Gentiloni scippa a Renzi pure il consenso: all’Italia piace il suo silenzio

Paolo Gentiloni sembra divenuto il sarto perfetto, da curatore fallimentare del maggioritario, in via di tumulazione nel Parlamento, capo di un governo di piena e composta minoranza per un’Italia oramai assente e autistica, divisa nelle dichiarazioni di voto in tre parti uguali, nessuna delle quali preponderante. Gentiloni si sente poco e si vede meno, ma da premier anestesista sfoggia il carattere del campione. I sondaggisti restituiscono i valori in campo che rileggiamo con l’aiuto di Lorenzo Pregliasco, direttore di You Trend: le differenze numeriche con l’esecutivo Renzi sono minime nella serie storica, massime nei picchi. Renzi lascia a Gentiloni un governo che ha un consenso del 38 per cento, e Gentiloni lo porta al 43. È il gregario che sopravanza il leader, è il mediano che fa la partita e non il centravanti.

NELLA SERIE storica del gradimento fotografata da Demos i due esecutivi – durante la loro vita – stabilizzano le loro quote di consenso intorno al 40 per cento, ma la media tace dei tonfi, dei picchi all’ingiù, il pegno che Renzi ha pagato al grande credito che ha alimentato al tempo dell’assunzione del governo, e poi al consenso dilapidato dagli errori di gestione politica, dalle scelte sbagliate, dai bonus lanciati come carte di poker sul tavolo della politica e infine dalla ipertrofia comunicativa finanche fastidiosa. Invece di Gentiloni cosa si può dire? “Il silenzio, che pure fa parte del carattere dell’uomo – dice Pregliasco – è frutto però di una strategia. Raffreddare, scendere dal piedistallo, restituire all’assenza un ruolo.Continue reading

ALFABETO – ERMES MAIOLICA: “La gente è stanca, senza soldi e si beve le bufale che scrivi”

Misuriamo, scemenza per scemenza, la malattia del web insieme a Ermes Maiolica, capo scemo che è riuscito – avendo l’unico merito di scrivere idiozie – a godere di una certa notorietà.

Ha persino un nome d’arte e tanti che la intervistano e la chiamano a incontri pubblici.

Ermes è rimasto, ho solo cambiato il cognome: faccio Piastrella all’anagrafe e mi è parso giusto chiamarmi Maiolica.

Non ha un’arte e non ha una parte.

Metalmeccanico a Terni, vita un po’ sfortunata e un po’ appartata, sono stato seguace delle idee complottiste. Tutto il male fuoriusciva da una unica sorgente, un disegno preordinato dai poteri che controllavano il mondo e lo schiavizzavano.

Ha iniziato a scrivere bufale, quelle che oggi si chiamano fake news.

Non conoscendo Internet, figurarsi i social, ho iniziato a giocarci. M’è venuta l’idea di fare dei post impossibili e incredibili e ficcarli dentro i gruppi di discussione virtuale.

Ha notato subito che parecchi idioti abboccavano.

Ho affinato l’arte del fake, ho iniziato a proporre cose sempre più avanzate.

Stronzate sempre più grosse per testare quanto minchioni fossero gli italiani.

Ho conosciuto il successo vero, con migliaia di like e di commenti, con un post sulla Kyenge, l’ex ministro di colore del governo Letta. Ho scritto che la Kyenge stava dando le case popolari ai rettiliani, un popolo della fantascienza.

E gli idioti?

Madonna che bello. Un successo stratosferico. Solo pronunciare il nome della Kyenge faceva venire sui like, poi collegato alle case popolari e infine a un popolo diverso dal nostro lo faceva esplodere.Continue reading

ISCHIA, SOLDI PUBBLICI PER LE CREPE ABUSIVE

Sono ventisettemila le domande di condono, seicento le ordinanze di demolizione e migliaia gli atti giudiziari e le pagine dei giornali che descrivono la relazione compulsiva e ossessiva che Ischia ha con il cemento. L’isola è un vulcano e ha i lineamenti fragili di una statua di gesso. Se ogni pioggia si fa temporale, e ogni temporale muove i costoni fino a spingerli a mare, così ogni scossa, anche la meno distruttiva, compie un disastro.

