A come Apprendista

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QUESTO EDIFICIO ha le sbarre, come tutte le carceri del mondo, e ha i letti a castello, le cellette strette, il muro di cinta, le garritte, le telecamere, i parenti in attesa, le mamme nervose e i bambini stupiti del destino dei loro papà nella saletta dei colloqui protetti. “Ti amo papà” gli ha scritto uno di loro su un foglio di quaderno da terza elementare. Quel “Ti amo” è orgogliosamente appeso al muro, e le mura sono finalmente colorate, aperte alla luce dei sogni, al giallo sgargiante di una stella. E ogni corridoio, ogni parete, ogni centimetro quadrato di questo territorio nemico è stato colorato. “Ho ospite un pittore inesauribile, si chiama Saverio Barone. Allora l’ho convocato e gli ho detto: libera le tue energie, dipingi quel che vuoi, dove vuoi”. Uscito dal colloquio col direttore del carcere Massimiliano Forgione, Saverio ha destinato alla sua passione ogni minuto del proprio tempo e iniziato a intonare, come faceva all’Accademia delle Belle Arti, gialli e blu e verdi spaziali, strisce elettriche e ansiogene insieme a tonalità più dismesse o lievi. Saverio ha forzato la mano al suo desiderio di libertà e ha chiuso gli occhi: c’è il suo pennello ovunque, tra le corsie lunghe che dividono le celle e i corridoi brevi degli uffici amministrativi. Ogni grigio è stato ucciso: viva il rosso, l’ocra, il bianco, l’azzurro. Viva Pluto e Paperino, viva noi. E poi, ironizzando sul destino di ciascuno, una monumentale banda Bassotti apre la strada alla prima sezione, l’ultima cena scorre mentre ci si dirige alla mensa. Lo skyline di New York e un grande ritratto di Ray Charles fanno avanzare verso la stanza della musica: chi ha voglia di suonare e scaricare la tensione può accomodarsi: batteria, piano, chitarra. C’è tutto.


