Pd, il funerale frettoloso di un partito imploso

ALLA FIERA DI ROMA, TRA DIRIGENTI CHE SBADIGLIANO, GIOVANI NATI VECCHI E “CACICCHI ” CHE PICCHIANO SULLE SCELTE SBAGLIATE
L’inumazione del Pd si è svolta ieri alla fiera di Roma. È stato un rito breve e senza lacrime, come succede per quelle zie lontane e sconosciute che si conducono al cimitero alla svelta perchè domani c’è da andare al lavoro e i figli premono per tornare in città. La sala semivuota garantisce libertà di passeggio nel capannone 10 della fiera di Roma, lato nord. Alle undici del mattino incontro Marco Follini già ai cancelli di uscita: “Tutto deciso ieri”. Bene così, tutto fatto e già visto, perchè perdere tempo per esempio ad ascoltare Roberto Speranza, il capogruppo con i piedi saldamente in aria? In effetti non ha tutti i torti Follini. Speranza dal palco: “Dobbiamo essere autonomi. L’autonomia significa riformismo”. In realtà quella frase non significa niente e infatti ogni cosa va per il verso giusto: lui parla e gli ascoltatori –nella cifra va compresa la quota dei congiurati sbadigliano, o leggono i giornali o barattano la presenza per qualche photo-opportunity.
RICHIESTISSIMA Alessandra Moretti, la vice sindaco di Vicenza, che a sua insaputa è divenuta volto noto e ossessivo del Pd. Nessun pensiero e molti forse in testa. Ottima per gli intervistatori. Un clic in posa, sulle scale d’emergenza. Un clic in posa, ai piedi della scala, appoggiata al muro, a braccia conserte, a braccia allungate. Grazie molte. Performance appena più modesta quella di Matteo Orfini, il terzo dei giovani turchi, l’unico non accasato. I due compagni, Andrea Orlando e Stefano Fassina, si sono rifugiati al governo. Lui è rimasto a spasso, attorniato dai fotografi. Ancora a braccia conserte, poi a braccia allungate, foto intera di tre quarti, sorridi un po’ diamine. Grazie Orfini. Sembra una scampagnata fuori porta, un pic-nic tra amici. Spensieratissimo Latorre, oggi sembra vestito da tronista, scarpe lucide e intonate all’abbigliamento ganzo. Sorride, ne ha viste tante e tanto peggio per i delusi, questo partito è così. E giù scappellotti a Michele Emiliano, il sindaco di Bari. Scappellotti tiepidi e felici, come chi ritrova un amico a una festa. “Non mi fanno parlare, ma che ci faccio qui? Questo partito non lo sopporto più”, dice Emiliano contrito. I democratici non si sopportano se sono in più di cinque, bisogna dirlo. E infatti si riuniscono per clan separati. I lucani di Pittella, gli aquilani col sindaco Cialente, i veneti. Ciascuno padrone a casa sua. Per esempio Vincenzo De Luca, sindaco fasciocomunista di Salerno. Ha il tono del padrone e parla ai suoi compagni sputandogli in faccia: “Bisognerebbe vergognarsi”. Lo applaudono, senza sapere che lui a questo partito non ha mai creduto, l’ha svillaneggiato e chiuso nel recinto della sua segreteria. Parla Renato Soru, l’imprenditore illuminato e nei corridoi si volantina contro Soru. I giornalisti dell’Unità non gli perdonano di averli messi nei guai. Tutti i torti non hanno. All’ingresso resistono cento disgraziati con la maglietta bianca che recita la scritta: siamo più dei 101. Poco di più, sì. La spedizione dei cento. Roma, che sta per votare il sindaco (e sta correndo il rischio di vedere rivincere Gianni Alemanno) neanche se ne accorge che il suo Pd è riunito ai massimi vertici per processare la sua classe dirigente, indicare gli errori commessi, le irresponsabilità. Infatti del gruppetto dei civilissimi contestatori, che non hanno naturalmente ingresso in sala, la delegazione più nutrita (venticinque) è quella calabrese. I romani (e i milanesi, i genovesi, i livornesi) non avevano tutti i torti ad annullare l’incontro ravvicinato: quale processo? Quale sconfitta? Pierluigi Bersani ha risolto in un rapido tiro di sigaro la sua disgraziata conduzione e ha concluso con una frase da nobel del superfluo: “Le vittorie hanno tanti padri, le sconfitte nessuno”. Si è preso la croce e se l’è portata via a gambe levate. Colpiscono i volti, sono volti bugiardi, persone che non sentono il dramma, non si accorgono che il partito sta schiattando sotto le loro poltrone. Osservatori esterni, ospiti di se stessi: “Mi sembra che il partito si stia sciogliendo”, dice il salernitano Valiante. Lo spiega con quella approssimazione del turista per caso.
ECCO LÌ CESARE Damiano, sempre elegante, concede la sua interpretazione alle tv. E Civati, gonfio di carte e di appelli inutili, è un perdente di successo e infatti si fa la fila da lui. Dicono che ci sia Veltroni e pure D’Alema. Si rivede l’antico Alfredo Reichlin, uno dei pochi comunisti in sala, e ha il volto contrito. In lui almeno emerge la consapevolezza del naufragio, gli altri si godono in mare la giornata di sole. Non hanno croci da portare, sanno che anche questa volta l’hanno avuta vinta: lo stipendio corre in alto, qualche auto blu è disponibile nel parcheggio, un passaggio a Porta a Porta sarà ineluttabile. “Impossibile ripartire senza riconoscere una fine”, dice Arturo Parisi. Ma a chi lo dice?
da: Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2013

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