ALFABETO – PAOLO CASARIN: “Per riconoscere i potenti in campo basta guardarli”

Il gioco è come la vita. C’è il più forte e il più debole.

E l’arbitro con chi sta?

“L’arbitro dovrebbe stare in mezzo, io mi sforzavo di stare in mezzo”.

Paolo Casarin è alto un metro e novanta, ed è ben piazzato di suo. Da perito chimico ha lavorato all’Eni, poi in banca. Ma per 28 anni è stato al centro del campo, per una decina al centro delle varie moviole. Oggi ha 77 anni e commenta in tv e sul Corriere della Sera il fallo tecnico e quello accidentale, l’intenzione e l’ostruzione, le carogne e le anime belle del calcio.

L’arbitro è venduto per principio.

Te ne dicono di tutti i colori ma ti caghi sotto solo prima di entrare in campo. Ricordo un collega peruviano che pregava stringendo il rosario in petto. Si affidava alla Madonna, credo anche alla mamma morta. Tremai un po’ anch’io quando ai mondiali di Spagna mi dettero una rogna: gli spagnoli contro i tedeschi. Tocca a te, disse il designatore.

Entri in campo e sbagli.

Io avevo imparato a memoria il libretto con le 17 regole del calcio. Quelle diciassette regolate. Oltre quelle c’era la mia discrezionalità.

E qui siamo all’arbitrio.

Se sei onesto, e generalmente lo sei, non ti fai prendere la mano. Io, per controllarmi, tenevo il fischietto in tasca in modo che servisse del tempo, qualche secondo, per estrarlo. Quel tempo mi serviva come riflessione cognitiva: sto facendo una cazzata oppure no?

Visto da fuori il campo di gioco sembra una piazza d’Italia. I potenti si riconoscono.

Si fanno riconoscere, sì. Li vedi da come ti guardano, dalla postura che hanno. I calciatori di nome stanno nelle squadre famose e quelle famose esigono rispetto.

Nulla di nuovo sotto il sole.

Quando invece sei scalcagnato sei convinto che ogni punizione sia regalata in virtù del nome più che del fallo. E protesti.

A lei stavano simpatici gli umili.

A me i furbastri stavano sui coglioni.

Arbitrio.

Ai miei tempi succedeva di avanzare verso l’arbitrio, le regole lo consentivano. Io per esempio non fermai il gioco quando Giancarlo Antognoni venne colpito alla tempia da una ginocchiata dell’avversario, si giocava Fiorentina- Genoa. Il poveretto rimase lì immobile, steso a terra e deve ringraziare un bravissimo massaggiatore se le cure furono appropriate e tempestive. Io non avevo fischiato fallo. Non l’avevo reputato fallo. Fu arbitrio? Sì.

Lei forse era lontano dall’azione.

Adesso gli arbitri sono professionisti, si allenano per bene. Ai miei tempi si svoltava rubando al lavoro qualche ora per allenarsi. E c’era il fiatone, vedevi e non vedevi.

Quanto si guadagnava?

Per un Inghilterra-Olanda beccai 100 euro di oggi, oltre al rimborso spese.

Oggi invece?

I grandi partono da centomila euro all’anno in su e guidano un esercito di colleghi chiamati a guardare da ogni angolo del campo la partita. Poi c’è il Var, la macchina che ti consente di ridurre il margine di errore. È un altro mondo.

Ma l’arbitro resta il venduto per eccellenza.

Il tifo da stadio è si riduce a una cortina sonora che non ti infastidisce. Poi in genere l’arbitro ha grande autostima. L’effetto collaterale è che se sbaglia va in depressione.

Fare l’arbitro fa raggiungere un invidiabile status sociale.

Certo. È la ragione di tanti che si sottopongono a sacrifici pur di raggiungere la vetta. Sei arbitro. E se sei arbitro di Serie A…

E se sei arbitro internazionale…

Allora hai toccato la vetta.

Il presidente della Repubblica è arbitro.

Ecco.

Alcuni arbitri assomigliano a dei pm.

A me piaceva fare il giudice. Ma ti accorgi della debolezza o della forza per come gestisci la partita, per quanto fischi.

Per come affronti i potenti in campo.

E quante volte gli dai ragione e quante volte torto.

E fischi anche se non si dovrebbe.

Succede.

Il furbo che fa simulazione è l’arcitaliano.

Mamma mia che collera che mi veniva. C’erano questi tipi che facevano i cascatori, ed era tanta la bile che li avrei presi a calci. Alzati e cammina, stronzo!

Ma non si può.

Non si può, però non ti sta simpatico.

Il fischio di antipatia.

In campo c’è brava gente, poi però pure qualche carogna.

Da: Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2017

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