Siamo il Belpaese di navigatori poeti e peccatori

gazzetta_mezzogiorno1 di Gino Dato

Noi come gli altri. La legge dell’emulazione è la stessa che ci detta i comportamenti più singolari, che ci fa guardare nell’orticello dell’altro per invidiarne pregi ma, soprattutto, difetti e peccati. Gli stessi che facciamo nostri in una lotta per distruggere ogni comandamento morale. Come la nostra deriva stia avanzando è uno spettacolo che richiede capacità di uscire, allontanarsi dal quotidiano, quasi volassimo su un elicottero che si solleva sul paesaggio e riesce a disegnare un quadro d’insieme. Servono quelle che un tempo, nel gergo giornalistico, si chiamavano le inchieste. Con l’aiuto di alcuni giovani colleghi, ne ha costruita una il giornalista di «la Repubblica» Antonello Caporale. Dieci capitoli di un immaginario e tremebondo girone d’Italia raccolti per l’editore Baldini Castoldi Dalai nel titolo Peccatori. Gli italiani nei dieci comandamenti, una verosimile fotografia delle idolatrie e devianze del nostro tempo.
Che cosa è rimasto in Italia dell’osservanza di una religione civile?«L’idea romantica della bandiera. Il tricolore. Ma nemmeno più l’inno è questione condivisa. Umberto Bossi, ministro della Repubblica, ha un figlio, Renzo, consigliere regionale della Lombardia, che dichiara di non conoscerne le parole. Il nostro Paese è tenuto insieme da un filo di spago. Mi appare sempre sospeso, sull’orlo del baratro, pronto a farsi dominare dall’invincibile idea che l’unità d’Italia sia un costo oramai improponibile. Se è così rarefatto il senso comune del bene comune, è perché lo Stato è come una nuvoletta che compare e scompare sulla nostra testa. C’è e non c’è. Chi è Stato?».

Almeno si può sperare siano radicati negli italiani i comandamenti come timore di Dio o l’osservanza di credi diversi, che nonsiano quelli civile o religioso? «Non ho alcuna competenza religiosa e i dieci comandamenti sono stati per me una suggestione da cui partire per indagare questo cattivo tempo. Ho pensato: i cattolici hanno una fede in comune, e anche una casa, la Chiesa; delle mura entro cui ritrovarsi e riconoscersi e delle tavole, almeno i dieci comandamenti, ai quali fare riferimento. Ma questi credenti poi si trasformano in cittadini e non sentono, non provano, non ubbidiscono ad alcuna regola condivisa».

E se lei volesse spiegarsi questa deriva? «Direi così: la furbizia, tanto stimata da noi italiani, è una devianza dell’intelligenza».

E che vuol dire? «Che ci conduce al caos, non all’ordine. Riduce la convivenza spesso a sopraffazione, conduce il merito in soffitta, emargina il talento e induce tutti all’unico pensiero comune: il culo, la fortuna, è il motore della storia. Ha visto le file al tabaccaio? La vita è una roulette, è un colpo di fortuna. Se apri la porta giusta…».

E dove la mette la legge dell’emulazione? Induce molti a peccare, a fare come gli altri. Quindi, oltre che con i politici, dobbiamo prendercela con la nostra natura? «Il mio libro chiama tutti alla responsabilità individuale. Basta con l’indice puntato: non esiste il buono di qua e il cattivo di là. La classe politica è lo specchio di noi stessi, di ciò che siamo o che vorremmo essere. Non è un caso che Berlusconi si sia trasformato ai nostri occhi come un dio pagano. Ha fatto i soldi, dunque è bravo, sicuramente è furbo. Conosce il mestiere della vita…»

Secondo lei, qual è il comandamento più praticato? «Non penso sia utile stilare una graduatoria e non credo che io abbia titoli per farlo. Penso che il peccato è divenuto una livella ante-mortem. “Io sono ladro? Beh, ma anche tu…” Ecco, questa livella fa sì che ci sentiamo tutti peccatori, quindi tutti innocenti».

Infine, lei immagina, dopo la sua inchiesta, da dove possiamo ricominciare? «Credo che la vita, la nostra vita, meriti più passione. Dunque più indignazione, più partecipazione. Dovremmo stare più allerta, informarci meglio e di più. Revocare la fiducia politica quando essa non è meritata. E capire che lo spreco, il costo dello spreco, è una montagna che franerà sui nostri figli. Noi bruciamo i soldi, li immoliamo sull’altare dello spreco: 60 miliardi di euro è il costo aggiornato, ma parziale, delle nostre cattive abitudini. E l’Italia proverà una nuova divisione: di qua chi si abbuffa e di là chi non riesce a sfamarsi».

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