Cantiere Abruzzo: la presa del bottino di Giorgia e Matteo

Il candidato piazzato da lei, la campagna acquisti di lui E gli elettori, intanto, se la prendono con i Cinque Stelle

Il ministro del Lavoro dello Sviluppo economico e vicepremier Luigi Di Maio durante la conferenza stampa per il "Restitution day" del M5s presso la sala stampa della Camera, Roma, 06 febbraio 2019. ANSA/ANGELO CARCON

L’Abruzzo è divenuto il giardino di casa di Giorgia Meloni, la piccina del centrodestra che ha svuotato i suoi uffici di persone e cose per piazzare i nomi giusti e vincenti. Da Roma è giunto Marco Marsilio, il tesoriere di Fratelli d’Italia. Farà il governatore. Lo stesso metodo del trasferimento coatto Giorgia lo decise per dare all’Aquila, il capoluogo devastato dal terremoto di dieci anni fa, un sindaco. Chiese a Pierluigi Biondi, già Casa Pound, primo cittadino uscente di Villa Sant’Angelo, un bellissimo borgo di 427 abitanti, di guidare la città delle novantanove Cannelle e darle una sistemata. Anche Matteo Salvini ha dovuto fare una serrata campagna acquisti per compilare le liste della Lega che in Regione neanche c’era la volta scorsa. A Chieti, Pescara e Teramo ha scelto il meglio della forza lavoro disponibile. Una coppia di centristi in disarmo, due ex forzisti annoiati da Berlusconi e infine due militanti di Alleanza nazionale in bancarotta, compongono due terzi della pattuglia leghista, fatta appunto di rincalzi, che da sola pesa per altri due terzi nella maggioranza. Dieci consiglieri su diciassette hanno infatti oggi il vessillo di Alberto da Giussano.

Il centrodestra, sempre per merito di Salvini, ha sfondato il tetto della vittoria, rendendo pienamente politico un voto da sempre amministrativo, e consegnando come un dato nazionale questa consultazione locale alla quale ha partecipato la cifra più bassa in assoluto di elettori (53 per cento), otto punti in meno rispetto al turno precedente. Salvini ha raggiunto il suo Gran Sasso senza bisogno di acchiappavoti di gran pregio. Ci ha pensato il ministro dell’Interno a trascinare tutti alla vittoria parlando sulle montagne dei barconi in mare. Ha anche dimenticato sistematicamente di ricordare al popolo il nome del suo candidato governatore: “Votate Lega” ha detto. E basta. Marsilio il romano, così gli avversari lo hanno chiamato per contestargli il deficit di abbruzzesità (costringendolo a ricordare sempre gli avi e i suoi trascorsi di bimbo in villeggiatura) si trova ora a governare, lui che è senatore di Roma, l’Abruzzo. Cosicché il metodo del trasferimento da una poltrona a un’altra secondo i bene informati proseguirà con la cooptazione come direttore generale di una burocrate, Carla Mannetti, zarina in pectore, attualmente dirottata, sempre per vie della forza lavoro mancante, nella giunta dell’Aquila.

L’Abruzzo, dopotutto, ha ancora da spendere quindici miliardi di euro per completare la ricostruzione aquilana e dei comuni limitrofi. È questo infatti, benché tutti lo dimentichino, il più grande cantiere d’Italia che da solo vale sei Tav. E il cantiere purtroppo invece di andare avanti, arretra. Col nuovo governo i soldi impegnati nella ricostruzione infatti si sono ridotti di quasi la metà (dai 469 milioni di euro del 2017 ai 250 milioni del 2018). Lo spoil system invece di dare energia ha reso rachitico l’ufficio speciale della ricostruzione, e tolto lavoro a chi lo cerca, cioè agli abruzzesi. Anche L’Aquila ha fatto la sua parte. Col nuovo sindaco, incaricato dalla Meloni di aiutare la città a rinascere, i cantieri si sono fermati del tutto e il primo cittadino sta ancora riflettendo su come spendere gli ottanta milioni di euro per realizzare le scuole, oggi ancora sistemate in moduli provvisori. Gli abruzzesi sono pochi, un milione e 400mila abitanti e la borsa del terremoto sarebbe la più grande centrale acquisti italiana.

