Coronavirus, la spedizione albanese. La lezione della memoria

Donare una fetta di prosciutto per chi ne possiede solo altre tre nel frigo è un atto di generosità incomparabile rispetto a chi compie lo stesso gesto avendo però in cantina un prosciutto intero.

Perciò i trenta medici e infermieri che il governo albanese ha inviato in Italia per aiutarci a vincere questa guerra ha il sapore di un sacrificio rilevante, di un gesto di particolare e intensa solidarietà. E le parole del premier Edi Rama, in un italiano così pulito e elegante, che in un video accompagnano questa spedizione, paiono piene di una sincerità insospettabile, di una amicizia profonda. “Non siamo ricchi, ma non siamo privi di memoria”, dice Rama ricordando che migliaia e migliaia di suoi connazionali hanno trovato ospitalità, lavoro e una nuova vita in Italia.

Gli ospedali albanesi non hanno le risorse tecnologiche dei nostri centri, i medici albanesi non godono delle competenze e del supporto su cui possono contare i loro colleghi italiani. La società albanese, ancora in larga parte priva delle protezioni sociali che noi conosciamo, non può contare su un sistema sanitario capillare come il nostro.

Eppure trenta dei loro medici e infermieri, preziosissimi in tempi di pandemia in un Paese che ha risorse umane limitate, sono qua per dimostrare che la memoria regala una grande lezione di civiltà.

Da: ilfattoquotidiano.it

Coronavirus, faremo altri errori. Se riusciremo a costruire la società del rimedio

Tra le tante necessità che abbiamo una supera tutte: quella di sbagliare in fretta. Davanti al mistero di questo malanno che conduce alla morte tanti, possiamo soltanto avanzare per approssimazione.

Se è vero che stiamo sperimentando un evento mai sperimentato, è chiaro che gli errori successivi a quell’evento saranno tanti. Ha ragione Alessandro Baricco: la nostra capacità sarà quella di sbagliare il più velocemente possibile. Di capire in tempo l’errore dov’è, e di trascinarlo via dalla nostra operazione quotidiana.

Esempio 1: Il commissario per l’emergenza Arcuri ha capito che le dotazioni per la protezione individuale non arrivano ai sanitari nello stesso momento. Coloro che vivono in città vicine ai grandi centri di smistamento ricevono mascherine e tute prima dei colleghi che operano lontano da quei centri. Rendere indifferente la distanza sarà una grande conquista.

O ancora: abbiamo fatto bene o male a chiudere quasi tutto? Esempio 2: Per quanto tempo ancora saremo in grado di reggere lo stress non solo sociale ma anche economico? Chiudere l’Italia per un altro mese creerà più tensioni o le diminuirà? Avremo più sicurezza? Capirlo in tempo, capire se stiamo facendo la cosa giusta e capirlo più in fretta possibile.

Si dirà: la fretta è cattiva consigliera. In questo tempo, e in quello che ci aspetta, dovremo riuscire a sovvertire il motto. Essere più veloci senza essere temerari, avventurieri. L’unica soluzione che abbiamo è di sommare le nostre forze, cioè le nostre intelligenze. Capire che l’intelligenza collettiva, quel che sai fare tu e quel che so fare io, se sommata ci renderà meno stupidi, o meno superficiali, o solo meno prede della paura. Facendo così ridurreremo il margine di errore. E quindi: meno errori, meno problemi. Provare per credere.

Da: ilfattoquotidiano.it

Coronavirus, alla guida della macchina dei soccorsi giovani zero. Solo anziani

Il virus attacca maggiormente gli anziani, gli ultrasessantenni. Ma la prima linea del fronte che deve respingere l’attacco è formata da ultrasessantenni.

Questa grande epidemia ci fa conoscere ancora di più come l’organizzazione della macchina dei soccorsi, la gerarchia del potere a livello periferico, escluda i quarantenni e i trentenni da ogni responsabilità di rilievo. Regioni e ospedali sono, quasi esclusivamente, nelle mani degli anziani.

È insieme un problema e un paradosso.

