Con Renzi il Partito democratico perde ogni reputazione pubblica e la sinistra smarrisce l’orizzonte e il suo popolo

Gli arresti domiciliari ordinati dalla magistratura nei confronti di Tiziano Renzi e Laura Bovoli, i genitori di Matteo Renzi, con l’accusa di bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture false, sono molto di più di un fatto privato, e vanno molto oltre la stessa vicenda politica di cui è stato ed è protagonista il figlio. Con Renzi il Partito democratico perde completamente ogni reputazione pubblica e la sinistra smarrisce l’orizzonte e il suo popolo. Cosicchè ogni possibile alternativa è giudicata migliore e più accettabile. Alle politiche i Cinquestelle sbaragliano il campo in ragione del deficit di credibilità del loro avversario. E guadagnano consensi oltre misura e oltre gli stessi meriti. Oggi il governo nato per cambiare è sempre più intonato ai colori leghisti, che in poco tempo hanno scalzato i grillini nell’hit parade del consenso, con una attrazione pericolosa verso un linguaggio estremo e violento ed idee confuse, piani spesso caotici e incerti. L’arresto dei genitori, al di là dell’evoluzione giudiziaria della vicenda, obbliga tutti a riannodare i fili della memoria, a ricordare le ragioni profonde di un dissenso di larga parte dell’elettorato che è poi esondato verso il campo alternativo, l’unico appena praticabile. Il disastro, se vogliamo dire così, è che se la maggioranza è questa, l’opposizione resta quella.

da: ilfattoquotidiano.it

Botte, urla e “arrivederci”. La Camera litiga. Poi ferie

Parlamento ornamento – Ieri la seduta è finita male: Fico aggiorna tutti a martedì. Ma neanche le risse sono più “degne” come una volta

Il Parlamento fa sempre più rima con ornamento. La bagarre in aula è l’unico modo per farsi notare. Voci che si fanno acute, qualche spintone, con l’aggravio a volte di risse tentate oppure consumate. La casistica prevede anche duelli singoli: sputi, pugni, calci, lanci d’oggetto. Il vecchio trucco funziona sempre e porta risultati.

Ieri, proprio quando si vietava alle Camere di aprire bocca sul testo dell’accordo col quale il governo concede a tre regioni (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) la cosiddetta autonomia differenziata, a Montecitorio il sonnacchioso tran tran post prandiale e pre festivo viene interrotto da un mimo. Il deputato grillino Giuseppe D’Ambrosio incrocia le braccia nel gesto delle manette al termine del suo intervento in aula. Guarda, a braccia ammanettate, verso Gennaro Migliore, collega del Pd. Gesto ultra offensivo (D’Ambrosio spiegherà che quelle manette erano per Francantonio Genovese, ex deputato Pd arrestato per davvero) e che Roberto Fico, presidente e grillino censura con un richiamo e non con l’espulsione. “Vergogna”, “Buffone” eccetera: è la protesta dai banchi del Pd. Le urla si fanno più forti, il Pd lascia i banchi svuotando l’aula. “Mi state salutando. Arrivederci”, li sfotte Fico. È questo il momento in cui gli giunge a mezza altezza come risposta un nutrito blocchi di fogli. Il lanciatore d’opposizione sbaglia mira per pochissimo e leviga con la carta i capelli della segretaria generale Lucia Pagano. Seduta sospesa. Il presidente della Camera si scusa per le sue parole che hanno valicato il protocollo. Poi dichiara conclusa la seduta: “Riprenderà martedì”.

Quattro bei giorni di festa, e siamo nella tradizione.

La bagarre esiste da quando c’è il Parlamento. Il primo cassetto in aria volò nel 1949 per merito del comunista Giuliano Pajetta, fratello del più noto Giancarlo. Ma allora il Parlamento contava e in discussione c’era l’adesione dell’Italia alla Nato. E le terre, la grande questione del latifondo, furono all’origine di un terribile pugno che il democristiano Albino Stella sferrò (anno domini 1952) nei confronti del monarchico Ettore Viola.