E invece zero carbonella. Gli elettori se la son presa principalmente con i Cinquestelle, togliendo loro 189 mila voti in meno di due anni. Un record. Nonostante il colpo di un voto che è tutto politico, la candidata sconfitta Sara Marcozzi (quattro anni di praticantato nello studio legale del candidato del centrosinistra Giovanni Legnini) ha dapprima ritenuto soddisfacente il risultato: “Abbiamo mantenuto i consensi delle scorse regionali”, e poi dalla pagina dei suoi sostenitori arriva la legnata agli elettori: “Tutto il bene fatto non è servito a niente. La politica del clientelismo e del servilismo, unito a una buona dose di ignoranza, hanno avuto la meglio”.

Nel post, pubblicato su Facebook e poi rimosso, ha fatto perfino capolino uno strafalcione (“hanno avuto la migliore”) che ha tenuto banco e fatto rumore più della batosta agli elettori. C’è da dire che Sara, con qualche previdenza, aveva aggiunto alla candidatura a presidente di regione quella di consigliere in modo che l’eventualità che giungesse terza sul podio, come poi è successo, non la obbligasse a fare ritorno alla professione legale. Fece così anche cinque anni fa e si è trovata benone.

Da: Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2019

La prima “sconfitta” di Twitter: stavolta si protesta davvero

Lavoratori, genitori preoccupati e perfino qualche imprenditore: sfilano tre chilometri di persone vere

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse  09-02-2019 - Roma  Politica Manifestazione unitaria dei sindacati CGIL, CISL, UIL  Photo Vincenzo Livieri - LaPresse  09-02-2019 - Rome  Politics CGIL, CISL, UIL demonstration.

Quanti tweet ci vogliono per riempire questa piazza? L’Italia che non si vede più, che nessuno riconosce per strada, sbuca dall’Esquilino ed è un tronco di un albero che sembrava perduto, sparito dalla foresta, dalla nuova civiltà di internet. “Alzarsi alle quattro del mattino è dura, io non ho tempo per stare al computer. Ho quarantadue stanze da rassettare, ogni giorno. E vedo che non ce la faccio a fine mese, malgrado mi spezzi la schiena, ed è un gran problema”, dice Cristina da Mogliano Veneto. Con le sue compagne aggiunge colore a una nuvola di giubbe rosse, i fratini con i quali i sindacati misurano il peso specifico. Quelli della Cgil sono di più, naturalmente. Ma il nuovo, in questa Italia antica, dimenticata dalla politica, senza più opinione e senza più credito, perché la reputazione i sindacati se la sono un po’ giocata nei disastri post berlusconiani, e Twitter non ha bisogno della forza lavoro, è che l’albero sembra invece vivo, le foglie verdi, i rami intatti.

Roma è invasa, e non si vedeva dagli anni di Sergio Cofferati, quando il sindacato trascinava e orientava, dava vita o la negava ai governi. Lui, Cofferati, pure oggi ha fatto capolino nel corteo (visti anche D’Alema ed Epifani, Martina e la reggenza variegata della sinistra disunita), in questa che però non sembra una gita sociale di reduci e pensionati. E il tronco lungo tre chilometri non è lo spazio del circolo ricreativo della terza età, il pellegrinaggio di chi ha avuto, ma un lungo e pensieroso bivacco di lavoratori che chiedono, di padri preoccupati, di mamme che non ce la fanno più e perfino di qualche imprenditore angosciato.

