È curioso che il prefetto di Roma Franco Gabrielli faccia intendere di aver bisogno di tutto il mese di luglio per leggere le carte che conosce da mesi e valutare se proporre al ministro dell’Interno lo scioglimento o meno del Consiglio comunale di Roma. Curioso e fonte presumiamo di un qualche imbarazzo il fatto che nell’inchiesta compaia un riferimento a lui in una conversazione di Luca Odevaine, l’uomo nero dello scandalo. “Me dice: senti Luca prenditi n’attimo ste carte”. Le carte riguardano il centro di soggiorno dei migranti di Mineo. “Te la senti de fa sta gara?”. Odevaine se la sente, certo che sì. Curioso anche che il ministro dell’Interno si trovi nella situazione di decidere se è vero che il Viminale, proprio il palazzo che abita, sia stato sistematicamente “condizionato”, sia stato cioè soggetto a pressioni indebite per deviare in un luogo piuttosto che in un altro il flusso degli immigrati e la massa dei soldi pubblici che li segue. E curioso che Angelino Alfano debba essere costretto a valutare anche il comportamento di Giuseppe Castiglione, suo referente siciliano, nell’appalto succulento per le cucine del campo di Mineo.
CURIOSO poi che Matteo Orfini, per anni luogotenente dalemiano e molto partecipe ai flussi di potere che intorno al Campidoglio prendevano corpo e poltrona, ora sia obbligato, da commissario ripulitore del Pd romano, a consegnare con un applauso alla gattabuia i compagni che hanno sbagliato. Curioso infine che Matteo Renzi debba sentirsi nell’obbligo di spiegare che aspira a un verdetto senza pietà per gli arrestati di ieri, (forse anche per quelli di domani, se ci saranno), quando il suo vice Lorenzo Guerini alcuni mesi fa perorò con uguale intransigenza la proposta di elevare il presidente del consiglio comunale Mirko Coratti, oggi purtroppo trasferito a Regina Coeli, al trono di uomo forte della giunta Marino. Ascoltare le parole del sindaco che si traveste da cittadino partecipe e plaudente dell’azione della Procura romana senza avvertire il peso di dover ammettere che i suoi uffici sono stati costantemente, sistematicamente tenuti sotto il controllo di una organizzazione vasta, ramificata e trasversale che condizionava le scelte nei settori dove i capitoli di bilancio (Politiche sociali e lavori pubblici) rende l’idea del cortocircuito istituzionale e del maestoso conflitto di interessi che la questione dello scioglimento comporta. Il Partito democratico e anche il governo una volta di più si trovano però a dover combattere con norme che sembrano non dargli scampo. E una di esse, finora applicata in 128 casi, ha previsto lo scioglimento dei consigli comunali quando “…emergono collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori stessi che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali”.
VOLENDO strafare il Parlamento ha previsto con la legge 15 luglio 2009 n. 94 la riformulazione dell’articolo 143 del Testo unico sugli enti locali ridefinendo i caratteri dello “scioglimento dei consigli comunali per infiltrazione di natura mafiosa o similare”. Il Parlamento è stato giustamente duro e inequivoco, prevedendo che la mannaia prefettizia decapitasse il comune persino quando in assenza di inchieste giudiziarie o arresti in corso, avendo la norma carattere “extra penale”. Di più: lo scioglimento è ritenuto una funzione di “prevenzione” e ha natura “cautelare”. Ha efficacia, validità e giustificazione anche dove è impossibile per la magistratura giungere a provare esattamente ogni addebito, non richiedendo né la prova definitiva della commissione dei reati né che i collegamenti tra organizzazioni criminali e amministrazioni risultino da prove inconfutabili e definitive. Per 128 (centoventotto) volte il Ministro dell’Interno ha proposto lo scioglimento dei comuni dove gli indizi erano numerosi e gravi. Curioso che oggi, al cospetto di una inchiesta che si chiama “Mafia Capitale”, con torpedoni di inquisiti e arrestati, la norma del pacchetto sicurezza venga reinterpretata. E il pugno duro di ieri di trasformi ora in una carezza.
Da: Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2015