La bagarre in quel contesto assumeva, per così dire, una sua dignità. La mano fasciata del ministro Randolfo Pacciardi che difendeva la legge truffa era lo sviluppo fisico dell’opposizione, in piazza come nel Palazzo. Una memorabile rissa coinvolse tre quarti del Parlamento nel 1981. Ma lì c’era sul fuoco ben altra carne: i tentativi eversivi dentro quel grande buco nero della storia repubblicana chiamato P2. Insomma, il contesto in qualche modo autorizzava a prevedere qualche strappo alla regola.

La bagarre di oggi, così minuta, quasi insipida, in un Parlamento ringiovanito nell’età ma impedito nella funzione, vuoi perchè troppo inesperto, vuoi anche perchè troppo accondiscendente verso il governo, che infatti lo usa come cassetta postale, all’identico modo dei precedenti, ha perso pathos. Nulla a che vedere con l’immagine, quella sì enormemente incresciosa, quasi primordiale, con la quale il leghista Luca Orsenigo, al tempo di Mani pulite, sollevò in aula il cappio. Il nodo scorsoio del giustizialismo. Allora era la Lega di Bossi, dei barbari all’opposizione, che inneggiavano (prima che alcuni suoi dirigenti incappassero in manette e denunce) alla carcerazione collettiva.

I leghisti hanno fatto a botte quasi con tutti, e una rissa gustosa li vide contrapporsi a suon di manate ai forzisti berlusconiani, nel tempo in cui erano un po’ alleati del Cavaliere e un po’ avversari. E in quegli anni (1993) l’ex missino Buontempo interruppe con un megafono la discussione.

Enorme, spettacolare l’aggressione del senatore Tommaso Barbato contro il mastelliano fedrifago Nuccio Cusumano che perse i sensi e dovette essere allungato sulle poltrone di velluto. Le medesime sulle quali Nino Strano, missino di Catania, si impiastricciò di mortadella per brindare alla caduta del governo Prodi.

Oggi come ieri, tutto nella norma.

L’unica differenza, come si diceva innanzi, è che oggi, a differenza di ieri, il Parlamento è divenuto ornamento.

Da: Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2019

Il suicidio assistito del Sud

Esiste il suicidio assistito. E’ una scelta legittima, a patto che se ne sia consapevoli. Il Sud dell’Italia sta affidando le sue speranze a Matteo Salvini e alla Lega. Le scelte di ciascuno non si giudicano e ci saranno ottime ragioni. Perché altrimenti scegliere massicciamente, come il meridione si prepara a fare, un movimento che negli anni scorsi ha detto del Sud, vado a memoria: “terun de merda” con il capostipite Bossi, “topi da derattizzare” (Calderoli), “colerosi che puzzano più dei calzini” (Salvini) sarebbe da pazzi. Mettiamo dunque che la Lega, cambiando vocabolario, abbia convinto tanti meridionali che non solo non è più certo ciò che cantava Pino Daniele (“La Lega è una vergogna”) ma anzi che la proposta politica di Salvini restituisca a tutti, quindi anche ai meridionali, l’orgoglio di essere italiani (“Prima gli italiani!”).

Ma un meridionale come può anche solo ipotizzare che la Lega del “prima gli italiani!” teorizzi, attraverso  la cosiddetta autonomia differenziata delle regioni, “prima i veneti!”.

Il Veneto, la punta di lancia leghista, ha infatti chiesto e ottenuto dal governo, nel silenzio imbarazzato e anche un po’ inconcludente dei b, un pre-accordo, fino a ieri secretato, nel quale le risorse pubbliche future verranno trasferite a quella regione per un numero assai ampio di materie (23 in più) non solo in ragione degli abitanti ma in parte dal gettito fiscale pro capite.

E’ chiaro che le regioni più ricche godranno di maggiori trasferimenti e quelle più povere di minori risorse. Ed è chiaro che domani tutte le regioni più ricche, iniziando dalla Lombardia e dall’Emilia, chiederanno il medesimo trattamento.

Ora è vero che il Sud ha le sue responsabilità. E’ vero che ha sprecato, è vero che la sua classe dirigente si è piegata a un clientelismo senza pari ed è maggiormente permeabile alla corruzione.

Ma se un papà, in questo caso lo Stato, ha due figli e premia sempre di più colui che più ha e toglie a chi ha meno, commette l’ingiustizia finale. E invece di unire, sfascia la famiglia.  Salvini a parole vuole tenere unita l’Italia, nei fatti la disunisce.