Il problema di Cristina, l’addetta alle pulizie di Mogliano Veneto è lo stesso di Francesco, 37 anni e un figlio, livornese. “Il lavoro oggi rende poveri. Io sono addetto alla manutenzione dei carrelli per le ferrovie. La mia ditta ha vinto un appalto con Fs, ma mi danno quattro soldi”. Si resta poveri anche lavorando, questa è la novità. E chi non è povero teme di divenirlo. Come Ermanno Bellettini, dirigente della Rossetti, settore trivellazione: “Dicono no alle trivelle, e della mia azienda che ne sarà?”

La novità è che la piazza pur essendo piena, non urla, non scalpita, non inveisce. Non accoglie tra le sue fila gli odiatori da social network. Si dichiara antifascista e antirazzista (“restiamo umani”). Non ha neppure vergogna di cantare Bella ciao. E anche questa è una novità, visti i tempi. “Noi siamo il popolo, questi ora al governo dicono che sono i rappresentanti del popolo. Quindi dovrebbero essere con noi”, chiede Marisa, insegnante ragusana. “Vogliono farmi stare altri sette anni al lavoro. Ma lavorare all’asilo è impossibile. Non regge il fisico”. Lei ha votato cinquestelle. “Non so se lo rifarò”.

La piazza è piena ma promette che le urne, almeno viste da qui, a maggio per le europee resteranno vuote. “Fanno casino, gridano contro, non mi piacciono molto. Mi sembra che non abbiano le idee chiare”, Antonio, metallurgico torinese, astenuto ieri, astenuto domani. “Io ho votato Lega”, dice Luigi da Ivrea. “Io Lega”, cosi Vittorio da Novi Ligure. “Adesso fottetevi”, ribatte Umberto, la maglietta di Potere al Popolo, new entry a sinistra.

Oggi la piazza non è colma, è stracolma. “Veniteci a contare”, dice Maurizio Landini, neosegretario, e solleva ottimismo tra gli iscritti. “Con Landini finalmente si torna a combattere” (Cesare, da Molfetta), “Landini è quello che ci voleva” (Antonio, Cantieri riuniti di Stabia), “con lui Salvini non farà il buffone” (Angelo, assistente scolastico di Paternò).

Malgrado gli acciacchi del sindacato questa piazza oggi nessuno sarebbe in grado di riempirla così. Non più il Pd, che oramai nella hit parade del gradimento è fuori competizione. Ma nemmeno i Cinquestelle e pure Salvini non ce la farebbe. Piazza del Popolo a dicembre, quando la Lega decise la prova di forza, era la metà della metà di questo lungo tronco di uomini e donne, padri e anche nonni. “Si va bene, si dice che è una piazza contro di noi. Sono venuta qui apposta per verificare. Ed è falso. Come sospettavo, nessuno ha avuto nei nostri confronti espressioni di malcontento”, certifica via Twitter Vittoria Baldino, deputata cinquestelle, nella veste di testimone oculare sul luogo del presunto delitto. Lei sola. Di Maio, che pure sarebbe ministro del Lavoro e qualche attenzione dovrebbe prestarla a manifestazioni come queste, ha risolto il conflitto, ora silente ma non più inconsapevole, salendo in groppa al cavallo di battaglia del Movimento: “Confidiamo che Landini si unisca a noi per abbattere le pensioni d’oro degli ex sindacalisti”.

Ecco, tutto qua. La distanza tra la piazza e il Palazzo, ora che i ruoli sono invertiti, è divenuta tale e quale a prima. Quando c’erano quegli altri.

Da: Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2019

La disfida di “Sara” tra un fascio romano e il grigio Legnini

Abruzzo – Il 10 febbraio si vota per le Regionali: Marcozzi (M5S), Marsilio (centrodestra) e l’ex vicepresidente del Csm inciucista

La questione prima che politica è meteorologica. Nevicherà il 10 febbraio? “Con i fiocchi bianchi vedo bene la grillina, con il sole splendente il centrodestra è avvantaggiato, a meno che lui…”. Fabrizio Di Stefano, farmacista, già deputato, già senatore di Alleanza nazionale, zeppo di voti e di clienti, ma attualmente disoccupato, riceve nel Bistrot Camuzzi, a Pescara. “Il centrodestra con me avrebbe stravinto, trecento per cento sicuro. Ma amano il rischio e adesso ballano. Avrei anche tirato la carretta. Marco Marsilio, l’attuale candidato, mi chiese di dargli una mano: il programma, qualche nome da coinvolgere, il territorio da fargli conoscere. Gli risposi: ‘Va bene, ma poi quando bisognerà decidere chiederai a me?’ E lui, stupito: ‘No, faccio io’. E allora sai che c’è? Bello mio, buona fortuna”.

