Il conto è presto detto: mi servono almeno 870 milioni di euro per la ricostruzione”.
Ottocentosettanta milioni di euro? Ma, sindaco, il suo Comune quanti abitanti fa?
“641 abitanti, la quasi totalità ultrasessantenni. Hanno la consapevolezza che le case nuove nemmeno le vedranno”.
Accumoli era il piccolo bastione che chiudeva le montagne del Lazio e si apriva al Tronto e al Piceno. Forma con la sua A il trittico dei Comuni del disastro e del dolore (Amatrice e Arquata del Tronto le sorelle di sventura). Il sindaco Stefano Petrucci fa il conto delle perdite e anche quello dei profitti.
“Non auguro a nessuno quello che abbiamo subìto. Abbiamo pagato il prezzo della scossa, undici morti e ogni cosa distrutta, azzerata. Oggi cosa posso dire? Che il terremoto reca in sé questa opportunità: rinascere alla grande”.
Lei vorrebbe farne una metropoli. Quasi un miliardo di euro chiede. Però anche la più grave delle sciagure non può perdere di vista il senso della misura.
Io applico la legge. E cosa mi dice la legge, cosa mi offre, anzi cosa mi indica? Mi ricorda che devo ricostruire tutte le abitazioni, quelle dei residenti e quelle dei vacanzieri, dei compaesani che per lavoro sono andati via. Poi le piazze, le strade, gli immobili pubblici, le reti dei servizi.
Il conto resta maestoso. Come andare in un ristorante e sborsare per una cena mille euro a persona. Leccornie senza fine.
Devo ammettere, da questo punto di vista, che la grande popolarità ottenuta per via della disgrazia ha fatto sì che l’Italia si accorgesse di noi.
Appare però che la generosità dello Stato, sebbene dovuta, sia di molto superiore a quella che offre agli altri concittadini, magari ugualmente disgraziati ma non terremotati.Continue reading