Zingaretti, le dimissioni sbattute come un ceffone in faccia al partito

Ha ragione Lucio Caracciolo quando dice che il Partito Democratico più che un partito è “un’accozzaglia di correnti”. Ha ragione Rosy Bindi quando spiega: “Il Pd è venuto su male. Resettare tutto e ripartire”. Ha ragione anche Gianni Cuperlo quando accusa: “Stare al governo ha rovinato il partito”. I motivi per spiegare il clamoroso addio di Nicola Zingaretti, queste dimissioni sbattute come un ceffone in faccia al partito, e l’invito ai suoi compagni di ventura di vergognarsi di quel che fanno e non dicono, di quel che dicono e poi revocano, sono tanti e il lettore ne troverà certo mille altri.

È un partito che vive una perpetua crisi di nervi, destinato dai suoi geni ad essere non una formazione politica, ma l’ufficio di collocamento governativo in sede permanente. E dunque non idee, passioni, strategie, ma poltrone e poltroncine sono divenute il cibo quotidiano, l’assillo, il bisogno incomprimibile di questa comunità. Già, ma che comunità è divenuta? Il Pd è una zattera che traghetta ogni cosa e quando accoglie sceglie di non selezionare. C’è il buono e il cattivo, il conservatore e il progressista, il clientelare e il legalista. Un concentrato di diversi o l’insieme di sconosciuti. Dunque, non un partito ma un ossimoro.

Perciò le dimissioni di Zingaretti renderanno ancora più certe le divisioni, ancora più feroci le ambizioni, e purtroppo ancora più opaco l’orizzonte. Resterà la convinzione di un partito “gnè gnè”: gnè di qua gnè di là. Una zattera che, malgrado tutto, negli anni resiste ai marosi ma per resistere si alleggerisce sempre un po’ di più dei marinai a bordo: e così ogni giorno qualcuno come Zingaretti si tuffa in acqua e se ne torna a riva.

Da: ilfattoquotidiano.it

Chi pagherà per lo sgoverno delle Regioni?

Le regioni sono le centrali operative dello sgoverno. Il motore inesauribile della polemica quotidiana, della contestazione da talk show, di quell’andirivieni di decisioni e revoche che fanno dell’Italia a colori il labirinto perfetto delle inadempienze a cordata multipla. La pandemia ha dato ai governatori non la responsabilità di spiegare le falle infinite di un sistema sanitario per il quale spendono e sprecano da quarant’anni l’ottanta per cento del loro bilancio e l’obbligo di renderne conto. No, i governatori – per merito di noi giornalisti – si sono trasformati in opinionisti da talk show o – nei casi peggiori, come quello della Campania – in odiatori del web.

Rimuovere Arcuri, perfetto (anche in questo caso, va detto, per suo merito) capro espiatorio, è la soluzione insieme più spettacolare e più ipocrita. Un sommovimento apparente. Intatto il potere deviante dei ventuno possedimenti regionali, ciascuno col suo gruzzolo elettorale da far valere, il partito da cui essere difeso, e la gloria dell’ultima cazzata sparata in tv. Prendiamo, ad esempio Giovanni Toti, il fantuttone ligure televisivo. Parla, parla e parla. Ma poi cosa fa? La sua regione è riuscita a curare bene? Non si direbbe. E’ riuscita a vaccinare meglio? Fa piangere. E perché ce lo teniamo? Per dirci che è necessario aprire, invece che chiudere e bla bla bla. E quello calabrese, e il molisano? Ciascuno sceglie e decide in autonomia cosa non fare. Campobasso si ritrova senza terapie intensive, mai allestite. Chi paga? La Calabria senza punture, benché i vaccini siano in frigo. Anche qui: chi paga? E chi pagherà in Lombardia? Chi chiederà conto alla Campania dei criteri di somministrazione delle dosi? Sono andate secondo la regola del maggior bisogno, secondo i criteri esatti del piano ministeriale?

Rimuovere Arcuri è stato facile. Più complicato rievocare il tempo in cui i medici visitavano a mani nude e mettevano ai piedi i sacchetti di plastica. Oggi torna in voga l’organizzazione perfetta della Protezione civile. Eppure a marzo scorso non c’era una, una! mascherina nei suoi depositi e il piano pandemico, che pure sarebbe uno strumento essenziale di protezione civile, sepolto dalla polvere. Facile dire oggi che i banchi di scuola non servono. Difficile dirlo ieri, quando il Cts nel maggio scorso ammoniva la ministra dell’Istruzione che l’unica possibilità di riaprire a settembre fosse quella di dotare ogni aula di banchi singoli. Arcuri li ha acquistati, com’era nel suo compito. Doveva invece rifiutarsi? In nome di quale potere alternativo?

Ora che gli ospedali bolognesi sono pieni di nuovi ammalati e il sindaco della città chiede subito la zona rossa, riascoltare le parole del presidente dell’Emilia Stefano Bonaccini di appena qualche giorno fa: tutte un cip e ciop con quelle di Matteo Salvini che – indossata la maglietta “Io riapro” – indicava naturalmente la strada inversa.

La realtà è questa. Non farci i conti sarebbe da buffoni.

Da: ilfattoquotidiano.it