L’Abruzzo è andato a Giorgia Meloni. Dopo il sindaco di L’Aquila Giorgia ha indicato – su proposta di Fabio Rampelli (l’amministratore delegato di Fratelli d’Italia) il tesoriere e senatore Marco Marsilio alla carica di governatore d’Abruzzo. “Roma è la mia città, Roma è nel mio cuore e io voglio il meglio per il luogo in cui vivo”. Il video del 2016 è la pietra d’inciampo del Marsilio neoabruzzese che ogni giorno è costretto a ricordare genitori, nonni e avi viventi e defunti di Tocco da Casauria, il paese d’origine.Continue reading

Gli immigrati ci fanno stare meglio o peggio? Rispondiamo con le cifre (e non con le suggestioni)

Ma gli immigrati per gli italiani sono stati un costo o un guadagno? Ci hanno resi più ricchi o più poveri? Ci fanno star meglio o peggio? Si può utilizzare la suggestione oppure le cifre. Scegliere una delle due strade conduce a esiti diversi e ci consente di misurare la distanza siderale che separa l’apparenza dalla realtà. Matteo Salvini tiene inchiodata l’Italia ormai da anni sulla questione e parla di invasione. L’Africa nera mangia l’Italia bianca, toglie lavoro, produce reati, muta in peggio le condizioni economiche della nostra società e incrina anche la sua coesione sociale.

Ancorché non recenti (anno 2016), le cifre che qui leggerete non hanno subito sostanziali mutamenti e perciò è bene ricordarle. Gli immigrati occupati regolari sono 2,4 milioni e producono un valore aggiunto pari a 130 miliardi di euro, equivalente all’8,9%del nostro Pil. Contribuiscono, con un saldo nettamente positivo, anche ai numeri dell’Inps, versando contributi pari a 11,5 miliardi di euro.

Con gli immigrati siamo dunque divenuti più poveri o più ricchi? Salvini potrebbe rispondere tenendo a mente queste cifre. Ma lui e forse Luigi Di Maio ci diranno che il problema non sono i regolari ma i clandestini, coloro che non hanno arte né parte. Sull’arte andremmo cauti, perché non conosciamo, essendo appunto clandestini, il numero di essi impiegato nel lavoro nero, specialmente in agricoltura o nei servizi alla persona (colf e badanti).

Le stime più attendibili ci dicono che attualmente gli immigrati senza permesso di soggiorno dovrebbero essere 491mila, meno comunque dei 600mila annunciati. Nel 2008, cioè dieci anni fa, si stimavano invece in 650mila le persone senza regolare permesso di soggiorno. E l’invasione di cui parla Salvini? A rigor di logica doveva esserci più ieri che oggi. Tra l’altro proprio il suo ministero ha emanato il decreto flussi per il 2018 stabilendo in 30.850 (trentamilaottocentocinquanta) il numero dei lavoratori extracomunitari di cui l’Italia per quest’anno ha bisogno. Al ministro gliel’hanno detto?

È vero, con questo governo sono diminuiti gli sbarchi del 95%rispetto al 2017 e del 96% rispetto al 2018. Il ministro dell’Interno può agevolmente riferire se gli sbarchi sono diminuiti anche (o soprattutto) in virtù degli accordi del governo che l’ha preceduto con la Libia (io ti pago e tu li tieni in cella), oppure se grazie al suo personale impegno siamo giunti a questo esito.

