Luigi Genovese: “Sì, sono un figlio di papà ma è Silvio il sole che sorge”

Io la ricordo piccino così. “Avevo dieci anni, forse mi ha visto mentre assistevo a qualche comizio di papà”.

Luigi Genovese è candidato a consigliere regionale in Sicilia, ha 21 anni ed è figlio del deputato Francantonio Genovese, è nipote del senatore Luigi Genovese, è pronipote del pluriministro Nino Gullotti.

Come ho più volte ribadito, qui non è questione di poltrone, ma di passione.

La ricordo piccino piccino ma già notevolmente appassionato.

A 15 anni l’ho sentita dentro, forte, tracimante la voglia di misurarmi con la realtà, i problemi della gente. La politica è servizio, e i Genovese sono per Messina una costante, un punto di riferimento.

La politica è servizio.

Ripetiamolo chiaro: i Genovese a Messina sono imprenditori al servizio della città. Non c’è un giorno che un messinese non chieda e non abbia una parola di conforto, un aiuto, un consiglio.

Suo padre ha ottenuto undici anni di reclusione per truffa, peculato e mi pare altro. Il servizio alla città non è purtroppo stato ritenuto all’altezza delle aspettative.

Ricordo solo che è una sentenza di primo grado. Lei avanzi pure le sue certezze, ma il diritto prevede un giudizio d’appello e, se del caso, quello di legittimità.Continue reading

Addio a Pierluigi Cappello, il poeta della gentilezza che usò la parola come riparo dal destino

La settimana scorsa mi ha dato in mano il suo addio alla vita, la bozza del libro che verrà: “Ogni giorno dal cielo alla notte”. Riflettendo sulle sue pene fisiche e sul significato della parola sopportazione, si accommiata così: “Non so darmi una risposta se non sostituendo il verbo “sopportazione” con la locuzione “essere capaci di abbandonarsi”. Abbandonarsi, nel mio caso specifico, alla lingua, alla parola, in definitiva alla vita”.

 

Mi è venuto di dirgli – appena ci siamo salutati – la cosa più stupida: non arrenderti. Mi ha risposto con un sorriso, fingendo che non fosse una stupidaggine. Abbiamo subito parlato della cinciallegra che lo scovava ogni mattina dal ramo dell’ippocastano piantato appena oltre la finestra, in modo che dal suo letto lo potesse sorvegliare nella crescita, accudire ed esserne accudito. Il castagno d’India era il suo compagno di stanza e la cinciallegra la sua amica quotidiana. Li ritroverete nelle sue poesie, nell’anima di grafite della sua matita, sempre nei suoi pensieri. Pierluigi Cappello è stato il poeta della gentilezzaIl più giovane, forse il più grande poeta italiano contemporaneo. La sua parola gli usciva di bocca dolce e musicata. L’ha usata come riparo e viaggio perenne al destino che gli aveva inflitto l’immobilità per via di un incidente in moto da ragazzo. Midollo spinale in frantumi, sedia a rotelle.

Paolo, amico e medico di tutta la sua vita, mi ha avvertito sette giorni fa: la malattia corre veloce, non c’è più tempo. Alla lettura del messaggio ho ricordato le parole di Pierluigi, alcuni mesi fa, improvvise per me: “Paolo mi ha garantito che se tutto dovesse andare male non mi farà soffrire”. Così è stato.

Lui aveva nove anni, io diciannove quando ci fu la scossa. Lui di Chiusaforte, Friuli di confine, di montagna, io di Palomonte, venti chilometri a sud di Eboli. Estremo Nord e profondo Sud. Il ricordo del terremoto ci aveva uniti. Eravamo ambedue fratelli di sventura, figli dell’Italia delle terre tremule. Lui aveva conosciuto prima di me, il 6 maggio 1976, quel che la natura fece a Gemona, dove nacque, la città martire e nelle decine di altri paesi. Io quello del 23 novembre 1980, che colpì l’Irpinia. I nostri ricordi erano però identici, il mondo contadino e arcaico, il teatro quasi selvaggio e perduto della sciagura, il tempo della ricostruzione, la vita provvisoria e avara nei prefabbricati.

Non ci siamo lasciati. Ho letto tutte le sue poesie, e lui si è interessato al giornalismo. Mi chiedeva continuamente foto, ovunque fossi. Era il suo modo di viaggiare, di guardare il mondo. “Col tempo il letto si è trasformato in un tappeto volante”, scrive in “Questa libertà”, la sua autobiografia. Le raccolte delle poesie più belle le ritroverete in “Azzurro elementare” e “Stato di quiete”, edite da Rizzoli. Le filastrocche, pensate per i suoi adorati nipoti, in “Ogni goccia balla il tango”.

