Da San Nicola Varco a Rosarno: la mattanza dei diseredati

GIUSEPPE NAPOLI

 

Stesse scene. Stessi volti. Stesse barricate. Identica militarizzazione. Da Rosarno a San Nicola Varco, la mezzaluna colonizzata dagli schiavi della Piana del Sele. Li aspettavano di notte. Arrivarono alle 8 del mattino. Oltre 60 mezzi blindati e 650 uomini tra poliziotti, carabinieri, finanzieri e perfino la forestale per procedere allo sgombero coatto di oltre mille immigrati di colore ed alla tabula rasa delle favelas di San Nicola Varco. «Chi entra è morto, chi esce è appena nato». La scritta è in arabo. Campeggiava su uno dei muri all’ingresso. Suonava quasi come un avvertimento per i nuovi arrivati. Liberazione per quei pochi che riuscivano a scappare.
Diseredati. Ghettizzati. Clandestini. Rifugiati. Terroristi (?). Gente vomitata dalle loro terre e spedita all’inferno, tra parquet d’immondizia e pennnellate di fango. Dio solo sa quanti ne erano: mille e forse anche di più. Marocchini, tunisini, magrebini. Potevano finire in una serra di pomodori a Ragusa o in Puglia e invece seguirono le orme di Cristo: si fermarono ad Eboli, poco più in là, a San Nicola Varco, nelle cascine abbandonate attorno ad un vecchio silos di granaio. A due passi da un enorme capannone. Un mercato ortofrutticolo di proprietà della Regione Campania costato la bellezza di 20 miliardi di vecchie lire e mai entrato in funzione. Sullo sfondo, a perdita d’occhio, i campi e le serre delle multinazionali dell’agroalimentare.
Disperati del mare approdati nel regno delle mozzarelle e dei beauty farm, in questo scorcio di periferia dove ti alzi alle 4 del mattino, prendi la bici e ti fai spedito 30 km fino al primo “caporale”. E’ lui che ti prende e ti fa lavorare in cambio di una percentuale tra i 20 ed i 25 euro. Predoni nel regno delle fragole e dei fiori – se ti va bene – ma puoi finire sotto una serra di pomodori e spezzarti la schiena per un tozzo di pane o morire di fatica senza che nessuno ti dia una sepoltura perché sei clandestino. Come il marocchino trovato una sera in un vagone della ferrovia: era cadavere da almeno un mese, ma per l’economia della Piana del Sele semplicemente due-braccia da rimpiazzare. Vengono prima truffati e poi resi clandestini in loco. E’ la stessa legge Bossi-Fini a suggerire il percorso da compiere: l’unico modo per avere un visto d’ingresso è la chiamata nominale in Marocco da parte delle aziende del settore. Che ovviamente non può che avvenire tramite intermediatori (i caporali) della stessa nazionalità dei migranti. Paghi 5-6000 euro da spartire tra committente e caporale. Quando poi arrivi ed hai otto giorni per convertire il visto in permesso di soggiorno, l’azienda scompare. Le conviene di più riassumerti dopo, clandestino e in nero. E’ una truffa che attraversa tutta l’Italia: lo scorso anno su 8000 domande verificate dalle prefetture, migliaia si riferivano a società fittizie che non avevano nessuna possibilità di assumere, secondo i dati forniti da Radio Vostok.
Mentre la mattina del 12 novembre scorso si completa lo sgombero il sindaco bassoliniano di Eboli, Martino Melchionda, parla di una «necessaria opera di bonifica per tutelare il benessere dei cittadini». Carne umana da macellare e spedire altrove. La transumanza dei corpi infetti. L’ultima immagine della dignità umana scarnificata dalla politica.

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3 Comments

  1. Caro Giuseppe,
    ti ringrazie per le risposte agli appunti che avevo sollevato con il commento di qualche giorno addietro.

    Sei stato esauriente.

    Memento audere semper,
    Domitilla

  2. Cara Domitilla,

    trovo ampiamente degne di una riflessione collettiva i tuoi spunti post-articolo. Cercherò di essere sintetico.

    Legge Bossi-Fini. Il malcostume che ho riportato in riferimento alla piaga del caporalato ed al sistema delle assunzioni in nero è il riflesso condizionato di una comune deriva, in questo caso specifico di carattere imprenditoriale, che scandisce il sistema economico italiano e non solo. Mi spiego: fatta la legge, trovato l’inganno. Purtroppo -a dirlo sono i fatti- la trama normativa del legislatore presenta maglie troppo larghe dove sempre più facilmente va ad infilarsi la furbizia e l’illegalità. E’ chiaro: non è tutto marcio ciò che vediamo, ma nemmeno tutto oro.

    Sindaco di Eboli. La qualificazione di “bassoliniano” è voluta, ma non forzata. Non lo scopro io che Melchionda è stato ed è ancora oggi legato, politicamente s’intende, al governatore della Campania. Ma, credimi, l’aggettivazione non ha carattere spregiativo o ironico, anche se lascia a chi legge la discrezionalità di interpretare il messaggio che si vuole. Avevo necessità di descrivere politicamente il sindaco e l’unico modo era inquadrarne la “corrente” politica. Tutto qui.

    Grazie a te per il contributo.

    G.

  3. Caro Giuseppe,
    siamo tutti d’accordo sul fatto che esista un brutale dei migranti che lavorano nelle nostre pianure. Tutto cio’ non e’ umano.

    Tuttavia, trovo pretestuosi i riferimenti alla legge Bossi-Fini e al fatto che il sindaco di Eboli sia “bassoliniano”.

    Legge Bossi-Fini. Mi pare di capire – correggimi se sbaglio – che tu faccia discendere il malcostume delle aziende fittizie e le conseguenti assunzioni in nero di personale dalla legge in questione. O meglio, che la legge Bossi-Fini sia stata promulgata, tra le altre cose, per compiacere una certa parte del Paese, cioe’ una certa imprenditoria. Non mi pare che la implicazione di cui sopra sia cosi’ ovvia ed immediata.
    Laddove tu volessi dissipare questi dubbi, ed erudirmi con qualche esempio concreto di queste connesioni, te ne sarei davvero molto grata.

    Sindaco di Eboli. Credimi, faccio davvero fatica a capire la necessita’ di qualificare il signor Melchionda con l’aggettivo bassoliniano.

    Grazie per la tua pazienza e per l’attenzione che vorrai dedicare alle mie righe.

    Memento audere semper,
    Domitilla

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