TUTTO SCRITTO, tutto conosciuto, tutto così drammaticamente narrato fin da Benedetto Croce che raccontò la terribile ecatombe del 1883 di Casamicciola, dieci gradi della scala Mercalli, duemilatrecento morti: “Mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle e vedevo intorno il terriccio giallo e mi pareva di sognare (…) Mio padre, mia madre e mia sorella furono rinvenuti solo nei giorni seguenti, morti sotto le macerie”.

Eppure la storia non insegna mai, anzi Ischia acuisce il paradosso del rischio come tuffo carpiato nell’illegalità: più esso è alto e più alta è la percentuale di coloro che decidono di correrlo.

L’abuso edilizio sull’isola è infatti divenuto uso quotidiano e collettivo, sistema per campare e far campare, un modo per arricchirsi e arricchire. La corruzione, che i giuristi definiscono un reato-contratto, non ha vittime che denunciano ma appunto contraenti che fanno affari. Tu mi dai soldi, o voti, e in cambio io ti permetto di fare ciò che non si potrebbe nemmeno volendo invocare la “necessità”, una parola perfida e ipocrita che persino i grillini, per via della campagna elettorale in Sicilia, utilizzano per giustificare con pari ipocrisia la devastazione del territorio in quell’altra isola.

Il terremoto di Ischia consegna all’Italia un altro paradosso: d’ora in avanti, sperando sempre che ciò che gli abitanti e i turisti hanno subìto non abbia repliche, si conteranno i danni. Che non sono solo le macerie delle poche case cascate, o della vecchia chiesa stesa a terra, come un furbesco comunicato dei sei sindaci dei Comuni dell’isola tenta di far credere. Migliaia saranno le crepe, più o meno vistose e profonde. E migliaia le opere di consolidamento che dovranno essere compiute. Di certo le cuciture più costose – se si vorranno fare, com’è augurabile –s aranno dirette nelle abitazioni peggio costruite. E qui non c’è dubbio né scampo: le opere murarie furtive, compiute nelle notti cieche dell’abuso collettivo, saranno quelle più gravemente danneggiate. E per consolidarle ci sarà bisogno di notevoli iniezioni di danaro pubblico. Per la prima volta nella storia dissennata di questo nostro Paese la ricostruzione pubblica, garanzia e presidio della messa in opera secondo il rigore della legge, rischierà di legittimare l’abuso, istituzionalizzare per legge il fare contra legem. Se rifiutasse di aiutare gli abusivi l’isola bella, la magnifica e lussureggiante terra che guarda i campi flegrei e dà il fianco al Vesuvio, sarebbe un conservatorio di macerie disseminate, di crepe silenti e pericolose, di intonaci caduti, mura sbrecciate, tetti pericolanti o infiltrati dall’acqua.

Al danno dunque la beffa. Il danno di una classe dirigente, burocratica e politica, che ha consumato o lasciato depredare un territorio così incredibilmente ricco, fonte di un’agiatezza economica che gli isolani certo non dividono col resto del Paese, e la beffa di chiamare le Istituzioni, le cui leggi sono state disattese, eluse o vilipese, ora a intervenire.

NEL COMUNICATO col quale i sindaci hanno escluso categoricamente che gli edifici crollati fossero quelli edificati oltre la legge o contro la legge, non c’è traccia – perché non vi poteva essere – di quanti cittadini proprietari di case legali, di quelle solo sanate e delle altre insanabili, chiederanno un sostegno economico. Basteranno però poche settimane perché il censimento dei danni si compia. E il saldo finale sarà la cartina di tornasole di quanti soldi saranno necessari e a chi andranno. Né in quel comunicato c’è traccia di un’altra realtà: quante case condonate hanno poi ricevuto opere di adeguamento o consolidamento statico. Sarebbe facile per i sindaci, e utile per l’opinione pubblica e per l’immagine dell’isola, andare negli archivi degli uffici tecnici e controllare quanti ischitani o italiani che nella meravigliosa isola hanno deciso di risiedere e fare affari, costruire e trasformare in alberghi, residence, B&B le loro dimore hanno provveduto a curare col ferro le colate di cemento impoverito per via dell’abuso, a cucire con i cordoli le pareti di mattoni forati eretti sotto le stelle.