Pierluigi la settimana scorsa mi ha dato in mano il suo addio alla vita, la bozza del libro che verrà: “Ogni giorno dal cielo alla notte”. Riflettendo sulle sue pene fisiche e sul significato della parola sopportazione, si accommiata così: “Non so darmi una risposta se non sostituendo il verbo “sopportazione” con la locuzione “essere capaci di abbandonarsi”. Abbandonarsi, nel mio caso specifico, alla lingua, alla parola, in definitiva alla vita”. Poi ha chiesto a Fabiola, la sua compagna, di farmi ascoltare la sua Inniò, parola friulana bellissima che in italiano si tradurrebbe “in nessun dove”, cantata da Alice. E poi ci siamo abbracciati.

“Ci si sfila dal mondo così/come da un vestito stanco delle feste/quando viene la sera”.
Mandi Pierluigi.

da: Il Fatto Quotidiano, 1° ottobre 2017

ALFABETO – PAOLO CASARIN: “Per riconoscere i potenti in campo basta guardarli”

Il gioco è come la vita. C’è il più forte e il più debole.

E l’arbitro con chi sta?

“L’arbitro dovrebbe stare in mezzo, io mi sforzavo di stare in mezzo”.

Paolo Casarin è alto un metro e novanta, ed è ben piazzato di suo. Da perito chimico ha lavorato all’Eni, poi in banca. Ma per 28 anni è stato al centro del campo, per una decina al centro delle varie moviole. Oggi ha 77 anni e commenta in tv e sul Corriere della Sera il fallo tecnico e quello accidentale, l’intenzione e l’ostruzione, le carogne e le anime belle del calcio.

L’arbitro è venduto per principio.

Te ne dicono di tutti i colori ma ti caghi sotto solo prima di entrare in campo. Ricordo un collega peruviano che pregava stringendo il rosario in petto. Si affidava alla Madonna, credo anche alla mamma morta. Tremai un po’ anch’io quando ai mondiali di Spagna mi dettero una rogna: gli spagnoli contro i tedeschi. Tocca a te, disse il designatore.

Entri in campo e sbagli.

Io avevo imparato a memoria il libretto con le 17 regole del calcio. Quelle diciassette regolate. Oltre quelle c’era la mia discrezionalità.

E qui siamo all’arbitrio.

Se sei onesto, e generalmente lo sei, non ti fai prendere la mano. Io, per controllarmi, tenevo il fischietto in tasca in modo che servisse del tempo, qualche secondo, per estrarlo. Quel tempo mi serviva come riflessione cognitiva: sto facendo una cazzata oppure no?

Visto da fuori il campo di gioco sembra una piazza d’Italia. I potenti si riconoscono.

Si fanno riconoscere, sì. Li vedi da come ti guardano, dalla postura che hanno. I calciatori di nome stanno nelle squadre famose e quelle famose esigono rispetto.Continue reading

Francesco Rutelli: “Mattè, lascia il treno e cammina. E prima o poi torno anch’io… ”

“La politica deve ritrovare la fatica fisica. Più del treno io userei i piedi”.

Francesco Rutelli vorrebbe che Matteo Renzi per emendarsi agli occhi degli italiani intraprendesse per la campagna elettorale una versione ridotta ma nostrana della via Francigena. O anche pellegrino tra gli sfortunati, viandante tra gli ultimi.

Ti prendi qualche pernacchia e qualche fischio magari. Ma incontri gente vera, stringi mani vere e capisci chi sono gli italiani. Vada col treno dove vuole ma gli ultimi dieci chilometri li compia con le sue gambe.

Possibilmente senza truccare con le scorciatoie.

Il fisico ce l’ha, è giovane.

Il treno fu una sua invenzione ai tempi dell’Ulivo. Nel 2001 Rutelli, candidato premier, scelse le rotaie.

Forse fui consigliato da Paolo Gentiloni. La campagna elettorale è un viaggio dentro il Paese che vuoi governare. Il treno ci sembrò la scelta più coerente, anche la più ecologica. E poi a Roma avevamo investito tanto nella cura del ferro.

Berlusconi scelse la nave.

