Risalendo verso nord, mi fermo a Battipaglia. Nel paradosso italiano non poteva mancare l’esemplare, incredibile storia di questo default alla rovescia. Gruppo Paif. Qui gli operai coprivano i turni di giorno e qualche volta anche di notte, e pure i festivi erano impegnati in fabbrica. Non avevano bisogno di correr dietro i clienti, era il lavoro che correva dietro agli 84 lavoratori del gruppo. “Producevamo posate e piatti di plastica. Due milioni di pezzi all’anno. Le migliori posate, i migliori piatti erano i nostri. E le grandi catene di distribuzione non ci mollavano: Auchan, Coop… anticipavano i pagamenti per ottenere forniture regolari”. Quaranta milioni di fatturato, salute ottima ma impresa fallita. Produzione eccellente, innovazione continua, alta tecnologia: i fondamentali erano a posto eppure non c’è stato scampo. I proprietari, con uno slalom tra banche e investimenti temerari verso altri business, hanno svuotato la cassa e ridotto gli operai sotto una tenda. Sono lì da dicembre, quando l’ora x è scattata. Carmine Palma ancora si stropiccia gli occhi: “È una cosa da non credere. Stavamo bene, guadagnavamo bene, lada 4 mesi media del salario nostro era di 1.600 euro mensili, molto più in alto della categoria. Dentro la busta paga contavano le ore lavorate: e noi eravamo al massimo possibile. Stavamo bene, anzianità media di vent’anni, sicurezza raggiunta. Tutti col mutuo per farsi una casa, o un prestito per dare ai figli un corso di studi all’altezza. Insomma, eravamo tranquilli. E soprattutto avevamo la stima dei nostri clienti per la qualità che riuscivamo ad assicurare. Una stima tale che anticipavano i pagamenti pur di avere Paif sui loro scaffali. D’un tratto la chiusura. E noi non abbiamo capito niente, confusi, storditi. Com’è possibile?”. “Io facevo lo spedizioniere. Raccoglievo gli ordini e li smistavo. Mi crede se le dico che ancora oggi, oramai sono tre mesi che siamo fuori dalla fabbrica, sotto questa tenda, ricevo ordini? Ancora domandano se ci rimetteremo al lavoro, e quando”.
La vicenda Paif è il segno esemplare di come la colpa sia da una parte, il dolore dall’altro.
Qui sono i padroni che hanno ucciso la loro fabbrica: “Capivamo che qualcosa non andava per il gran numero di consulenti che si avvicendavano. Ciascuno aveva una ricetta, ma nessuna era gradita alla famiglia proprietaria”, dice Rosaria, mamma oramai orfana della sua dignità. La divisione ereditaria, una sorte di combattimento familiare sul corpo degli operai, ha provocato un tiro alla fune del tesoretto: chi impegnava i soldi di qua e chi di là. Chi esigeva liquidazioni stellari, chi annunciava acquisizioni stellari. Alla fine, tutti giù per terra. Non c’è che una c h a n ce , una sola, per ritornare in fabbrica. “Siamo disponibili a investire la nostra liquidazione. Se il giudice fallimentare ci solleva dai debiti contratti dalla proprietà, siamo in condizione di riprendere il lavoro, restituire onore a questo marchio e lavoro alla nostra vita. Cerchiamo solo un manager che ci guidi. Qualcuno che abbia la testa a posto”.
da: Il Fatto Quotidiano 29 marzo 2014