“Le dimissioni non si danno per manovre di Palazzo”

Come se una bolla magica l’avesse trasformato in mezzo brigante, tutto d’un tratto Enrico Letta ha presentato all’Italia il suo quid alternativo: se Matteo mi vuole cacciare me lo deve dire. Senza acuti, con spirito zen, la faccia levigata, perfettamente rasato e di un magnifico pallore dc, Letta ha sferrato calci e pugni con quella gentilezza che lo distingue, “io sono un uomo delle Istituzioni”. Tonico e perfino su di giri è giunto nella palestra di Palazzo Chigi per dare al Paese la prova che nulla è impossibile: oggi è la volta dei due premier in contemporanea. Altro che la lotta tra D’Alema e Veltroni. Il nuovo che avanza è pieno di sciabolate. Chi spinge per entrare e chi non si sposta. Letta ha ritrovato anche gli aggettivi giusti, ed è parso molto f re e , persino disinibito. Ha detto che Matteo è un casinista (gli crediamo) e sta “incasinando” l’Italia come peggio non potrebbe fare.
È UN MANOVRATORE di Palazzo, si muove come un elefante in cristalleria, si nutre di sé. Protagonista e insieme vittima del suo ego, della sua personalità biodegradabile, dell’assetto mutevole delle poche e blande convinzioni. Un incontinente, un animale che spiana, pialla, distrugge, affossa. Un rottamatore professionista, il peggio del peggio possibile. “Chi vuole venire qui al posto mio sa cosa deve fare”, ha avvertito Letta. Incredibile, ma era ancora Letta che stava parlando, quello della Provvidenza (solo ieri l’altro aveva invocato l’Onnipotente salmodiando alcuni concetti), l’oltranzista delle parole imbelli, caramellose, convenzionali e anche tristarelle. È successo che la visione di Renzi al mattino, quell’incontro disturbatore (“Tu sei sleale”, gli ha detto Enrico) gli avesse ricaricato le batterie e gonfiato i muscoli, come braccio di ferro a contatto con gli spinaci. Da ex mite, si è andato decisamente sviluppando in lui l’ira dell’oppositore. Perciò le sue parole sono parse più affilate, la gomma è scomparsa e i trucchi della diplomazia, le cerimonie di Palazzo non hanno retto. Letta non ha ridotto l’enfasi dello scontro inchiodando Renzi ai suoi brufoli. Dunque l’animo calmo si è gonfiato di un sentimento cattivello e un tantino carognesco. E compresa appieno la dimensione della festa che gli sta preparando il suo segretario nei brevi scambi di colpi mattutini (incontro “franco”) ha deciso che bisognasse assestare colpi precisi sopra e sotto la cintura. La vista dell’arrogante Smart parcheggiata dall’usurpatore a Palazzo Chigi (il ministro Franceschini è corso a fotografare l’auto del nuovo Capo, forse in segno di giubilo) gli ha fatto decidere per lo scontro totale. È andato a pranzo a casa, ha scelto la cravatta giusta (quadratini istituzionali su un viola riflessivo) ed è tornato nella sua stanza consapevole che all’Italia non potesse essere risparmiato il più grande spettacolo che si ricordi. Tu spingi? Io resisto. La prova di Letta è stata anche molto più suggestiva di quella che ebbe per protagonista Gianfranco Fini. Non solo perchè il “che fai, mi cacci?” diretto a Berlusconi suona ora assai più dozzinale della metafora del foglio excel (nella grammatica renziana il computer e particolarmente Twitter è il Sol dell’av venire): ecco il programma, c’è scritto cosa faremo, in che tempi, e con quali soldi. “E io metto l’hashtag: sonoserenoanzizen”. Se Fini, poveretto, gridava ai piedi del palco sul quale era assiso un tonante e dominante Berlusconi. Enrico invece parlava seduto ancora sulla poltrona di premier. “Sono pronto a un nuovo governo”. Bellissimo. La mossa puramente teatrale ha però sortito i suoi effetti. Perchè la resistenza ha iniziato a infastidire Renzi e anche a renderlo un po’ nervoso. FIGURARSI NAPOLITANO, che mai si era trovato spettatore di una guerra così banditesca, efferata, distruttiva. Il Pd è stato colpito da un poderoso silenzio, una sorta di sforzo riflessivo perchè la commedia politica, che assume aspetti tragici, sta andando oltre le previsioni. Ieri pomeriggio parlavano tutti tranne loro. Parlava Alfano, pronto a salire sul carro di Renzi ma con profondo dispiacere (“È vero, ha detto Letta, lui con me è stato leale”). Parlavano i quattro gatti di Scelta Civica, pronti alla nuova avventura. Si divideva perfino Sel. Vendola vorrebbe centrare l’obiettivo di dare i voti a Matteo, col quale si deve alleare alle prossime elezioni, senza dirlo troppo in giro. Tutti a commentare, ma i protagonisti no. Oggi Renzi reagirà da par suo. Letta giura che aspetterà la gragnuola di fendenti seduto sulla sedia, coraggiosamente col petto in fuori. Interverrà nella discussione e tenterà di portare la conta verso il disordine, una spaccatura finora non registrabile. Se fosse così proseguirebbe la sua corsa andando a chiedere il voto di fiducia ai parlamentari. Ma sa di non potersi illudere: le truppe sono già allineate e coperte. Toglierà le tende quando si alzerà il moto ondoso, l’indice all’ingiù degli ex amici. Dalla sua parte solo pochi aficionados. La politica è convenienza, si sa. Enrico ha già convocato il consiglio dei ministri per l’ad dio (venerdì alle ore 14), e ieri ha fatto la foto insieme a tutti i suoi collaboratori. “Oggi siamo andati benissimo”, ha detto. Chiuso il fascicolo, rimesso nella cartellina il documento programmatico, ha spento la luce ed è andato a casa. da: Il Fatto Quotidiano 13 febbraio 2014

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