Ognuno porta con sé i simboli che ne segnano l’identità. La nave ti fa venire in mente sale da ballo e casinò. Era sintonizzato con la sua gente.

Nella stiva della nave, a ogni attracco, nominava i guerrieri della libertà sollevando lo spadone e poggiandolo simbolicamente sulla spalla di ciascuno.

Fa sorridere, eppure…Continue reading

ALFABETO – DAVIDE MARINO: “Il capitale naturale ci renderebbe ricchi ma lo ignoriamo”

Quanto conta, anzi quanto vale un bosco? E un costone di montagna, un prato, un ruscello d’acqua pulita, una spiaggia senza schifezze, una veduta? Il capitale naturale è l’unico tesoro che possediamo e al quale però togliamo il suo giusto prezzo, neghiamo il valore che possiede, evitiamo di pensare al suo costo economico se lo mandiamo in fumo”.

Davide Marino insegna all’Università del Molise Contabilità ambientale ed Estimo rurale. Da più tempo degli altri, con più caparbietà degli altri (e passione, e vigore) tiene il registro del capitale naturale. “Non è una sommatoria di risorse ma un combinato di fattori. Sono fattori di produzione e di benessere, indicatori di vitalità economica e civiltà, ma l’approccio collettivo è deludente, anzi disarmante”.

Un bosco quanto vale?

Vale naturalmente la sua legna. Ma nel capitale naturale gli addendi sono diversi: alla legna aggiunga il beneficio che ne trae l’aria, il valore anche economico della regolazione bioclimatica. Aggiunga il servizio essenziale di filtraggio dell’acqua piovana, e poi le ricadute sull’economia del turismo. E infine: quanto vale l’ispirazione che quella risorsa dà all’arte, alla filosofia, alle religioni. Ricorda il bosco di San Francesco? Ecco: un bosco è una ricchezza complessa e dal valore piuttosto alto.

Vale tanto, eppure per noi non conta nulla.

Il prezzo è il segnale della qualità di risorsa. Se è limitata esso sale.

Dovrebbe costare una fortuna allora.

Invece zero. Lei paga per passeggiare in montagna? Di certo però compra il biglietto per andare al cinema e vedere un film.

Non la stimiamo come indispensabile quella montagna e forse nemmeno quella passeggiata.

Facciamo di peggio. Se un bosco va a fuoco, e se vanno a fuoco decine di boschi, di costoni di montagne, lo Stato impiegherà mezzi e persone per spegnerli. L’attività antincendio ha sicuramente un costo e quel costo finisce alla voce attiva, è spesa pubblica. Aumentando gli incendi aumenta la spesa pubblica e dunque aumenta il Pil. E il Pil (prodotto interno lordo) è un indicatore di ricchezza.

Benvenuti nel mondo alla rovescia.

Più incendi, più allagamenti, più ricostruzioni, più emergenze fanno salire il Pil. Dunque inducono noi a ritenerci non solo più ricchi, ma anche più fortunati.

Com’è possibile che siamo giunti a questa primitiva condizione di obsolescenza mentale, questa forma di inettitudine logica?

Perché rispetto a trent’anni fa l’ambiente, il valore delle risorse naturali, ha perso centralità nelle coscienze individuali e nel dibattito pubblico. Trent’anni fa si costruì sotto la spinta di una pressione di massa una rete enorme di parchi e aree protette. Oggi quella consapevolezza diffusa si è rarefatta, è divenuta patrimonio di pochi.Continue reading

ALFABETO – ANDREA CARLINO: “Si ha più paura di essere contagiati che di ammalarsi”

Tutti i barconi di migranti sono pieni di scabbia. Mai un cardiopatico che scappi dalla fame e si ritrovi a bordo di un gommone” dice Andrea Carlino, storico della medicina all’Università di Ginevra.

Nell’età della paura, la gente sbarca insieme alla malattia che infetta.

Un sovraccarico di pathos dovuto al circuito mediatico che inanella singoli casi e – cucendoli uno a uno – fa assumere loro una stazza che non sempre rappresenta la giusta misura del problema.

Lei insegna ai medici la storia della medicina, il cursus honorum delle singole malattie.

Quelle contagiose sono sicuramente le più angoscianti, e prescindono dalla capacità di incidere sulla nostra condizione, sulla nostra abilità di resistervi e affrontarle.

Come in un sequel romanzato, con i barconi è iniziato il tam tam dell’allerta sanitaria.