Quanti insomma, ravvedendosi, hanno scelto di mettere in sicurezza – seppure a posteriori – la propria abitazione e quanti invece hanno atteso che la sorte bussasse alla porta.

Da: Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2017

ALFABETO – DANIELE CACCAMO: “Noi vigili del fuoco ‘discontinui’: pronti, ma lasciati a casa”

La linea del fuoco che divampa senza sosta nel sud d’Italia, bruciando i suoi boschi, le sue bellezze e le sue residue ricchezze, è tenuta sotto controllo anche dal “vigile discontinuo”. È un pompiere che guarda il fuoco ma non lo spegne. Attende. Attende la chiamata, il suo turno. Se arriva, quando arriva. La burocrazia trova sempre le parole giuste per definire la propria sclerosi. Dovendo distinguere tra precari e precarissimi, tra disperati e disperatissimi, è stata coniata questa ridicolaggine: il vigile del fuoco discontinuo. Un esercito di riserva dei pompieri, che oggi tocca le 16 mila unità, organizzato in una associazione sindacale il cui presidente, Daniele Caccamo, risiede a Reggio Calabria. “I vigili del fuoco in Italia sono 26 mila. Ne tolga mille impegnati nelle postazioni fisse dei 38 scali aeroportuali, ne tolga un’altra quota imboscata, infrattata o solo ammalata, poi divida per quattro, tanti sono i turni di lavoro quotidiani, e troverà in questo momento all’opera in tutta Italia 6.500 vigili attivi”.

Pochino.

La notte del terremoto di Amatrice, il comando di Rieti aveva in servizio cinque pompieri: l’autista, il capo pattuglia e tre colleghi. Nelle prime due/tre ore tanti erano impegnati a fronte del disastro. Però a Rieti vivono molti vigili discontinui, che quella notte sono andati al comando chiedendo di essere impiegati. Gli hanno risposto che non era possibile, perché il comando non aveva previsto turni per loro. Neanche gratis sarebbero potuti andare perché non ci sarebbe stata copertura assicurativa. Cosicché si è dovuto attendere l’arrivo delle varie colonne mobili da Roma e Milano. Anche con le pietre sulla testa della gente noi siamo stati esclusi.

Voi siete vigili del fuoco ai quali lo Stato chiede sempre di meno.

Fino al 2014 eravamo occupati per tre, quattro, cinque mesi all’anno. Poi l’austerità e il taglio dei turni e degli impieghi. Prima ci aiutavamo con le indennità di disoccupazione: metà anno lavoravamo, metà percepivamo l’indennità. Oggi le ore sono così poche che non abbiamo alcun diritto.

Voi siete i pompieri di terza fascia, i precari dei precari.

Infatti chi va in pensione viene rimpiazzato dai vincitori del concorso del 2007.

E voi non siete vincitori di concorso.Continue reading

ALFABETO – MICHELE ORICCHIO, procuratore della Corte dei Conti in Campania: “Siamo un Paese troppo creativo: anche sugli sprechi”

Il mondo alla rovescia. L’autovelox che doveva impedire di farci sfracellare in auto imponendoci di percorrere le statali alle velocità della Formula uno è stato utilizzato per aumentare l’indice di indebitamento dei comuni; la Tari, che avrebbe dovuto portare pulizia nei conti e nelle strade, produce extra costi e, purtroppo, un di più di monnezza a la carte. Due degli esempi che Michele Oricchio, procuratore della Corte dei Conti in Campania, il pubblico accusatore degli sprechi collettivi, avanza per documentare il destino irrecuperabile delle casse pubbliche. “Le spiego perché l’autovelox ha realizzato un altro momento di costosa inefficienza pubblica?”.

Spieghi, procuratore.

La misura del controllo della velocità è assolutamente condivisibile. Ma l’auto velox più che preoccuparsi dell’incolumità dei viaggiatori è divenuto il banchetto al quale hanno attinto le fauci voraci dei comuni lambiti da strade a scorrimento veloce.

I sindaci hanno puntato gli infrarossi.