Tra fisico e mente
Come esiste una ottima palestra, sezioni di scuole medie e superiori, e una infermeria finalmente attrezzata, pulita, pronta a fornire assistenza e non solo compassione. “Le cose si possono fare, basta volerle. Se io valuto che questo è un luogo di espiazione ma anche di riabilitazione, ho il dovere di assecondare, agevolare, sostenere. Non proibire né annichilire”, commenta, giustamente, il direttore. Il ministro della Giustizia dovrebbe correre qui per avere chiara la sua responsabilità, capire che se le cose si fanno quelle cose riescono bene, e se invece si bara, com’è spesso accaduto per la condizione carceraria, nonostante il continuo bla bla, i finanziamenti decisi, i capitoli di bilancio impegnati, il disastro è inevitabile. E il Parlamento, prima ancora di dibattere su amnistia e indulto, dovrebbe rileggere le promesse vergognose che ha deliberato, i piani falliti di edilizia carceraria, i progetti rimasti nel cassetto, i soldi finiti nello spreco. Svuota carceri – grazie alle parole che cambiano di senso – è divenuta una norma che cavilla sui reati, li sospende invece che accertarli, rende i condannati meno pericolosi ex lege, meno responsabili ex lege, agevola il crimine per tacitare la coscienza sporca delle istituzioni, elimina su chi commette un reato l’obbligo di patirne le conseguenze, siano esse minime o massime, e scarica sulla società, anzi sui marciapiedi delle strade di periferia, questi cristi affamati di una vita breve e bugiarda. Pur di svuotare gli inferni di Poggioreale e di Regina Coeli, le celle fino a quattordici letti, i corpi ammassati e derisi nella dignità, elimina i reati. Semplice, intramontabile finzione di governo. Eppure costerebbe poco imitare Sant’Angelo dei Lombardi. Non è un carcere grande e non è piccolo, non è una maison deluxe. Resta una scatola di cemento ma dentro ha un’anima, è un luogo in cui lo Stato offre a chi vi è detenuto umanità e propone uno scambio: tu mi dai responsabilità, io ti indico un senso di marcia, una nuova prospettiva alla tua vita.
C’è stata una Chiesa intelligente e solerte a contenere qui il dramma di chi ha perso la libertà. La curia vescovile irpina ha agevolato la nascita di una cooperativa, Il Germoglio, che ha realizzato una fattoria sociale. Marco Luogo e Gianluca Vespasiano la guidano: “Con il marchio Il Galeotto produciamo quattro vitigni: un buon fiano, la straordinaria falanghina, la coda di volpe e il greco di tufo”. Selezionati all’ingresso, secondo le vocazioni, le aspirazioni o le competenze, i detenuti vengono destinati ai vari servizi. In molti lavorano in vigna, alcuni vengono inviati alla tipografia Le ali di carta, che stampa tutto il cartaceo del ministero della Giustizia. Un ottimo affare: lo Stato ottiene un prezzo imbattibile, i detenuti hanno di che lavorare, maturano ferie e contributi, raccolgono in carcere quel po’ che è indispensabile per far fronte al futuro incerto, quando la libertà riscattata dovrà fare i conti con la società, la famiglia, il lavoro vero. “Sono fiero anche di come è migliorato l’aspetto esterno di questa casa di reclusione – dice il direttore – Sei anni fa qui intorno era tutto desolato, poi i detenuti, su nostro suggerimento, hanno piantato cento piante d’ulivo, poi piante autoctone, poi hanno coltivato l’orto. L’unica evasione che c’è stata risale al febbraio di due anni fa. Un detenuto del quale avevamo assoluta fiducia ha fatto una cavolata, è scappato ma l’abbiamo subito ripreso. L’evasione è il colpo in assoluto più cattivo che possa sopportare chi è chiamato a garantire la sicurezza. Ci rimani male ma non devi desistere, non deve mai prenderti l’ansia altrimenti va in fumo tutto quanto e non credo che l’Italia possa permettersi di perdere questi minuscoli fermenti creativi, questi luoghi un po’ più sereni rispetto all’inferno che c’è altrove”. Bisogna insegnare e soprattutto fare. Bernardo e Pasquale (ancora tre anni in carcere) erano muratori e questo fanno. “Stiamo costruendo un ricovero per il compressore”. Bernardo ha i capelli brizzolati e gli occhi che parlano: “Io qui mi sento a casa, anche se so che non è casa mia. Mi piace perché qui posso seguire anche dei corsi di studio. Voglio bene a questo posto anche se il mio unico pensiero è di non ritornarci mai più”. Costantino invece è un ragazzotto timido con ancora i segni dell’acne sul viso. Ha i capelli castani e le mani grandi. Coltiva l’orto: “Sono arrivato un anno fa, devo restarci un altro anno ancora. Ogni secondo, ogni momento della giornata penso alla cazzata che ho fatto, all’inutile cavolata. Conta poco che mi sono ricreduto, intanto sono qui e ho paura di quando uscirò: se mi ritroverò solo chi mi aiuterà? Qui ho l’orto, ma fuori? Non potete immaginare quanto vada fiero delle mie fave, delle olive delle patate”. Queste mura, così normali, così simili alle altre eppure tanto differenti, sono il più potente atto d’accusa contro la disumanità che altrove regna, sono la sintesi visiva di cosa possa essere il buon governo, la diligente e quotidiana gestione della cosa pubblica. Di quanto lo spreco corroda e sporchi ogni spesa utile e necessaria. C’è la passione invece della dilapidazione, l’impegno e non la nullafacenza, il rigore invece che la furbizia qui a Sant’Angelo dei Lombardi, terra aspra e nobile dell’Irpinia dipinta di un verde luccicante che la primavera fa esplodere ovunque.
La storia di Gennaro e Attilio
Qui c’è un carcere né grandissimo né piccolo, che nel 2004 ha riaperto i battenti dopo la chiusura imposta dal terremoto dell’80. 117 detenuti previsti, circa duecento quelli ospitati, colpevoli di reati a bassa pericolosità sociale, non oltre i dieci anni di reclusione, con pene prevalentemente definitive. All’ora di pranzo (alle 11.30 si mangia) un gruppo di detenuti si ritrova a tavola in un open space fornito di cucina. Per meriti guadagnati sul campo (l’intramontabile buona condotta) hanno ottenuto di poter condividere in un luogo separato dalla cella, che dunque funge solo come camera da letto, la giornata. Sono in otto. Il cuoco è Gennaro, basso, grande pancia, capelli bianchi e occhi tristi. Sta preparando frittelle di pasta: “Facevo il pizzaiolo e guadagnavo 2400 euro al mese, ma non mi bastavano. Ho iniziato a spacciare droga, sempre di più. Mi sono beccato dieci anni di carcere, e ora sono qui a fare frittelle. Avevo tutto e ora ho perso tutto. La mia famiglia mi sta accanto ma mi ha avvertito che nessuno di loro mi darà un’altra possibilità”. E Attilio, 58 anni: “Ho fatto abusi edilizi e più volte ho violato i sigilli. Una condanna, poi un’altra, e un’altra e un’altra. Credo di essere stato sfortunato perché durante l’ultimo processo ero in ospedale, in coma, e il mio avvocato assente dall’Italia. Contumacia, ed eccomi qua”. Non s’è mai visto un carcere felice, e certo questo non lo è. Ma la Costituzione qui ha finalmente casa, è un libro aperto non una foglia al vento.

da: Il Fatto Quotidiano 19 aprile 2014

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4 Comments

  1. L’ha ribloggato su Appunti Scomodie ha commentato:
    “Eppure costerebbe poco imitare Sant’Angelo dei Lombardi. Non è un carcere grande e non è piccolo, non è una maison deluxe. Resta una scatola di cemento ma dentro ha un’anima, è un luogo in cui lo Stato offre a chi vi è detenuto umanità e propone uno scambio: tu mi dai responsabilità, io ti indico un senso di marcia, una nuova prospettiva alla tua vita”.
    Da Il Fatto Quotidiano del 19 aprile 2014.

  2. Ripartire dai diritti negati sempre porta e porterà alla miglior vittoria di sempre. Grazie dottor Caporale per la narrazione speciale che ha fatto della sua esperienza.

    Ripartire da chi è rimasto indietro costringe inevitabilmente chi è avanti ad aspettare. E se il delitto, in parte, è anche frutto della società sarà un bene attendere fiduciosamente chi è rimasto indietro.

    Grazie dott. Caporale

  3. Eccellente, Antonello, davvero eccellente il reportage dalla casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi. Un non luogo dove la vita scorre con una quotidianità sincera, fatta di sogno e di lavoro, dove l’angoscia della pena è mitigata dai colori di Saverio e dall’orto coltivato da Costantino e poi dall’intrapresa dei giovani della Cooperativa “Il germoglio” che i detenuti li assume, li fa lavorare, li paga e dà loro le ferie. Come è giusto che sia.
    In carcere lo è, mentre fuori, invece…

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