Docu-serie, Alfabeto: ‘A’ come ‘Amore’

Chi odia, chi ama, chi cammina a testa alta, chi invece avanza a testa bassa. Chi ha nelle mani l’unico suo capitale, mani sporche di sudore, di fatica, mani dignitose e mani pulite. Chi ha solo lacrime e chi sorride sempre. Chi ruba e chi resiste. L’Italia attraverso l’Alfabeto – Alla radice del lavoro. La terza delle sette puntate parte dalla lettera ‘A’ come ‘Amore’. Ogni mercoledì seguiteci alle 13,00 su ilfattoquotidiano.it con la nuova docu-serie di Antonello Caporale e Toni Trupia

 

A come Apprendista

alfabeto

QUESTO EDIFICIO ha le sbarre, come tutte le carceri del mondo, e ha i letti a castello, le cellette strette, il muro di cinta, le garritte, le telecamere, i parenti in attesa, le mamme nervose e i bambini stupiti del destino dei loro papà nella saletta dei colloqui protetti. “Ti amo papà” gli ha scritto uno di loro su un foglio di quaderno da terza elementare. Quel “Ti amo” è orgogliosamente appeso al muro, e le mura sono finalmente colorate, aperte alla luce dei sogni, al giallo sgargiante di una stella. E ogni corridoio, ogni parete, ogni centimetro quadrato di questo territorio nemico è stato colorato. “Ho ospite un pittore inesauribile, si chiama Saverio Barone. Allora l’ho convocato e gli ho detto: libera le tue energie, dipingi quel che vuoi, dove vuoi”. Uscito dal colloquio col direttore del carcere Massimiliano Forgione, Saverio ha destinato alla sua passione ogni minuto del proprio tempo e iniziato a intonare, come faceva all’Accademia delle Belle Arti, gialli e blu e verdi spaziali, strisce elettriche e ansiogene insieme a tonalità più dismesse o lievi. Saverio ha forzato la mano al suo desiderio di libertà e ha chiuso gli occhi: c’è il suo pennello ovunque, tra le corsie lunghe che dividono le celle e i corridoi brevi degli uffici amministrativi. Ogni grigio è stato ucciso: viva il rosso, l’ocra, il bianco, l’azzurro. Viva Pluto e Paperino, viva noi. E poi, ironizzando sul destino di ciascuno, una monumentale banda Bassotti apre la strada alla prima sezione, l’ultima cena scorre mentre ci si dirige alla mensa. Lo skyline di New York e un grande ritratto di Ray Charles fanno avanzare verso la stanza della musica: chi ha voglia di suonare e scaricare la tensione può accomodarsi: batteria, piano, chitarra. C’è tutto.

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O come operai

alfabetoL’UNICO capitale di Giulio sono le sue mani. Con queste mani, nere come il carbone, nere come la galleria che sta scavando, manda avanti la vita sua e quella della famiglia. Millecinquecento euro al mese per otto ore al giorno, per sei giorni su sette. La sua branda è al campo base di Lauria sud, nel crostone lucano che avanza verso il Tirreno e separa la Campania dalla Calabria. Insieme ad altri trecento compagni: lucani, calabresi, friulani, bosniaci, slovacchi, greci. Ospitati in queste baracche moderne, parallelepipedi adagiati l’uno di fianco all’altro. Nell’ordine che gli italiani hanno conosciuto nella loro lunga storia di emigrazione. I campi di lavoro si somigliano tutti: quelli delle acciaierie della Ruhr, nei dintorni di Dusseldorf, o verso Stoccarda per chi trovava l’ingaggio alla catena di montaggio della Volkswagen. Per i più sfortunati c’era la fatica a Marcinelle in Belgio, oppure i cantieri stradali nel land di Amburgo. Quelle casette erano di legno, e c’era più neve, più freddo, e pareva un mondo ostile. Mondo lontano e perduto, amore mio.Continue reading