Il problema è quello di sempre: non riuscire a innestare nel grande corpo burocratico dello Stato e nelle sue diramazioni periferiche, le passioni, le capacità e le competenze di chi ha meno di cinquant’anni. Il paradosso è che invece a livello centrale la classe politica propone una leadership assai più giovanile. Il premier Giuseppe Conte, il più anziano, ha 55 anni. Più giovani di lui sia Zingaretti che Di Maio, per non dire di Salvini, di Renzi e della Meloni.

Invece facciamo fatica a scorgere tra i presidenti di Regione loro coetanei. Eccetto Bonaccini, il presidente dell’Emilia Romagna, tutti avanti con l’età. Un generale in pensione in Lucania, un signore assai attempato in Lombardia, e così l’Umbria, il Molise, la Sicilia, il Piemonte, la Campania per citare solo i governatori più stagionati. E tra le decine di volti di scienziati, primari, direttori delle unità intensive, responsabili delle Asl, manager pubblici, pochissimi sono i quarantenni. Si dirà che gli incarichi di responsabilità prevedono un cursus honorum, ma è evidente che esiste una distorsione, un’incapacità e anche un atto culturalmente ostruttivo verso la promozione delle giovani leve.

L’Italia ha dimostrato di avere tanti ragazzi su cui contare. Molti di essi, guarda un po’, sono “fuggiti” per guadagnarsi altrove la responsabilità che qui veniva loro negata specialmente nel sistema sanitario pubblico e nelle università.

E in queste tragiche giornate la grande ingiustizia diviene quotidiana prova visiva.

Non può essere che i giovani siano solo i barellieri.

Da: ilfattoquotidiano.it

Coronavirus, se a Milano arrivano i comunisti

Tra ieri e oggi tre distinte missioni internazionali sono atterrate all’aeroporto di Malpensa. Prima i cinesi con le mascherine e i presidi sanitari, poi i russi con virologi e ventilatori, infine i cubani con la brigata internazionalista di medici esperti nell’emergenza.

Doveva essere la Lombardia, terra degli artigiani, dei padroncini, delle partite Iva, il popolo che ha costruito il successo delle Lega, il popolo che urlava contro “Roma ladrona!”, la terra che ha innalzato prima la bandiera della secessione, poi quella del federalismo infine dell’autonomia differenziata, a dover fare i conti con la realtà.

Oggi che chiede l’aiuto trova al suo fianco proprio quella che una volta chiamava Roma ladrona. Sono 7923 i medici volontari, moltissimi meridionali, che hanno risposto alla chiamata della Protezione civile, pronti a raggiungere i loro colleghi negli ospedali di Crema, Bergamo, Brescia, nelle campagne del lodigiano, nella Val Seriana. E in questa drammatica crisi il Sud Italia, com’è giusto che sia, riceve e cura i malati che non trovano più posto negli ospedali lombardi, stremati da una epidemia così violenta e inaspettata.

Arrivano dunque a Milano altri meridionali e soprattutto i comunisti. I cubani, paese che ancora soffre dell’embargo dell’Occidente, e quelli cinesi, i nemici eletti dei lumbard.

La storia si fa beffe di noi, e la realtà complica e destabilizza le nostre convinzioni. La catastrofe che si è abbattuta sull’Italia la costringerà a fare i conti con i suoi egoismi e le sue ossessioni.

Tra le cose buone che accadranno è che dovremo rinunciare a puntare l’indice e a dividere il mondo tra buoni (naturalmente noi) e cattivi (quasi tutti gli altri). Non è più così.

Da: ilfattoquotidiano.it

Contabilità funeraria. Chi muore dove trova la morte?