Impegno quotidiano che però purtroppo non ha dato i suoi frutti sul tema dei rimpatri. Era Salvini che prometteva di rimandarli a casa loro. L’anno scorso sono stati 6.833 i lavoratori rimpatriati, contro i 6.378 dell’anno precedente. Con un irrisorio segno più (81 persone in tutto). Oggi Salvini ha riferito i dati di questo gennaio: sono 306 i migranti rimpatriati. Un numero miserello che proiettato sull’intero 2019 darebbe un numero altrettanto incredibile: 3.672. La metà dei rimpatri del 2018! Salvini fa flop, ma perché non lo dice?

Da: ilfattoquotidiano.it

Senza cure il Sud fugge verso Nord. Così l’autostrada del Sole diventa la via dell’esilio

In queste ore l’autostrada del Sole è il luogo perfetto per illustrare l’Italia divisa. Dal lato sud la carreggiata è intasata, una colonna di auto si reca al Nord, torna al lavoro, agli affari o agli studi e conclude il percorso che due settimane fa aveva iniziato: tornare al paese almeno per Natale, per ritrovare i genitori, o i nonni, se ancora in vita. Aprire casa, farla respirare per un po’ e riassaporare il cibo dell’infanzia, salutare le proprie pietre. Una parentesi, in una vita che si svolge altrove. Il Sud ogni anno perde gli abitanti di una città grande quanto Foggia, ogni anno si allontana dal Nord, ogni anno si fa più vecchia e fragile. Il Sud Italia oggi è l’area più grande e più sottosviluppata dell’Unione europea. Tra due mesi, quando il Parlamento suggellerà l’autonomia allargata richiesta da tre regioni (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna) il raffronto sarà ancora più duro perché le risorse non saranno divise soltanto in ragione degli abitanti e dei relativi bisogni (quanti malati, in quale territorio; quanti studenti e quante scuole) ma anche, come chiede il governatore leghista del Veneto Luca Zaia, in proporzione al gettito fiscale.Continue reading

La rivincita del “muretto”: è patrimonio dell’umanità

È la rivincita delle mani sulla betoniera, della sapienza antica e povera sulle architetture multipiano e high tech. I muretti a secco sono divenuti patrimonio dell’umanità, il marchio di civiltà che l’Unesco attribuisce alle opere magnifiche della natura e dell’uomo. E quest’opera, piccola di dimensioni, minuta nell’aspetto, povera e di dettaglio, oggi diviene finalmente grande. “Con tenacia e sfrontatezza li sfioravamo da ragazzi in sella alla Vespa o al Califfone. Costeggiandoli li vedevamo fronteggiare il cemento armato delle complanari, il sistema di svincoli stradali, l’orgoglio della modernità. Per noi pugliesi, io dico specialmente a noi baresi, il muretto a secco è il canale della memoria, il presidio che il vecchio non solo esiste ma resiste con una grazia e un’arte indiscutibili”. Lo scrittore Nicola Lagioia ha trascorso i suoi anni da ragazzo con la visione di queste pietre impilate ai fianchi della strada. Ha avuto la fortuna di risiedere nel luogo che più di ogni altro ha esibito la sapienza delle mani, anche se la richiesta del riconoscimento speciale non è stata avanzata solo dall’Italia all’organizzazione culturale dell’Onu. Croazia, Cipro, Slovenia, Svizzera, Spagna e Francia hanno sostenuto e appoggiato questa candidatura, trovandosi a dover far di conto anch’essi con le pietre di confine.