Il Sud già è mezzo morto. Demografia a picco, economia a picco. Il Mezzogiorno è la regione d’Europa più grande e più povera. Con questa riforma, la secessione dei ricchi, si avvia al suicidio assistito. Il Sud lo sa?

da: ilfattoquotidiano.it

Cantiere Abruzzo: la presa del bottino di Giorgia e Matteo

Il candidato piazzato da lei, la campagna acquisti di lui E gli elettori, intanto, se la prendono con i Cinque Stelle

Il ministro del Lavoro dello Sviluppo economico e vicepremier Luigi Di Maio durante la conferenza stampa per il "Restitution day" del M5s presso la sala stampa della Camera, Roma, 06 febbraio 2019. ANSA/ANGELO CARCON

L’Abruzzo è divenuto il giardino di casa di Giorgia Meloni, la piccina del centrodestra che ha svuotato i suoi uffici di persone e cose per piazzare i nomi giusti e vincenti. Da Roma è giunto Marco Marsilio, il tesoriere di Fratelli d’Italia. Farà il governatore. Lo stesso metodo del trasferimento coatto Giorgia lo decise per dare all’Aquila, il capoluogo devastato dal terremoto di dieci anni fa, un sindaco. Chiese a Pierluigi Biondi, già Casa Pound, primo cittadino uscente di Villa Sant’Angelo, un bellissimo borgo di 427 abitanti, di guidare la città delle novantanove Cannelle e darle una sistemata. Anche Matteo Salvini ha dovuto fare una serrata campagna acquisti per compilare le liste della Lega che in Regione neanche c’era la volta scorsa. A Chieti, Pescara e Teramo ha scelto il meglio della forza lavoro disponibile. Una coppia di centristi in disarmo, due ex forzisti annoiati da Berlusconi e infine due militanti di Alleanza nazionale in bancarotta, compongono due terzi della pattuglia leghista, fatta appunto di rincalzi, che da sola pesa per altri due terzi nella maggioranza. Dieci consiglieri su diciassette hanno infatti oggi il vessillo di Alberto da Giussano.

Il centrodestra, sempre per merito di Salvini, ha sfondato il tetto della vittoria, rendendo pienamente politico un voto da sempre amministrativo, e consegnando come un dato nazionale questa consultazione locale alla quale ha partecipato la cifra più bassa in assoluto di elettori (53 per cento), otto punti in meno rispetto al turno precedente. Salvini ha raggiunto il suo Gran Sasso senza bisogno di acchiappavoti di gran pregio. Ci ha pensato il ministro dell’Interno a trascinare tutti alla vittoria parlando sulle montagne dei barconi in mare. Ha anche dimenticato sistematicamente di ricordare al popolo il nome del suo candidato governatore: “Votate Lega” ha detto. E basta. Marsilio il romano, così gli avversari lo hanno chiamato per contestargli il deficit di abbruzzesità (costringendolo a ricordare sempre gli avi e i suoi trascorsi di bimbo in villeggiatura) si trova ora a governare, lui che è senatore di Roma, l’Abruzzo. Cosicché il metodo del trasferimento da una poltrona a un’altra secondo i bene informati proseguirà con la cooptazione come direttore generale di una burocrate, Carla Mannetti, zarina in pectore, attualmente dirottata, sempre per vie della forza lavoro mancante, nella giunta dell’Aquila.

L’Abruzzo, dopotutto, ha ancora da spendere quindici miliardi di euro per completare la ricostruzione aquilana e dei comuni limitrofi. È questo infatti, benché tutti lo dimentichino, il più grande cantiere d’Italia che da solo vale sei Tav. E il cantiere purtroppo invece di andare avanti, arretra. Col nuovo governo i soldi impegnati nella ricostruzione infatti si sono ridotti di quasi la metà (dai 469 milioni di euro del 2017 ai 250 milioni del 2018). Lo spoil system invece di dare energia ha reso rachitico l’ufficio speciale della ricostruzione, e tolto lavoro a chi lo cerca, cioè agli abruzzesi. Anche L’Aquila ha fatto la sua parte. Col nuovo sindaco, incaricato dalla Meloni di aiutare la città a rinascere, i cantieri si sono fermati del tutto e il primo cittadino sta ancora riflettendo su come spendere gli ottanta milioni di euro per realizzare le scuole, oggi ancora sistemate in moduli provvisori. Gli abruzzesi sono pochi, un milione e 400mila abitanti e la borsa del terremoto sarebbe la più grande centrale acquisti italiana.