Ogni sera a quest’ora (sono le sei) tanti di noi s’affacciano al computer per la consueta, tremenda contabilità funeraria. Chi ci ha lasciato oggi? Quanti di noi non ce l’hanno fatta? Quante famiglie stanno piangendo e quante lacrime ancora dovremo versare? Facendo il giornalista mi sono però incuriosito a due dati che ogni giorno, dall’inizio dell’epidemia, riporto nel mio quadernetto. I numeri dei decessi e quello dei nuovi arrivi in terapia intensiva. Noto, purtroppo, una costante: i primi sono quasi sempre un multiplo dei secondi. Esiste cioè una enorme differenza quantitativa tra i decessi e i nuovi arrivi in terapia intensiva. Trascrivo, per esemplificare, solo l’ultimo, quello riferito pochi minuti fa dalla Protezione civile: in Italia abbiamo avuto ieri 627 morti. Il picco, la cifra più grande e più tragica da quando questa brutta storia è iniziata. Bussano oggi purtroppo alla porta della terapia intensiva in altri 168. Finora il conto complessivo, ancorché parziale, di questa tremenda contabilità è di 4032 decessi e 2655 ricoverati in terapia intensiva. Se tutto fosse come supponiamo, e cioè che i deceduti sono stati curati fino all’ultimo stadio, quello della rianimazione o della terapia intensiva, avremmo, e faccio riferimento al bilancio di ieri, 459 letti liberi da stasera. 459 rappresenta la differenza tra chi lascia la vita e chi invece arriva nel punto estremo per tentare di sopravvivere. Ma perfino la metà di questa orribile disponibilità, ritenendo che tanti decedono a casa e tanti altri magari in una affollata corsia, renderebbe meno pressante l’urgenza di acquisire questi macchinari salva vita. Invece da tre settimane non si fa altro che parlare della necessità dei ventilatori, della assoluta urgenza di realizzare nuovi posti di terapia intensiva, del fatto che alcuni ospedali, come quelli lombardi, provatissimi dall’epidemia, non abbiano più dove mettere i malati gravi. E non c’è dubbio che è la dura realtà. Ma allora coloro che muoiono dove trovano la morte? Mi verrebbe di rispondere d’impeto , ma tremo al pensiero che sia così.

Da: ilfattoquotidiano.it

Coronavirus e l’ospedale Cardarelli: quanto vale una stampa libera?

In tempo di pandemia c’è un solo luogo indispensabile, un solo posto di lavoro che non si può lasciare, una sola casa da presidiare: l’ospedale. I medici italiani, e con loro gli infermieri, i portantini e ogni altro addetto, si trovano ad affrontare una situazione di emergenza. E alcuni di loro, con gesti di assoluto eroismo, hanno pagato e stanno pagando con la malattia e addirittura la vita la dedizione, l’impegno.

Un vigile del fuoco sa che deve affrontare l’incendio, un medico è consapevole che la malattia dell’altro sia il destino a cui far fronte. E l’infermiere, la ferrista, la caposala sanno che il loro impegno è insostituibile.

Perciò è più doloroso vedere alcuni casi di assenteismo come quello del Cardarelli. Chi si assenta produce un danno gravissimo al collega e a chi si ammala. Diserta nel tempo in cui proprio non deve. E’ una colpa doppia, una responsabilità aggiuntiva.

La stampa, se è libera, autorevole e indipendente, ha il dovere di denunciare i fatti. E le istituzioni hanno l’obbligo di non minimizzare né confondere. Dire che è falso il dato dei 249 medici assenti al Cardarelli di Napoli è un modo per confondere e non per chiarire. 249 – secondo la denuncia del capo del Dipartimento per le emergenze dell’ospedale medesimo – sono gli operatori sanitari, e tra di essi ora sappiamo dei 33 medici a marcare visita. Forse che in corsia il medico non ha bisogno dell’infermiere?

Una stampa libera che denuncia aiuta l’ospedale a controllare. E se l’ospedale controlla, allora la lista dei furbi si accorcia e la prima linea sarà più folta, le cure più tenaci e appropriate.

Avremo tutti da guadagnarci, vero?

Da: ilfattoquotidiano.it

Le verità che non ci diciamo

C’è l’epidemia ma non va in vacanza la stupidità, la dabbenaggine, l’ambiguità del dire e poi negare.

Lo stupido o anche il cialtrone si chiedono, per esempio: come è possibile che siamo un modello per l’Europa se contiamo 2500 morti, una carneficina che non finisce mai? Lo stupido, anzi il cialtrone, non sa o non dice che questa cifra sarebbe salita di tre volte, forse di quattro, se non avessimo avuto un sistema sanitario che in Lombardia è una eccellenza riconosciuta e confermata. Senza la qualità delle cure, la prontezza delle cure, il sacrificio di chi ha curato la catastrofe avrebbe assomigliato a una ecatombe. Chiaro?