L’UOMO E LA PIETRA camminano insieme. “In questo caso è la mano a vincere sulla macchina, è una prova d’orgoglio dell’arcaico, di ciò che si riteneva superato”, dice il paesologo Franco Arminio. Il muretto a secco è un’opera umile, secondaria, ma di un pregio che impone “la rivisitazione dei luoghi comuni, di una sfida vittoriosa con l’età dell’alluminio anodizzato, con le saracinesche di ferro e le insegne luminose. Noi comunque vogliamo il Frecciarossa, impianti di meccatronica, insediamenti positivi della contemporaneità. Ma dobbiamo riconoscere nella memoria, in questo caso nelle nostre pietre, una ricchezza unica e superiore”. Il muretto è dunque il segna passo, il muro di confine, “attenzione – dice l’antropologo calabrese Vito Teti (suo il bellissimo “Pietre di pane”) – i muretti non dividevano e non separavano ma proteggevano il territorio e creavano legami. Il muretto è l’affermazione di un’arte legata alla produzione, alla terra, al paesaggio costruito nel corso di una storia millenaria. È un’attenzione ai margini, al piccolo che ora diventa grande”.

LE PIETRE, MESSE l’una sull’altra, non sono un’opera primitiva. Fanno tuttora da argine, dove resistono e sono conservate bene, alle frane, agli smottamenti, ai crolli. “Il muretto è l’elemento semplice dentro l’architettura romanica che l’entroterra barese esibisce a ogni passo. Io dico – questo è Lagioia – che il muretto infatti non è una muraglia, è il contrario di un muro di cinta. Il muretto nasce e si costruisce nei territori di passaggio, attraversati da possenti migrazioni. Il muretto è la risposta opposta e contraria ai muri che si alzano per impedire e ostruire, alle recinzioni elettrificate che si erigono per opporsi a ciò che la storia considera ineluttabile: i popoli si spostano, e questo mondo deve la sua civiltà alla ricchezza di mille migrazioni”. Il muretto può dunque portare fortuna, il riconoscimento che ha avuto può contribuire a rendere meno fragile le comunità resistenti, coloro che testardamente immaginano un futuro nel luogo in cui sono nati, tra i monti, lungo il crinale appenninico, la spina dorsale dell’Italia a cui sempre più spesso rivolgiamo le spalle. Ricorda giustamente Teti: “Per resistere abbiamo bisogno di piccole utopie quotidiane capaci di cambiare il mondo anche con i segni e i materiali di un passato da riscattare”.

Da: Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018

L’istantanea – Il partito dei papà: quando i figli divengono i padri

Ogni figlio è piezz e core come si dice a Napoli, e gli italiani, interpretando liberamente questo sentimento, le hanno tentate tutte per saziare l’amore. È così nato il partito dei figli di papà che la gerontocrazia al potere accudiva oltre i meriti e i bisogni. Abbiamo conosciuto ministri e presidenti che si son fatti in quattro, a volte in otto, per offrire ai marmocchi la via breve del successo. Ne è nata per li rami la Repubblica dei cognati, delle mogli, delle fidanzate chiamate a rilevanti uffici pubblici per via della parentela. Le polemiche si sono sprecate e così anche i guai in cui i papà si sono infilati in ragione dell’amore filiale. Adesso che i governanti sono divenuti i figli, e sembrava finalmente risolta almeno la questione della successione per via ereditaria, sono i padri a dare problemi. I quarantenni si sono però portati al governo anche i rispettivi dante causa. E alcuni, come Tiziano Renzi o il babbo di Maria Elena Boschi, si sono così dati da fare da inguaiare letteralmente i marmocchi. Ora è il turno del papà di Luigi Di Maio. Certo, è incomparabile ciò che hanno combinato i primi due e i loro aventi causa, con la questione che ora affligge il terzo della lista. Però un fatto è certo: è nato il partito dei papà. E via con le marachelle della terza età.

da: ilfattoquotidiano.it

Ischia, così si evita la sanatoria

Su Ischia e i suoi abusi edilizi sta andando in scena il più grande festival dell’ipocrisia. Da sempre i suoi abitanti sono stati coperti nella loro iperattività costruttiva dall’abbraccio colluso della politica e persino in alcuni casi dall’occhio compassionevole della magistratura. Altrimenti non sarebbe stato possibile censire negli anni 28 mila abusi su una popolazione di poco superiore ai 60 mila abitanti. Significa che una famiglia su due ha infranto la legge e l’ha infranta anche ripetutamente per una sola ragione: l’economia turistica tira e ha bisogno di spazi sempre più coperti e sempre più attrezzati.