E invece zero carbonella. Gli elettori se la son presa principalmente con i Cinquestelle, togliendo loro 189 mila voti in meno di due anni. Un record. Nonostante il colpo di un voto che è tutto politico, la candidata sconfitta Sara Marcozzi (quattro anni di praticantato nello studio legale del candidato del centrosinistra Giovanni Legnini) ha dapprima ritenuto soddisfacente il risultato: “Abbiamo mantenuto i consensi delle scorse regionali”, e poi dalla pagina dei suoi sostenitori arriva la legnata agli elettori: “Tutto il bene fatto non è servito a niente. La politica del clientelismo e del servilismo, unito a una buona dose di ignoranza, hanno avuto la meglio”.

Nel post, pubblicato su Facebook e poi rimosso, ha fatto perfino capolino uno strafalcione (“hanno avuto la migliore”) che ha tenuto banco e fatto rumore più della batosta agli elettori. C’è da dire che Sara, con qualche previdenza, aveva aggiunto alla candidatura a presidente di regione quella di consigliere in modo che l’eventualità che giungesse terza sul podio, come poi è successo, non la obbligasse a fare ritorno alla professione legale. Fece così anche cinque anni fa e si è trovata benone.

Da: Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2019

La prima “sconfitta” di Twitter: stavolta si protesta davvero

Lavoratori, genitori preoccupati e perfino qualche imprenditore: sfilano tre chilometri di persone vere

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse  09-02-2019 - Roma  Politica Manifestazione unitaria dei sindacati CGIL, CISL, UIL  Photo Vincenzo Livieri - LaPresse  09-02-2019 - Rome  Politics CGIL, CISL, UIL demonstration.

Quanti tweet ci vogliono per riempire questa piazza? L’Italia che non si vede più, che nessuno riconosce per strada, sbuca dall’Esquilino ed è un tronco di un albero che sembrava perduto, sparito dalla foresta, dalla nuova civiltà di internet. “Alzarsi alle quattro del mattino è dura, io non ho tempo per stare al computer. Ho quarantadue stanze da rassettare, ogni giorno. E vedo che non ce la faccio a fine mese, malgrado mi spezzi la schiena, ed è un gran problema”, dice Cristina da Mogliano Veneto. Con le sue compagne aggiunge colore a una nuvola di giubbe rosse, i fratini con i quali i sindacati misurano il peso specifico. Quelli della Cgil sono di più, naturalmente. Ma il nuovo, in questa Italia antica, dimenticata dalla politica, senza più opinione e senza più credito, perché la reputazione i sindacati se la sono un po’ giocata nei disastri post berlusconiani, e Twitter non ha bisogno della forza lavoro, è che l’albero sembra invece vivo, le foglie verdi, i rami intatti.

Roma è invasa, e non si vedeva dagli anni di Sergio Cofferati, quando il sindacato trascinava e orientava, dava vita o la negava ai governi. Lui, Cofferati, pure oggi ha fatto capolino nel corteo (visti anche D’Alema ed Epifani, Martina e la reggenza variegata della sinistra disunita), in questa che però non sembra una gita sociale di reduci e pensionati. E il tronco lungo tre chilometri non è lo spazio del circolo ricreativo della terza età, il pellegrinaggio di chi ha avuto, ma un lungo e pensieroso bivacco di lavoratori che chiedono, di padri preoccupati, di mamme che non ce la fanno più e perfino di qualche imprenditore angosciato.

Il problema di Cristina, l’addetta alle pulizie di Mogliano Veneto è lo stesso di Francesco, 37 anni e un figlio, livornese. “Il lavoro oggi rende poveri. Io sono addetto alla manutenzione dei carrelli per le ferrovie. La mia ditta ha vinto un appalto con Fs, ma mi danno quattro soldi”. Si resta poveri anche lavorando, questa è la novità. E chi non è povero teme di divenirlo. Come Ermanno Bellettini, dirigente della Rossetti, settore trivellazione: “Dicono no alle trivelle, e della mia azienda che ne sarà?”