I sindaci hanno immediatamente capito che prendevano due piccioni con una fava: si spennava il viaggiatore ignoto, dunque liberi di farlo inviperire per l’ammenda comminata sul filo di lana dei 90 chilometri orari, venti in più del previsto, e quei soldi li distribuiva ai viaggiatori felici e incolumi da ogni possibile misfatto nella loro qualità di residenti ed elettori.

Il sindaco prega che il viaggiatore ignoto prema sull’acceleratore.Continue reading

Favara e l’abuso a rovescio: sigilli contro l’arte in strada

Veniva riscontrata occupazione abusiva di suolo pubblico con una pedana di legno avente forma trapezoidale (…) con una sovrastante struttura di ferro e legno… con una struttura denominata Equilatera avente le seguenti dimensioni: base maggiore m 4,60 metri, base minore metri 3,20, lunghezza 13,60 metri”.

A FAVARA, città siciliana che all’abuso fa l’inchino quotidiano, abituata negli anni a essere deformata dal cemento, al punto di apparire, nella prima periferia, più un’escrescenza urbana alle porte di Agrigento che una città orgogliosa delle sue mura e della propria identità, il comune annota l’abuso di una installazione artistica e prescrive – con tanto di provvedimento – il ripristino dei luoghi, prospettando una sanzione amministrativa che potrà raggiungere i ventimila euro. Nella tenaglia dell’occhiutissima amministrazione, oggi peraltro guidata da una giovane sindaca cinquestelle, Anna Alba, è cascato il Farm Cultural Park, un’invenzione di una coppia, Andrea Bartoli e Florinda Saieva, che ha rivoltato letteralmente l’immagine della città, trasformandola da disastrata enclave di un territorio – l’agrigentino appunto – s edotto e conquistato dalle mafie a snodo nevralgico dell’arte contemporanea, stazione di partenza e di arrivo di artisti di grande livello. Una enorme farcitura culturale che si regge – e questo è un altro dato enorme per l’isola – sulle finanze private. Una scommessa nella scommessa e, cosa ancora più lucente e incredibile, un traino incredibile per l’economia locale che si è vista conquistare da questa idea, per metà pazza e per l’altra metà invece lucidissima. La fattoria creativa si è trasformata in una meta imperdibile, gli alberghi hanno iniziato a riempirsi, le imprese a darsi coraggio, la città a riconoscere un progetto nato nel segno di una scelta familiare, di un desiderio privato: “Dovevamo prendere una decisione per le nostre figlie: farle vivere nel degrado era per noi inaccettabile. Allora ci siamo detti: o cambiamo Favara oppure andiamo all’estero”, ricorda Bartoli, il notaio fondatore.Continue reading

Andrea Causin: “Cucino per i camionisti e in politica corro con B. per salvare le periferie”

Non esistono solo Renzi o Berlusconi o Grillo. In Parlamento in tanti vogliono cambiare l’Italia e purtroppo non hanno un filo di visibilità, giacciono all’ombra dei leader. Per dire, conoscete mica Andrea Causin? “Ho 45 anni e vivo a Martellago. Ho una trattoria per camionisti proprio allo svincolo autostradale e sono socio di una impresa di servizi. Poi, per passione, faccio il deputato”.

Causin, diciamola tutta, lei si schermisce perché il suo stile è improntato alla sobrietà. Però la notizia è un’altra.

Facevo bene allora a non risponderle. In genere non parlo coi giornalisti perché scrivono quel che vogliono, ti rubano il pensiero, te lo ciancicano, te lo stropicciano e tu ne esci come un coglione.

Si è appena iscritto a Forza Italia, la ricandidatura è sicura…

Sono stato due ore e mezza da Silvio Berlusconi e ho visto un uomo sinceramente preoccupato per lo stato delle periferie in Italia.

Non c’è solo Trump. Finalmente un altro ricco che pensa ai poveri.

L’ho trovato sul pezzo, volitivo, generoso. E io che ho presieduto la commissione periferie mi sono sentito garantito dal suo impegno.

Vogliamo dire che c’è anche dell’altro? Lo dice lei o lo scrivo io?

Certo, mi muovo nel solco della tradizione del Partito popolare europeo. Cambio partito per restare fedele al principio.

E pensare che Veltroni la volle nella segreteria nazionale del Pd.Continue reading