Raffaele La Capria “Infelici e smisurati ecco il precipizio”

LO SCRITTORE CLASSE 1922: “IN ITALIA SI È PERSO IL SENSO DELLE COSE. LA POVERTA DI MASSA È FRUTTO DEI TROPPI PRIVILEGI E DELLE DISEGUAGLIANZE: NON CI ORGANIZZIAMO PER IL BENE COMUNE”


Un fato ci sovrasta e ci rende irriconoscibili e ci fa vivere una delle peggiori pene umane: sapere benissimo le cose che ci portano alla rovina e non avere alcun potere per evitarle. Come analisti dei nostri difetti siamo i migliori, Freud ci fa un baffo. Spietata ma inutile diagnostica. Non ce la facciamo a redimerci, è colpa di un diavoletto che ci conduce all’infelicità anche quando potremmo fuggirla. Abbiamo dato al mondo il senso della bellezza e adesso viviamo immersi nell’orrido quotidiano”. Raffaele La Capria usa ago e filo per illustrare i nostri malanni.
È CLASSE 1922: una roccia. Ha visto e descritto l’Italia devastata e ricostruita, il fascismo e la democrazia, la monarchia e la Repubblica. “Siamo destinati a una vita sregolata, succubi della dismisura, il principio base delle nostre nefandezze. Sorvoliamo sulla logica, sulla banalità quotidiana, sull’illustrazione piana delle cose che si devono fare e di quelle che non si devono fare. Il partito della dismisura, di cui siamo ferventi militanti, ci ha condotto al precipizio. Io guardo da qui, da questa poltrona e mi dico: ma è possibile tutto questo?”. Lei ne fa una condizione genetica. “È un problema culturale. Delle molte disgrazie dell’Italia una soprattutto è opera del mito del fato immutabile e incoercibile che ci ha condotto alle crociate, alle guerre. Il fato si è tradotto nel carattere delle persone, nelle difficoltà a prendere atto che in certi momenti bisogna cambiare strada. Tutti lo sanno oggi, anche Grillo lo sa, ma è condizionato dal fato. Precipiti e basta. Precipiti e non hai parole”. Il precipizio è la parola chiave di questa intramontabile crisi italiana. È il punto geografico dove ci troviamo, è la linea di fuoco sulla quale facciamo ardere i nostri piedi. Per Raffaele La Capria il mostriciattolo è in noi, nella nostra natura, nella condizione permanente di riluttanza ad affrontare il bene nella sua banalità. “Se avessimo rigore dovremmo riconoscere che il bene si compone di una sua geometria, e di un alfabeto semplice, limpido, piano. Può parlarmi dei poveri chi conosce il privilegio e vive nella spensieratezza? Basterebbe questa elementare considerazione per eliminare dal palcoscenico persone che della vita conoscono gli agi senza averli mai conquistati con il lavoro, l’intelligenza, ma solo visti trasferire senza ritegno e senza capacità. Non è credibile il tizio che mi fa la morale avendo truccato carte e concorsi, carriera e curricula. Ma, come diceva Goffredo Parise, viviamo nel Paese della politica, usiamo un linguaggio politicante. Abbiamo invece bisogno di altre parole, di altri schemi logici per promuovere o bocciare idee e persone”. Per esempio? “La misura, signora sconosciuta, è la prima parola che dovrebbe indicarci questa crisi. La misura, cioè il rapporto tra la logica e gli atti che compio, produce tensione positiva, alimenta una sana competizione, impone a ciascuno di limitare il suo campo d’azione. Parlare delle cose che conosce, gestire le competenze che possiede, insegnare le materie che governa. La misura è unità di base della logica elementare. Ecco, dimentichiamo gli elementi essenziali della logica e ci tuffiamo verso il nostro infinito amor: l’estremismo della ideologia. Dovessimo parlare piano e farci capire da tutti: in questo momento di crisi cosa dovremmo fare? Organizzarci per il bene comune, trovare uno sguardo comune, un punto di intesa per raggiungere prima possibile quel bene. E invece dobbiamo sottostare a tutte le pretese e a ogni ideologismo di quello che definisco, quando ascolto il bla bla bla in televisione, il partito della dismisura”. Berlusconi è il capostipite della dismisura, non crede? “Non dubito, però faccia attenzione: il diavoletto non è fuori di noi, questo diavoletto è dentro ciascuno”. Gaber diceva: non temo il Berlusconi in sé, temo il Berlusconi in me. “Ecco, bravo. Siamo fregati dal sentimento più forte che regna nel nostro animo: il particulare. Ce l’ha descritto Guicciardini e sembra purtroppo una condizione eterna: il mio benessere, le mie benemerenze, la mia carriera. È sconfortante dirlo, ma siamo inchiodati a questo sentimento intramontabile. E il particulare è la radice della corruzione pubblica che noi occultiamo facendoci scudo dell’idealità.
IL CORROTTO non sa nemmeno di esserlo perchè confonde il suo particulare con l’idealità che lo lancia alle vette dello spirito. È corrotto ma nemmeno sa di esserlo! Io ce l’ho con quelle persone che attraverso la politica hanno spolpato la ricchezza altrui. Alla mia età devo faticare ancora, scrivere articoli per godere di una vita da benestante. Io nemmeno conosco i pensieri che attraversano la vita di un povero cristo, non conosco le sue parole. E questa crisi, questo panorama improvvisamente desolato è il frutto dell’eccesso di privilegio, della dismisura come regola fondante, come principio attivo delle diseguaglianze. Nell’età di Costantino le statuone erano il segno distintivo della decadenza. Si moriva di fame e si erigevano marmi possenti all’Imperatore. È così anche oggi: lussi sfrenati contro morte sociale, riduzione a una nuova sconosciuta schiavitù e una nuova plebe che subisce”. Non c’è riparo, non c’è soluzione? “Ho poche certezze, tra queste l’equilibrio e la misura del mio amico Giorgio Napolitano. Sono convinto che lui sarà governare questo caos, tenerlo a freno, dargli una via d’uscita”.


da: Il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2013

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