La novità è che la piazza pur essendo piena, non urla, non scalpita, non inveisce. Non accoglie tra le sue fila gli odiatori da social network. Si dichiara antifascista e antirazzista (“restiamo umani”). Non ha neppure vergogna di cantare Bella ciao. E anche questa è una novità, visti i tempi. “Noi siamo il popolo, questi ora al governo dicono che sono i rappresentanti del popolo. Quindi dovrebbero essere con noi”, chiede Marisa, insegnante ragusana. “Vogliono farmi stare altri sette anni al lavoro. Ma lavorare all’asilo è impossibile. Non regge il fisico”. Lei ha votato cinquestelle. “Non so se lo rifarò”.

La piazza è piena ma promette che le urne, almeno viste da qui, a maggio per le europee resteranno vuote. “Fanno casino, gridano contro, non mi piacciono molto. Mi sembra che non abbiano le idee chiare”, Antonio, metallurgico torinese, astenuto ieri, astenuto domani. “Io ho votato Lega”, dice Luigi da Ivrea. “Io Lega”, cosi Vittorio da Novi Ligure. “Adesso fottetevi”, ribatte Umberto, la maglietta di Potere al Popolo, new entry a sinistra.

Oggi la piazza non è colma, è stracolma. “Veniteci a contare”, dice Maurizio Landini, neosegretario, e solleva ottimismo tra gli iscritti. “Con Landini finalmente si torna a combattere” (Cesare, da Molfetta), “Landini è quello che ci voleva” (Antonio, Cantieri riuniti di Stabia), “con lui Salvini non farà il buffone” (Angelo, assistente scolastico di Paternò).

Malgrado gli acciacchi del sindacato questa piazza oggi nessuno sarebbe in grado di riempirla così. Non più il Pd, che oramai nella hit parade del gradimento è fuori competizione. Ma nemmeno i Cinquestelle e pure Salvini non ce la farebbe. Piazza del Popolo a dicembre, quando la Lega decise la prova di forza, era la metà della metà di questo lungo tronco di uomini e donne, padri e anche nonni. “Si va bene, si dice che è una piazza contro di noi. Sono venuta qui apposta per verificare. Ed è falso. Come sospettavo, nessuno ha avuto nei nostri confronti espressioni di malcontento”, certifica via Twitter Vittoria Baldino, deputata cinquestelle, nella veste di testimone oculare sul luogo del presunto delitto. Lei sola. Di Maio, che pure sarebbe ministro del Lavoro e qualche attenzione dovrebbe prestarla a manifestazioni come queste, ha risolto il conflitto, ora silente ma non più inconsapevole, salendo in groppa al cavallo di battaglia del Movimento: “Confidiamo che Landini si unisca a noi per abbattere le pensioni d’oro degli ex sindacalisti”.

Ecco, tutto qua. La distanza tra la piazza e il Palazzo, ora che i ruoli sono invertiti, è divenuta tale e quale a prima. Quando c’erano quegli altri.

Da: Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2019

Sanremo 2019, se il Festival aiuta l’Italia a cambiare

Per una volta il festival di Sanremo è più avanti dell’Italia. Per una volta è Sanremo che aiuta l’Italia a capirsi, conoscersi, cambiare. Ieri le chiamavamo canzonette per classificare un genere e anche uno stile di vita lontani dalla realtà, dai problemi che essa ci pone. Sanremo negli anni scorsi era divenuta una parentesi dal sapore indistinto, un allegro ma scemo karaoke dell’Italia più pop.

Il merito di Claudio Baglioni, tra gli altri, è di aver svolto con impegno e cura il compito opposto: far vedere il nuovo, mostrare – attraverso una canzone – come l’Italia cambia. E la vittoria di Mahmood contiene questa bella novità, perché allinea un ragazzo nato e cresciuto a Milano, quindi come lui con orgoglio ha specificato, “italiano al cento per cento”, ma anche un figlio di migrante, come il cognome dimostra, venuto dall’Egitto a cercar fortuna, all’altra decina di volti nuovi che hanno portato nelle case ritmi nuovi, tonalità, modi di pensare e di suonare.