La povertà riduce le difese e alimenta i danni fisici. L’Africa nera si associa naturalmente al tema del contagio. Da una condizione reale di malessere però si giunge, attraverso la propalazione di notizie cospicuamente sovradosate, all’incubo di stare per finire nel cerchio di fuoco della morte.

Due anni fa era ebola. L’Occidente vigilava nell’ansia sulle frontiere del contagio.

Ebola, sì. E prima come non ricordare l’Aids.

O la tubercolosi.

La tubercolosi ci riporta all’età della nostra migrazione, al secondo dopoguerra, alla nostra povertà non ancora superata. E la tubercolosi non aggrediva soltanto le case dei poveri, degli affamati, ma si dirigeva anche ai piani alti della società.

Ogni giorno ascoltiamo notizie circa malattie definitivamente debellate che, come un mostro marino, si riaffacciano sulle nostre coste grazie ai barconi.

Di malattie debellate ce n’è soltanto una ed è il vaiolo. C’è certezza che il virus sia azzerato. Ma il vaiolo, per dire, non è un sorvegliato speciale soltanto da un punto di vista sanitario. È divenuta un’arma militare. Le guerre si fanno non soltanto con i missili, ma anche con la chimica e i batteri. E depositi del virus si trovano negli Usa e in Russia.Continue reading

Aldo Masullo – Il professore: “Non è soltanto la classe dirigente del nostro Paese, è l’autorità che ha perso ogni distintivo di capacità di guardare oltre”

Aldo Masullo (filosofo)

Questo sarebbe il tempo giusto per un nuovo Marx, ma il pensiero non si coltiva in serra e la storia non coincide con la nostra biografia. Avremmo bisogno di uomini che stiano un gradino più in alto del resto della società e invece ci ritroviamo a essere governati con gente che è risucchiata nel gorgo della stupidità. Come si può pensare alla rivoluzione – qualunque tipo o modello di riforma strutturale dell’esistente – se il nostro sguardo sul mondo è destinato per tutto il giorno unicamente alle variazioni sul display del nostro telefonino?”.

Era il 1867 quando fu pubblicato il Libro I del Capitale di Karl Marx. Centocinquanta anni fa il filosofo di Treviri mandò alle stampe il volume che avrebbe promosso, sostenuto e accompagnato passioni e reazioni, condotto in piazza milioni di persone, trasformando il senso del giusto e dell’ingiusto. E Aldo Masullo, classe 1923, massimo studioso delle differenze tra idealismo e materialismo, ha attraversato il secolo scorso leggendo e rileggendo Marx per i suoi studenti. “Un’opera immensa. Ha annunciato il nuovo mondo. Ha spiegato e anticipato i caratteri del mondo borghese, del principio del tutti almeno formalmente uguali, della statuizione che ciascuno, indifferentemente dalla condizione sociale, è pari all’altro. Si usciva dal feudalesimo, dalla vita legata dallo status: feudatario, vassallo, plebeo. Grazie a lui si apre il mondo moderno, si afferma il principio della uguaglianza astratta. Sia che tu sia dritto o gobbo, intelligente o stupido, avrai da pagare le stesse mie tasse”.

Marx sembra Dio.Continue reading

Il partito dei rettori siciliani, sempre tesi al governo regionale

Un rettore di qua, un rettore di là, un rettore di sotto e uno di sopra. Nella leggendaria Sicilia la scienza arde di passione e non c’è professore universitario che negli anni non abbia messo le sue virtù a disposizione del bene comune. Controvoglia, magari. C o m’è accaduto a Fabrizio Micari, un ingegnere ordinario di Tecnologia e sistemi di lavorazione che l’anno scorso, di questi tempi profetizzò: “Non farò mai politica”. Ma l’imprevisto è dietro l’angolo. Lui, semplicemente, ha colto “un’opportunità” accettando di fare il candidato presidente per il centrosinistra. È stato costretto alla resa dalle pressioni di Leoluca Orlando e poi da quelle di Matteo Renzi.