Sia il centrodestra che il centrosinistra hanno tentato nell’ultimo decennio di occultare questa realtà. Ma il vincolo di inedificabilità assoluta che subisce l’isola ha reso vano ogni tentativo. Il vincolo è giustificato dalle caratteristiche uniche del luogo e dalla particolare sua vulnerabilità, sismica e idrogeologica.

I Cinquestelle, con Luigi Di Maio, stanno ora ingenuamente tentando di sanare l’insanabile, regolarizzare ciò che non può essere.

Resta però la realtà: un terremoto si è verificato, molti cittadini sono divenuti senzatetto e ancora ospitati in alloggi di fortuna.

Se la politica decide di farla finita con l’ipocrisia, e i Cinquestelle decidono di farla finita con i condoni, una soluzione, magari parziale ma in qualche modo soddisfacente, può essere possibile e praticabile.

Anzitutto riducendo l’area del danno: ogni terremoto produce, insieme alle sue macerie, anche un simpatico filone di crepe fantasiose. Sappiamo che nell’isola il comune maggiormente se non esclusivamente colpito è quello di Casamicciola e solo su quel comune gli interventi finanziari dovrebbero essere destinati.

E sappiamo che i senzatetto sono prevalentemente inquilini di case fuorilegge. Non hanno dunque titolo al risarcimento, ma il costo sociale della loro condizione resta alto. La ricostruzione dovrebbe in questo caso non essere devoluta al singolo ma centralizzata dagli uffici pubblici ai quali dovrebbe essere concesso il potere di individuare nel piano urbanistico comunale l’area destinata a queste nuove costruzioni in modo da offrire, delocalizzandole, una casa a chi l’ha persa a un costo calmierato e con un pagamento dilazionato, come accade con i beneficiari dell’edilizia popolare. In cambio l’area di sedime su cui sorgono gli immobili abusivi di coloro che accettassero la sistemazione agevolata diverrebbe pubblica.

Niente condono, le aree a rischio restituite e risanate, e una casa sicura, non propriamente gratis però, a chi l’ha perduta. La giustizia farebbe il suo corso, e lo Stato confermerebbe di saper distinguere tra chi ha rispettato le regole e chi ha fatto della furbizia una regola.

da: ilfattoquotidiano.it

Ripensateci, il Giro senza il Sud è uno scempio e un tradimento

La bici è la nostra compagna di vita. Ci ricorda l’infanzia e ancora a tanti fa venire in mente la fatica. Quanti sono andati al lavoro e ancora vanno con la bici? Pedalare, si dice per illustrare oltre ogni misura che serve il sudore, l’impegno, la resistenza. Il ciclismo è perciò lo sport più vicino all’animo popolare, perché composto della capacità del nostro corpo di rispondere anche alle sfide più grandi, più impegnative, anche più rischiose per la salute (e le cattive e continue storie di doping stanno lì a dimostrarcelo).

SI VA ALLA CORSA ma senza obbligo di comprare il biglietto. Il ciclismo è l’unico sport popolare che non preveda ticket d’ingresso. Si va alla corsa senza necessità di odiare, contestare, senza un nemico insomma. La bici unisce e non divide. Perciò esistono eventi sportivi così grandi che hanno unito l’Italia e l’hanno difesa anche nei momenti più bui della storia repubblicana, come l’attentato a Togliatti. Fu il mitico Bartali a salvare l’Italia dalla guerra civile vincendo il Tour. E la corsa più amata, più influente, più partecipata, ha sempre legato la sua storia a quella del Paese, e ha fatto scendere in strada gli italiani, tutti gli italiani. Del Nord e del Sud.

