Di Battista e la trappola del cambiamento

Io vorrei cambiare. Vorrei essere anzitutto più generoso. Anche più bravo. Vorrei essere più giovane, anche più furbo. Vorrei essere più alto, anche più colto. Vorrei vivere in un Paese migliore. Vorrei cambiare, ecco.

Bisogna stare sempre in guardia con le parole. Conoscerle anzitutto, e diffidare il giusto, tenerle a distanza di sicurezza, perché una parola detta male, spiegata male, intesa male, alla fine può ridurci in trappola, può toglierci ciò che invece noi speravamo ci desse. Pensate ad Alessandro Di Battista: lui vuole cambiare l’Italia. E per cambiarla, naturalmente in meglio, il suo movimento ha stilato un accordo con la Lega, che pure vuole cambiare il Paese. Insieme infatti hanno eretto il governo del cambiamento. La parola sembrava loro amica, alleata fedele. Ogni cosa sarebbe stata cambiata. In meglio. Matteo Salvini vuole cambiare l’Italia e difenderla dagli invasori. Vuole difendere anche le partite Iva dalle tasse, gli imprenditori dalla guardia di Finanza. Vuole ordine, sicurezza. Anche i cinquestelle vogliono cambiare l’Italia e difenderla dagli invasori. Vogliono tutto quel che vuole Salvini e anche di più. Vogliono che i ricchi stiano bene nella loro ricchezza e i poveri non siano però più poveri. Vogliono anche che le città siano più vivibili, la natura meno aggredita dallo smog, meno corrotti in giro, anche più umanità verso chi ha bisogno.

Hanno perciò lasciato che la parola – il cambiamento – facesse in libertà il suo corso. E così, però, stiamo diventando un po’ più buoni e più carogna. Più generosi e più disumani. Più vicini ai poveri e più razzisti con i diseredati. Un po’ più duri con i raccomandati, e un po’ anche più comprensivi. Contro la Rai dei partiti ma anche un poco a favore. A favore sia dell’unità nazionale che della secessione. A favore delle competenze, ma soprattutto contro. Contro il Tav ma anche per il Tav. Contro il Tap e anche no. Contro le trivelle o piuttosto sì. Per l’equità fiscale, ma senza esagerare. Per le piccole opere e anche per le grandi. Per le parole misurate e per quelle gradasse. Per la sobrietà e per il carnevale. Per la solidarietà e per l’egoismo. Ma noi sappiamo che non si finisce mai di cambiare. Così adesso siamo alla ricerca di qualcuno che sconfigga questo governo del cambiamento. Che sarebbe l’unico modo – vista la situazione – per cambiare davvero le cose.

da: ilfattoquotidiano.it

Atac, anche rimorchiare costa. Il codice dello spreco

L’Atac di Roma ha messo in bilancio 5,7 milioni di euro pur di garantirsi un servizio efficiente di rimorchiatura: i suoi bus vanno in panne e hanno bisogno di essere trasferiti in officina. Rimorchiare (e non fraintendete!) costa sempre di più. Se quasi tutta la flotta è in cattive condizioni (dodici anni la vita media di ciascun bus) e si blocca, singhiozza e s’intruppa, la spesa si innalza fino ad assumere i contorni parossistici di un buco nero nel già ampio buco nero della spesa pubblica.

L’esempio mi pare perfetto per illustrare il paradosso: serve una mole gigantesca di inettitudine per giungere a simili traguardi. Non bastano piccole dosi di truffe e sprechi, non ce la si fa se si è dilettanti. Bisogna essere proprio organizzati, dei professionisti spericolati, lavoratori del sabotaggio senza requie. A Roma, in decenni di impegno, ce l’hanno fatta.  L’esempio, non ce ne voglia la nuova dirigenza dell’azienda che non porta responsabilità, è la vetta che si può raggiungere, e per di più senza necessità di vergognarsene e persino di dare conto. Di quanta disonestà abbiamo avuto bisogno per erigere questo monumento?

Ps. Buona notizia. Negli ultimi tempi le rotture sono un po’ diminuite e da 90.606 corse perse all’anno (e 17.703 guasti rilevati) si è giunti alla cifra di 49.092 corse in meno. Felicitazioni!

da: ilfattoquotidiano.it

Dovevamo sconfiggere i talebani. Dopo mille miliardi spesi siglato l’accordo di pace. Con chi? Con i talebani!

Quando ci dicono “aiutiamoli a casa loro”, facciamoci il segno della croce. Si sia trattato di esportare il benessere o la democrazia, l’esito è stato sempre catastrofico.

Diciotto anni fa, dopo le Torri gemelle, gli Stati Uniti decisero di dare una virile lezione al mondo e chiamò l’Occidente a sistemare una volta per tutte i barbari aggressori.

Furono presi di mira i talebani e quindi fu decisa l’invasione dell’Afghanistan per combattere la “teocrazia del burqa”, arrestare “il ritorno al Medioevo” e ogni forma di terrore. L’Occidente ha speso in Afghanistan (rapporto MILX università di Harvard e Brown) 900 miliardi di dollari (stima al 2016). La guerra ha ucciso 140mila civili, il triplo li ha feriti, sono morti 3500 soldati. L’Occidente, sempre per combattere la “teocrazia del burqa”, ha speso per togliere ogni afgano dal Medioevo 28mila dollari all’anno, quando i suoi abitanti hanno un reddito pro capite annuo di 600 dollari. L’Italia, per far fronte agli impegni per la civilizzazione dei barbari, ha speso ogni anno della sua permanenza in Afghanistan 411 milioni di euro (“la più lunga e costosa campagna militare della storia italiana”, secondo il rapporto). In totale Roma ha pagato 7 miliardi e mezzo di euro (la ministra della Difesa oggi l’ha ridotta però alla cifra tonda di 7 miliardi) per esportare la democrazia. 53 soldati nostri connazionali sono morti.

E dunque dopo diciotto anni e – quando si tireranno le somme – quasi mille miliardi di dollari spesi, e dopo che l’Italia e l’Europa sono invasi da afgani in cerca di asilo politico,  l’Occidente, per bocca di Donald Trump, annuncia il ritiro dall’Afghanistan grazie a un accordo di pace. Siglato con chi? Elementare Watson! Con i talebani. Sì, quelli del Medioevo, quelli della teocrazia del burqa, i terroristi, i barbari. Che sono i veri vincitori della guerra.

Prossimo obiettivo? Riportare la democrazia in Venezuela.

da: ilfattoquotidiano.it