INTENDIAMOCI: ha accettato tenendo però l’accademia come primo impegno nel suo cuor. Adesso fa il candidato e il rettore e solo “il 6 novembre (si vota il 5 ndr), nel caso le cose dovessero andare bene, mi dimetterei”. Nel caso le elezioni dovessero andare male l’università di Palermo, che questo ingegnere 55enne governa con enorme entusiasmo, resterà sotto la sua guida. Non per niente ha spiegato che “è la più grande azienda siciliana” con i suoi 4500 dipendenti. Senza Micari sarebbe il buio per l’isola. Anche Roberto Lagalla, l’ex Magnifico, ha scelto con sofferenza la via della politica pur di aprire un varco al buongoverno. A marzo scorso ha presentato il simbolo della sua creatura, Idea Sicilia, una mongolfiera con un sol dell’avvenire alle spalle: “Metto a disposizione la mia esperienza”. Insegna Diagnostica per immagini e in qualche modo la sua formidabile preparazione tecnica l’ha messa al servizio della comunità. Girando per la città, diagnosticando di qua e di là. Infatti ha riferito che l’idea di candidarsi è stata decisa accogliendo le risultanze dei suoi colloqui introspettivi con i cittadini. Ha infatti puntualizzato: “È un passo sollecitato dalla gente”.Continue reading

Gentiloni scippa a Renzi pure il consenso: all’Italia piace il suo silenzio

Paolo Gentiloni sembra divenuto il sarto perfetto, da curatore fallimentare del maggioritario, in via di tumulazione nel Parlamento, capo di un governo di piena e composta minoranza per un’Italia oramai assente e autistica, divisa nelle dichiarazioni di voto in tre parti uguali, nessuna delle quali preponderante. Gentiloni si sente poco e si vede meno, ma da premier anestesista sfoggia il carattere del campione. I sondaggisti restituiscono i valori in campo che rileggiamo con l’aiuto di Lorenzo Pregliasco, direttore di You Trend: le differenze numeriche con l’esecutivo Renzi sono minime nella serie storica, massime nei picchi. Renzi lascia a Gentiloni un governo che ha un consenso del 38 per cento, e Gentiloni lo porta al 43. È il gregario che sopravanza il leader, è il mediano che fa la partita e non il centravanti.

NELLA SERIE storica del gradimento fotografata da Demos i due esecutivi – durante la loro vita – stabilizzano le loro quote di consenso intorno al 40 per cento, ma la media tace dei tonfi, dei picchi all’ingiù, il pegno che Renzi ha pagato al grande credito che ha alimentato al tempo dell’assunzione del governo, e poi al consenso dilapidato dagli errori di gestione politica, dalle scelte sbagliate, dai bonus lanciati come carte di poker sul tavolo della politica e infine dalla ipertrofia comunicativa finanche fastidiosa. Invece di Gentiloni cosa si può dire? “Il silenzio, che pure fa parte del carattere dell’uomo – dice Pregliasco – è frutto però di una strategia. Raffreddare, scendere dal piedistallo, restituire all’assenza un ruolo.Continue reading

ALFABETO – ERMES MAIOLICA: “La gente è stanca, senza soldi e si beve le bufale che scrivi”

Misuriamo, scemenza per scemenza, la malattia del web insieme a Ermes Maiolica, capo scemo che è riuscito – avendo l’unico merito di scrivere idiozie – a godere di una certa notorietà.

Ha persino un nome d’arte e tanti che la intervistano e la chiamano a incontri pubblici.

Ermes è rimasto, ho solo cambiato il cognome: faccio Piastrella all’anagrafe e mi è parso giusto chiamarmi Maiolica.

Non ha un’arte e non ha una parte.

Metalmeccanico a Terni, vita un po’ sfortunata e un po’ appartata, sono stato seguace delle idee complottiste. Tutto il male fuoriusciva da una unica sorgente, un disegno preordinato dai poteri che controllavano il mondo e lo schiavizzavano.

Ha iniziato a scrivere bufale, quelle che oggi si chiamano fake news.

Non conoscendo Internet, figurarsi i social, ho iniziato a giocarci. M’è venuta l’idea di fare dei post impossibili e incredibili e ficcarli dentro i gruppi di discussione virtuale.

Ha notato subito che parecchi idioti abboccavano.

Ho affinato l’arte del fake, ho iniziato a proporre cose sempre più avanzate.

Stronzate sempre più grosse per testare quanto minchioni fossero gli italiani.

Ho conosciuto il successo vero, con migliaia di like e di commenti, con un post sulla Kyenge, l’ex ministro di colore del governo Letta. Ho scritto che la Kyenge stava dando le case popolari ai rettiliani, un popolo della fantascienza.

E gli idioti?

Madonna che bello. Un successo stratosferico. Solo pronunciare il nome della Kyenge faceva venire sui like, poi collegato alle case popolari e infine a un popolo diverso dal nostro lo faceva esplodere.Continue reading