Sanremo fa conoscere l’Italia a sé stessa, la fa scoprire più ricca e complessa, più viva e più aperta al mondo proprio nel tempo in cui la paura le consiglia di rinserrarsi in casa nella speranza che il sovranismo, parente dell’isolazionismo, la renda magari più egoista, anche più cattiva, ma più ricca e sicura. Sanremo mostra l’abbaglio e non perché ha vinto il ragazzo dal cognome egiziano ma perché su quel palco, mai come ora, sono sfilate generazioni nuove che per mestiere condividono, contaminano, hanno bisogno di aprire porte e finestre e respirare il mondo intero.

Chi doveva mai dirci che la direzione artistica di Claudio Baglioni, il cantante dell’amore, del sentimento anche mieloso, dovesse darci questa lezione di innovazione competitiva, di illustrare il nuovo che già c’è e che forse non conosciamo bene. Sanremo aiuta l’Italia a cambiare. Questa è una buona notizia.

da: ilfattoquotidiano.it

I grillini, l’algebra e la storia. Un odio antico

Esistono le quattro operazioni algebriche. E tutti siamo dotati della virtù della moltiplicazione. Due per due fa quattro. Ed è inutile intestardirci a dire il contrario, sia che siamo di sinistra che di destra, con i gilet gialli o senza, grillini o leghisti, il risultato non cambia. Perciò ho sottoposto alla prova della moltiplicazione la cifra che il ministro delle Riforme Riccardo Fraccaro ha dato circa la riduzione del costo della politica con il taglio, appena approvato in prima lettura dal Senato, di 345 tra deputati e senatori. “Mezzo miliardo di euro per ogni legislatura”. Ho provato a moltiplicare il numero dei perdenti posti (345) per l’indennità mensile totale percepita pro capite (15mila euro) per gli anni (cinque) di una legislatura e il risultato è di 310milioni 500mila euro. Direte: bella cifra comunque! Per l’appunto! E allora perchè quei duecento milioni in più? Detto che a mio avviso i centri di costi sarebbero altrove (costa il clientelismo, costa la corruzione, costa l’evasione fiscale. Costa la criminalità. Costa l’incompetenza, la burocrazia ostruttiva), domando: perchè almeno sull’algebra non troviamo un accordo? Con i numeri i grillini avranno un’antica ruggine. Luigi Di Maio ha spiegato che ci si impiega tra le cinque e le sei ore ad andare col treno da Roma a Pescara. Ma Trenitalia giura che in tre ore e venti ce la si fa, e anche i pescaresi concordano. Domando: le tre ore in più dove le ha scovate? E ai francesi sempre Di Maio ha detto che la presa della Bastiglia è avvenuta in età carolingia: quasi 800 anni di differenza tra i conti del nostro vicepremier e quello dei parigini che ricordano come la Rivoluzione francese abbia solo duecento anni. Dunque sono 800 gli anni di troppo. Che ne facciamo?

da: ilfattoquotidiano.it

Il Papa, gli abusi sessuali e la nostra ipocrisia

Poco interesse hanno suscitato le parole di papa Francesco che due giorni fa ha ammesso gli abusi sessuali perpetrati anche con violenza dentro la Chiesa ai danni delle suore. E non si tratta di episodi isolati ma di un segno purtroppo riconoscibile nella funzione e nel ruolo di tanti cattivi predicatori. “Preti e vescovi” si sono macchiati di questo orrido reato (oltre che per la Chiesa di un peccato mortale). Problema che viene da lontano e una battaglia non vinta, ammette il Papa.

Ogni dogma, ogni verità rivelata, ogni voto definitivo (quello di castità è sacrificio vivo e irreparabile) relega il dubbio a un vizio dell’intelligenza e l’ipocrisia – far finta di non vedere ciò che è davanti agli occhi – sta divenendo l’unico criterio selettivo delle nostre relazioni. E infatti ogni giorno il falso – anche grazie alla gragnuola di certezze sganciate dai social network – viene scambiato per vero, il possibile per certo, il probabile per sicuro. Per noi l’unico modo di dividere il mondo in buoni e in cattivi. E farci vivere e odiare in pace.

da: ilfattoquotidiano.it

Di Battista e la trappola del cambiamento

Io vorrei cambiare. Vorrei essere anzitutto più generoso. Anche più bravo. Vorrei essere più giovane, anche più furbo. Vorrei essere più alto, anche più colto. Vorrei vivere in un Paese migliore. Vorrei cambiare, ecco.

