Alfabeto: HACKER. Mille euro al giorno e li chiamano “smanettoni”

hacker1Finalmente degli hacker in carne e ossa. Francesco Perna ha 31 anni, Stefano Chiccarelli 46.

Pescara è la capitale degli smanettatori, i cosiddetti nerd. Tipi umani che digitano in ogni luogo e in ogni tempo. Mangiano e cliccano, parlano e cliccano. La loro vita è dentro il computer. Ogni quattro anni organizzano il MOCA, Metro Olografix Camp, raduno internazionale di hacker.

Stefano: Vero, siamo stati conquistati al punto da restare quasi ossessionati dalla rete. Ma la nostra passione ha trovato uno sbocco positivo. Noi siamo hacker buoni.

Lei Stefano è il Ceo di Quantum leap.

Una società che verifica la sicurezza, l’attendibilità dei sistemi informatici.

Vi chiamano le banche, le multinazionali, le grandi istituzioni e vi chiedono di testare i loro sistemi. Metterli alla prova.Continue reading

Alfabeto – Serge Latouche: Sviluppo sostenibile, l’alibi perfetto della globalizzazione

La fama del professor Serge Latouche è inchiodata al concetto di “decrescita felice”. Due parole per un sogno. Anche a Ripe San Ginesio, sulle colline marchigiane, una tappa dei frequenti tour italiani in cui il fascinoso bretone, filosofo dell’economia, illustra le opere e le omissioni del capitalismo avanzato, c’è ressa per capire in quale diavolo di guaio noi occidentali ci siamo cacciati.
serge_latoucheProfessore, vorranno sapere come si fa a divenire più piccoli, più poveri ma più felici.

La decrescita è uno slogan non una ricetta economica. È uno slogan fortunato, perché corrisponde a un’esigenza sentita, collettiva, perché riflette un’angoscia che si fa ricorrente: questo mondo non soltanto non ci piace più, ma non riusciamo a sopportarlo più.

Sembra poesia più che economia

Può darsi. Posso dire che la crescita, questa parola che rende così eccitati fior di miei colleghi economisti e banchieri e finanzieri e capi di Stato e di governo, è un termine rubato alla biologia. Il seme cresce e si trasforma in albero. Un neonato cresce, diviene bimbetto e poi uomo. C’è la morte che ci attende. Invece in economia la crescita tecnicamente ha un orizzonte infinito: si cresce, si cresce, si cresce ancora.

La pancia della rana che alla fine scoppia…

Per venire qui da Roma l’auto che mi ha condotto ha impiegato del tempo e una risorsa: il petrolio. Avremo consumato almeno 30 litri, giusto?Continue reading

Alfabeto: A – Amalia Signorelli

Incattiviti ma sempre pronti a perdonarci. Altro che brava gente

Altro che brava gente. Gli italiani stanno prendendo la china pericolosa dei cinici e pure apocalittici, incrudeliti dalla speranza perduta, disorientati e stanchi.

La diagnosi è piuttosto infausta, ma Amalia Signorelli, antropologa combattente, osserva la postura collettiva, questo disordine culturale e politico che conduce all’anarchismo etico. Ciascuno si arrangia. Come può e come sa.

signorelliDunque, professoressa: la brava gente è diventata cattiva?

Spiace dirlo ma un po’ sì. Il contraccolpo della stagione creativa di Tangentopoli ha prodotto una disillusione di massa. Credevamo, forse ingenuamente, che quelle forme di censura giudiziaria avessero liberato energie positive e consacrato alla verità un principio costituzionale. Siamo tutti uguali davanti alla legge. Vedevamo sfilare i potenti e abbiamo creduto che l’uguaglianza fosse un traguardo raggiunto.

Temo che si applaudisse ai processi più come realizzazione di una vendetta collettiva che della palingenesi.

Ci saranno stati tanti felici di vedere il sangue scorrere. Ma al fondo la serie di incredibili furfanterie scoperte furono salutate come una liberazione. L’avvio di un tempo nuovo e di uomini nuovi.

Invece niente.