E già che ci siamo vogliamo chiarire una volta per tutte che questo incendio che sta consumando le resistenze degli ospedali è stato agevolato da decisioni improvvide, intempestive, ingiustificate? La Lombardia è stata flagellata più dal virus o dalla corsa a riaprire tutto nei giorni immediatamente seguenti al focolaio di Codogno? Chi ha imposto al governo di alleggerire, normalizzare? Gli imprenditori, anzitutto quelli lombardi. E gli amministratori, anzitutto quelli lombardi. E’ una verità, e la dobbiamo dire.

Decine e decine sono i medici e gli operatori sanitari contagiati. Perché ai servizi più esposti non è stato deciso di fare controlli preventivi e una tracciatura quotidiana? Misure di autotutela più severe. Dovrebbe rispondere l’Istituto superiore di sanità che ha indicano le linee guida e i protocolli da seguire. Rispondere con verità alla verità.

Infine: le Asl: stanno svolgendo il proprio dovere con efficienza? Sono una rete di protezione per i cittadini? Rispondono alle nostre chiamate? Giungono laddove c’è necessità di un aiuto medico, presidiano, proteggono? No.
La verità costa. Ma di lei non possiamo più fare a meno.

Da: ilfattoquotidiano.it

Coronavirus, mascherina mia fatti capanna. Le colpe e le quattro verità

Vogliamo dirci la verità? Se le mascherine mancano è anzitutto perché le burocrazie regionali, tutte delegate alla gestione operativa del sistema sanitario, non hanno provveduto a stoccarle per tempo avendo sottostimato gravemente l’esigenza. Quindi, l’imputato numero 1 sono le Regioni.

La defaillance della Protezione civile, che evidentemente ha commesso lo stesso errore di valutazione, arriva semmai dopo e non prima di questo buco operativo.

Poi perché non dirci una terza verità: essendo mondiale l’emergenza sanitaria nessun Paese che le produce accetta di venderle. L’India non ha accolto l’ordine avanzato dall’Italia, così pure la Romania, e così la Francia. Ciascuno, potendoselo permettere, requisisce e trattiene. Solo ieri la cancelliera Merkel ha accettato di farle giungere nel numero di un milione, dopo che la consegna, su sua richiesta, era stata bloccata.

La quarta verità: l’Italia si trova in difficoltà perché non produce questo presidio sanitario. La libera impresa da tempo non ritiene il mercato sufficientemente redditizio. Si sta provvedendo alla realizzazione di una linea produttiva di emergenza, ma i tempi sono purtroppo più lunghi rispetto all’urgenza.

Mettere in fila le verità significa mettere in fila le responsabilità e capire che la polemica non basta a tacitare le colpe, semmai a nasconderle sotto un sordo e ora piuttosto inutile rumore di fondo.

Da: ilfattoquotidiano.it

Lo Stato sociale, finalmente!

Due anni fa un gruppo di giovani musicisti bolognesi conquistò l’Italia dal palco di Sanremo. Grazie a loro tirammo fuori dal cassetto dei ricordi una parola, anzi due: lo Stato sociale.

Nell’ultimo trentennio avevamo fatto di tutto per dimenticarcene, e infatti quella definizione aveva perduto senso, parevano due parole non solo inutili ma costose. Le affiancavamo alle devianze delle condotte pubbliche. Non poche purtroppo. Stato sociale uguale clientelismo. Oppure familismo. Oppure e peggio: assistenzialismo.

Qualunque azione pubblica, qualunque spesa venne intesa come spreco. E da un trentennio abbiamo potato l’albero della solidarietà, del welfare. Abbiamo iniziato dai treni (ricordate i rami secchi?), proseguito con la sanità (gli ospedali inutili) e infine siamo giunti a chiudere anche il rubinetto delle opere pubbliche: piccole, medie e grandi.

Meno più meno più meno. Meno Stato più virtù. Meno Stato più efficienza.