Bisogna stare sempre in guardia con le parole. Conoscerle anzitutto, e diffidare il giusto, tenerle a distanza di sicurezza, perché una parola detta male, spiegata male, intesa male, alla fine può ridurci in trappola, può toglierci ciò che invece noi speravamo ci desse. Pensate ad Alessandro Di Battista: lui vuole cambiare l’Italia. E per cambiarla, naturalmente in meglio, il suo movimento ha stilato un accordo con la Lega, che pure vuole cambiare il Paese. Insieme infatti hanno eretto il governo del cambiamento. La parola sembrava loro amica, alleata fedele. Ogni cosa sarebbe stata cambiata. In meglio. Matteo Salvini vuole cambiare l’Italia e difenderla dagli invasori. Vuole difendere anche le partite Iva dalle tasse, gli imprenditori dalla guardia di Finanza. Vuole ordine, sicurezza. Anche i cinquestelle vogliono cambiare l’Italia e difenderla dagli invasori. Vogliono tutto quel che vuole Salvini e anche di più. Vogliono che i ricchi stiano bene nella loro ricchezza e i poveri non siano però più poveri. Vogliono anche che le città siano più vivibili, la natura meno aggredita dallo smog, meno corrotti in giro, anche più umanità verso chi ha bisogno.

Hanno perciò lasciato che la parola – il cambiamento – facesse in libertà il suo corso. E così, però, stiamo diventando un po’ più buoni e più carogna. Più generosi e più disumani. Più vicini ai poveri e più razzisti con i diseredati. Un po’ più duri con i raccomandati, e un po’ anche più comprensivi. Contro la Rai dei partiti ma anche un poco a favore. A favore sia dell’unità nazionale che della secessione. A favore delle competenze, ma soprattutto contro. Contro il Tav ma anche per il Tav. Contro il Tap e anche no. Contro le trivelle o piuttosto sì. Per l’equità fiscale, ma senza esagerare. Per le piccole opere e anche per le grandi. Per le parole misurate e per quelle gradasse. Per la sobrietà e per il carnevale. Per la solidarietà e per l’egoismo. Ma noi sappiamo che non si finisce mai di cambiare. Così adesso siamo alla ricerca di qualcuno che sconfigga questo governo del cambiamento. Che sarebbe l’unico modo – vista la situazione – per cambiare davvero le cose.

da: ilfattoquotidiano.it

Atac, anche rimorchiare costa. Il codice dello spreco

L’Atac di Roma ha messo in bilancio 5,7 milioni di euro pur di garantirsi un servizio efficiente di rimorchiatura: i suoi bus vanno in panne e hanno bisogno di essere trasferiti in officina. Rimorchiare (e non fraintendete!) costa sempre di più. Se quasi tutta la flotta è in cattive condizioni (dodici anni la vita media di ciascun bus) e si blocca, singhiozza e s’intruppa, la spesa si innalza fino ad assumere i contorni parossistici di un buco nero nel già ampio buco nero della spesa pubblica.

L’esempio mi pare perfetto per illustrare il paradosso: serve una mole gigantesca di inettitudine per giungere a simili traguardi. Non bastano piccole dosi di truffe e sprechi, non ce la si fa se si è dilettanti. Bisogna essere proprio organizzati, dei professionisti spericolati, lavoratori del sabotaggio senza requie. A Roma, in decenni di impegno, ce l’hanno fatta.  L’esempio, non ce ne voglia la nuova dirigenza dell’azienda che non porta responsabilità, è la vetta che si può raggiungere, e per di più senza necessità di vergognarsene e persino di dare conto. Di quanta disonestà abbiamo avuto bisogno per erigere questo monumento?

Ps. Buona notizia. Negli ultimi tempi le rotture sono un po’ diminuite e da 90.606 corse perse all’anno (e 17.703 guasti rilevati) si è giunti alla cifra di 49.092 corse in meno. Felicitazioni!

da: ilfattoquotidiano.it