Invece quel che ne è seguito è stato un lungo rosario di delusioni. Tutto è sembrato ricomporsi nell’usuale dimensione. L’uguaglianza, almeno nel principio, è tornata nella prassi della vita quotidiana a essere una chimera.Continue reading

O come Operai

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Azimut Benetti è leader mondiale della nautica d’alto bordo: nelle sue officine il conflitto teatrale tra ricchi e poveri, tra le tasche piene di dollari e la minuzia degli assegni familiari
I PACCHI di euro sbriciolati in questi venti metri quadrati sono la prova che quando la ricchezza esonda – supera cioè quel livello di guardia che permette all’umano di restare umano – prende vie di fuga irragionevoli. I ghirigori sulla tazza del cesso, i pomelli d’oro accostati al frigorifero, il mogano intarsiato per sostenere il sorbetto al limone restituiscono al superfluo un carattere elementare, basico, progressivo. Non c’è fondo al fondo né tetto all’accumulazione. Ma è sempre questione di punti di vista: qui ad Avigliana, all’imbocco della strada che conduce al cantiere del Tav, alle proteste, ai bengala e ai manganelli, mille famiglie campano grazie al superfluo che i ricconi del mondo ordinano via mail. Ai bordi del lago di Avigliana, nella Val di Susa, si costruiscono yacht dalla tripla A, imbarcazioni imbottite di preziosi, testimoni urlanti che il ricco esiste ma vive lontano da noi. “Beato lui” dice Francesco, falegname, mentre misura la curvatura del mogano, i millimetri che separano una lastra di legno dall’altra e che dunque rendono inqualificabile, perché difforme dall’ordinato, l’opera. Il riccone non transige: i suoi dollari, i suoi euro e i suoi yen devono servire a smascherare qualunque cedimento alla imperfezione.Continue reading

M come medici

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QUI LA MORTE e la vita si incontrano. Chi spinge e chi resiste come si fosse in quelle file al botteghino per guadagnarsi il biglietto di uno spettacolo imperdibile. Esiste l’enormità della vita, l’impellenza che essa rimanga tale e che il corpo riconquisti la luce, gli occhi si riaprano, e la bocca, le mani, le gambe ritornino nella loro condizione originaria. Ora sono manichini sdraiati, denudati, immobili, bucati da aghi, tracheotomizzati, tenuti al caldo o al freddo da elettrodi, coperti per compassione da un telo verde. Incoscienti, incapaci, quasi perduti.
Guarire con la speranza
Nella sala di terapia intensiva del San Giovanni Bosco, ospedale torinese, la giornata segue i beep delle macchine, e le macchine aggiornano i monitor, i monitor registrano i battiti, assistono il ritmo ossessivo della lotta finale. Si può essere felici in questa valle di lacrime, in questo deposito di dolore, in questo teatro di piaghe infinite, di esami ricorrenti e quasi sempre inconcludenti? Sergio Livigni ha il compito di dare speranza a chi non ne ha più, e offrire una ragione alla crudeltà del destino, un motivo alla scelta di resistere, una speranza alla disperazione. Da medico dirigente, è lui il primario del reparto, ha scelto di trasformarsi in motivatore, in una macchina della fiducia. Ed è straordinario quel che succede in questa piccola fabbrica della vita. Perché lo Stato arrivava a pagare anche 2.500 euro al giorno (ora meno) per assistere chi lotta, ma non riesce a dare sorrisi o lacrime a quelli che accompagna. Non riesce a essere umano. Livigni invece ricerca oltre la terapia l’umanità, un sorriso, studia il benessere, teorizza la cura del conforto, la mano nella mano, l’amore come riabilitazione.

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A come Apprendista

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QUESTO EDIFICIO ha le sbarre, come tutte le carceri del mondo, e ha i letti a castello, le cellette strette, il muro di cinta, le garritte, le telecamere, i parenti in attesa, le mamme nervose e i bambini stupiti del destino dei loro papà nella saletta dei colloqui protetti. “Ti amo papà” gli ha scritto uno di loro su un foglio di quaderno da terza elementare. Quel “Ti amo” è orgogliosamente appeso al muro, e le mura sono finalmente colorate, aperte alla luce dei sogni, al giallo sgargiante di una stella. E ogni corridoio, ogni parete, ogni centimetro quadrato di questo territorio nemico è stato colorato. “Ho ospite un pittore inesauribile, si chiama Saverio Barone. Allora l’ho convocato e gli ho detto: libera le tue energie, dipingi quel che vuoi, dove vuoi”. Uscito dal colloquio col direttore del carcere Massimiliano Forgione, Saverio ha destinato alla sua passione ogni minuto del proprio tempo e iniziato a intonare, come faceva all’Accademia delle Belle Arti, gialli e blu e verdi spaziali, strisce elettriche e ansiogene insieme a tonalità più dismesse o lievi. Saverio ha forzato la mano al suo desiderio di libertà e ha chiuso gli occhi: c’è il suo pennello ovunque, tra le corsie lunghe che dividono le celle e i corridoi brevi degli uffici amministrativi. Ogni grigio è stato ucciso: viva il rosso, l’ocra, il bianco, l’azzurro. Viva Pluto e Paperino, viva noi. E poi, ironizzando sul destino di ciascuno, una monumentale banda Bassotti apre la strada alla prima sezione, l’ultima cena scorre mentre ci si dirige alla mensa. Lo skyline di New York e un grande ritratto di Ray Charles fanno avanzare verso la stanza della musica: chi ha voglia di suonare e scaricare la tensione può accomodarsi: batteria, piano, chitarra. C’è tutto.

