cambiamento ha la sua forza se è sostenuto da uno stile, da un modo di essere, da una pratica di governo. Se questo proposito è falsificato, resiste la vecchia pratica ad opera di volti nuovi.

Non c’era da scandalizzarsi sapendo chi è Salvini, un po’ più di stupore lo assicurano i grillini.

E ruba un sorriso di compassione la fregola con la quale Foa ha agguantato le chiavi della stanza presidenziale e la poltrona di pelle umana prima ancora che la commissione di Vigilanza concedesse il parere vincolante.

Il presidente non si è accorto di essersi trasformato in un Fantozzi in sedicesimo.

Prima lascia meglio è.

da: ilfattoquotidiano.it