Oggi questo decreto legge sulle straordinarie misure economiche che il governo assume per fronteggiare l’epidemia, ci fa tornare la memoria. E ci fa riscoprire le virtù non solo dello Stato sociale, il cosiddetto welfare, ma persino l’efficienza che in casi come questi solo l’azione pubblica e non quella privata può mettere in campo quando si tratta di tendere una rete di protezione ultima e collettiva.

Oggi ci piace lo Stato sociale, vero? Siamo felici che la sanità sia universale e gratuita, che i bisognosi abbiano un minimo reddito di sussistenza, che chi ha perso il lavoro abbia la cassa integrazione, che chi ha chiuso il negozio non si veda costretto a versare gli acconti Iva, che chi ha i figli a casa e deve andare al lavoro possa godere del bonus baby sitter, eccetera eccetera.

Le garanzie pubbliche sono indispensabili, e presto leggerete nel dettaglio ogni singola misura.

Ma le garanzie sono possibili a condizione che tutti i cittadini contribuiscano a sostenerne il costo.

Perciò le tasse bisogna pagarle. Lo stiamo capendo ora. Perciò, caro evasore, fai una cosa: quando stasera alle sei del pomeriggio esci sul balcone a cantare l’inno di Mameli, magari con una mano sul cuore, con quella libera raggiungi il portafogli. Fatti due conti. E paga quel che devi.

Da: ilfattoquotidiano.it

Coronavirus, la rupe tarpea di Boris Johnson: giù i più fragili e sfortunati

“Abituatevi a perdere i vostri cari” è una frase raggelante in sé. Ma è il pronome sottinteso, quel voi in luogo del noi, a mettere ancora più angoscia. I giornali britannici giudicano “solenne” benché “cupa” la frase con la quale il premier Boris Johnson ha annunciato il suo modello di intervento: lasciar correre il virus, pagare il dazio di una infezione fino al 60 per cento della popolazione e uscirne fuori, quando sarà, con la cosiddetta “immunità di gregge”.

Ha dunque annunciato il sacrificio di migliaia di suoi connazionali. Annunciandolo, con una irresponsabilità che a me sembra senza pari, ha già immaginato chi sarà buttato dalla rupe Tarpea: i più fragili e sfortunati.

Noi italiani, scrive oggi Carlo Verdelli, siamo sperimentatori di un evento mai sperimentato. Ci troviamo a fare i conti col mistero, col buio, con un avversario irriconoscibile.

Noi italiani sappiamo anche che le cure del servizio sanitario sono universali, senza eccezioni di reddito, posizione sociale, età. Eppure la qualità e le cure sanitarie in una porzione dell’Italia sono molto più efficaci e tempestive rispetto all’altra porzipne. E’ già questa una prima e grave disuguaglianza. E se vogliamo dirla tutta le cure e le attenzioni prestate ai primi ammalati di Covid19 sono state sicuramente più avanzate e tenaci rispetto a quelle che già oggi si riescono a somministrare. Oggi chi raggiunge la terapia intensiva trova un fronte medico sfibrato da decine di giorni di lavoro incessante, trova non uno ma cento letti occupati, e cento urgenze in più a cui far fronte. E’ questa una seconda disuguaglianza che siamo costretti ad annotare. La risposta a un evento così cruento, se dispiegata nello stesso momento per un sempre maggior numero di casi, risulta oggettivamente più incerta e faticosa.

A queste due disuguaglianze Johnson, nel suo incredibile e raccapricciante messaggio alla nazione, ne aggiunge una terza: si salveranno i più forti. Che non sono sempre i più giovani. Ma certo tra i forti sono da annoverare i più più giovani e i più ricchi, oppure, non essendo giovane né ricco, chi detiene, come Johnson, poteri di governo a cui sarà sempre riservata un’attenzione speciale. E poi coloro che avranno la possibilità di essere curati in un grande istituto scientifico invece che in un ospedale di campagna.

I più forti, i più ricchi, i più potenti.

E tutti gli altri? Attenderanno la decimazione. Però dopo la decimazione quel grande “gregge” superstite raggiungerà l’immunità.

È già spaventoso pensarlo, ma dirlo è un atto così crudele e anche così intensamente antidemocratico da far venire i brividi.

Da: ilfattoquotidiano.it