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A come Artigiani

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PRIMA di giungere a Gioiosa Ionica, quando la piana di Rosarno si allarga verso est, la radio informa che i carabinieri hanno appena sequestrato nelle campagne di Rizziconi, un paese del primo entroterra, dodici micidiali kalashnikov, il pacchetto bomba quotidiano. Nulla di che meravigliarsi: nella Locride ci sono più armi in circolazione che bambini all’oratorio, più poliziotti nelle caserme che educatori nelle scuole, più case abusive che legali. La Locride infatti, prima di essere una fetta d’Italia, è la sede dell’Authority della ‘ndrangheta, con San Luca capitale. È il territorio del più vasto carosello di ’ndrine alleate, ora anche federate, comunque cooperanti per il male comune.

Disoccupato il 75% dei giovani

Conta 140 mila abitanti, comprende 42 comuni, ha il 75 per cento della disoccupazione giovanile. La Locride ha perciò smesso di essere una parola e si è trasformata in una malattia. È divenuta un’infezione del nostro corpo, piaga purulenta, dannazione pura. “Io sono scappato, non ce la facevo più”, dice Carmelo al telefono. Vive a Milano ora, fa il pubblicitario, ma è nato a Caulonia, davanti allo Ionio, alle coste greche, a quella che fu la civiltà di Pericle e ora è la radice quadrata del male. Eppure cangiari si può. Continue reading

C come Contadini

alfabetoEnergie rinnovabili: in Basilicata Teknosolar, una multinazionale spagnola, è arrivata con una proposta: dateci la terra per costruire un impianto solare e avrete una divisa da operaio. Un gruppo di contadini si oppone
L’ORO di Banzi è rosso come i suoi pomodori, giallo come le spighe di grano. Luccica e si distende nel meraviglioso vuoto che separa questo lembo di Lucania dalla Puglia. È l’orizzonte vasto del sud, pianura persa tra i monti. A Banzi e in tutti gli altri paesi dell’alta valle del Bradano la zappa è la regina maestosa della vita. Amica fedele ma crudele, sacrificio perenne ma anche salvezza di chi non ha altro tra le mani che le mani e il pomodoro e il grano in testa. Nessuno finora veniva a cercare i contadini, anzi per dirla tutta chi può ha sempre cercato di scappare da loro, da qui. L’emigrazione svuota le case, riduce le piazze a ritrovo di corpi ormai inabili al lavoro e trasforma ogni viaggio verso nord in un miraggio. Poi, colpo di scena! È successo che qualcuno ha finalmente bussato alla porta delle masserie.

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O come operai

alfabetoL’UNICO capitale di Giulio sono le sue mani. Con queste mani, nere come il carbone, nere come la galleria che sta scavando, manda avanti la vita sua e quella della famiglia. Millecinquecento euro al mese per otto ore al giorno, per sei giorni su sette. La sua branda è al campo base di Lauria sud, nel crostone lucano che avanza verso il Tirreno e separa la Campania dalla Calabria. Insieme ad altri trecento compagni: lucani, calabresi, friulani, bosniaci, slovacchi, greci. Ospitati in queste baracche moderne, parallelepipedi adagiati l’uno di fianco all’altro. Nell’ordine che gli italiani hanno conosciuto nella loro lunga storia di emigrazione. I campi di lavoro si somigliano tutti: quelli delle acciaierie della Ruhr, nei dintorni di Dusseldorf, o verso Stoccarda per chi trovava l’ingaggio alla catena di montaggio della Volkswagen. Per i più sfortunati c’era la fatica a Marcinelle in Belgio, oppure i cantieri stradali nel land di Amburgo. Quelle casette erano di legno, e c’era più neve, più freddo, e pareva un mondo ostile. Mondo lontano e perduto, amore mio.Continue reading