Assistere oggi a un Giro che si dimezza, per via degli affari che incombono e indicano le tappe giuste e quelle sbagliate, è prima che una delusione una sconfitta. Vedere il prossimo Giro, 102esima edizione, che neanche tocca il Sud, raggiungendo a malapena San Giovanni Rotondo e poi deviando verso il Tirreno, verso Terracina, è il segno di un Paese spezzato, diviso, che neanche si riconosce più. Già la distanza tra Nord e Sud va incredibilmente allargandosi, con un Mezzogiorno che si spopola e dimagrisce fino a divenire scheletrico, raggiungendo il punto più basso della sua decrescita infelice: non c’è area in Europa più spopolata, più grande e più depressa che questa.Continue reading

Biancofiore&Sisto: “Quando la baracca affonderà gli italiani ci richiameranno”

Lui, barese, ha col diritto la stessa orgogliosa amicizia che lei, bolzanina, prova quando è issato il tricolore. Francesco Paolo Sisto e Michaela Biancofiore sono stimati deputati berlusconiani. Con loro affrontiamo un tema delicato ma attuale: la morte apparente di Forza Italia.

Giovanni Toti dice che siete un po’ già trapassati, vivete un po’ nell’aldilà della politica, nell’eterno riposo.

Sisto: Lei dice un po’. Un po’ trapassati, un po’defunti, mette sempre quel po’. Su quel po’ vorrei approfondire.

Biancofiore: L’ho scritto a Silvio Berlusconi. Dobbiamo scegliere: alimentare la competizione con la Lega oppure accettare il partito unico consapevoli che Salvini però non ha in mente di annettere ma di annientare.

Sisto:Abbiamo la consapevolezza che Berlusconi non è più il Verbo che illumina e attrae (temo che il Verbo sia Salvini). Dobbiamo noi darci da fare. Tajani non si ferma un attimo.

Biancofiore: Tajani avanza controvento e ce lo dobbiamo dire, purtroppo. Qui è necessario eleggere anche un segretario politico.

Sisto:I moderati non scompariranno. Appena l’onda populista ridurrà la sua forza, appena gli italiani capiranno di cosa sono stati capaci questi qua (intendo i gialloverdi), chiameranno noi a salvare la baracca.

Biancofiore: La situazione è seria e va vista nella sua complessità, anche se io conservo un ottimismo di fondo.

Sisto: I sondaggi dicono che abbiamo perso qualche punto, inevitabile considerata la contingenza. Conservo anch’io un ottimismo di fondo.

Biancofiore: Parlo per me, e parlo per Bolzano e Trento dove si è appena votato. Noi a Bolzano abbiamo raccolto l’1,02% e a Trento il 2,85%. A un occhio estraneo potrebbe risultare una catastrofe.

Sisto: La catastrofe vera la procurerà agli italiani questo governo. Già 300 miliardi di euro bruciati. Temo che ci chiameranno quando i danni saranno tali e tanti… Meglio non pensarci.

Biancofiore: A Bolzano gli italiani sono il 30% della popolazione, per cui quell’1,02 bisogna moltiplicarlo per tre e fa già il 3,76%. Non molto distante da quell’8% sul quale il partito è attestato nel nord est. A Trento il 2,85% non è certo esaltante, però vediamo pure gli altri. Vogliamo parlare del Pd? Dei 5 Stelle?

Sisto: Siamo in una fase di attesa operativa.

Biancofiore: Lei sa che quando è venuto a fare il comizio Berlusconi la città era letteralmente bloccata? Sa che non sapevamo più dove mettere la gente? Abbiamo dovuto lasciare una moltitudine fuori dalla sala.

Sisto: Certo, dovremo affrontare anche il nodo Lega. Perché una cosa è essere alleati, ma se tu, Salvini, ci vuoi togliere il pane di bocca, allora io dico no, no e no.

Biancofiore: Mai e poi mai avrei immaginato questo risultato. Ero super ottimista. Ho una relazione molto fisica con la politica. Metto passione, chi mi conosce lo sa. Percepivo un’aria frizzantina, felice per noi.Continue reading