Si può, anzi si deve dire tutto della goffaggine dei Cinquestelle, di questo loro eterno dilettantismo che è a metà tra il furbesco e l’ipocrita, e il nuovo corso piuttosto indecisionista di Giuseppe Conte.
Si può, anzi si deve dire tutto dell’eterno conclave, delle liti e delle invidie, della mancanza di rispetto dei propri impegni da parte dei tanti, troppi parlamentari che scelgono la via breve della poltrona come destino finale.
E si può, anzi si deve dire tutto del centrodestra che come sempre ha due volti. Uno di governo e uno di opposizione. Mostrando questo o quello a seconda della coincidenza dei propri interessi, altro che di quelli dell’Italia.
Tutto quanto premesso non riduce ciò che ieri abbiamo visto.
Un premier che non solo non fa nulla per tenere unita la sua maggioranza ma gestisce in modo ora sprovveduto ora sprezzante una crisi politica che invece sarebbe potuta rientrare.
A Mario Draghi non manca la consapevolezza del proprio prestigio, ed è infatti vero che è l’italiano che gode di migliore reputazione all’estero. Ma anche se è incontestabilmente il Migliore, aver accettato di fare il presidente del Consiglio gli avrebbe dovuto consigliare di armarsi anche un po’ degli strumenti del nuovo mestiere.
Esempio: offrire, o anche accettare che si immaginasse soltanto, manleva politica all’operazione scissionista di Luigi Di Maio nei confronti del partito di maggioranza a sostegno del governo non è stato un atto di grande acume politico. Lasciare il ministro degli Esteri al suo posto (ruolo ottenuto in nome del Movimento che oggi sputtana) è stata una decisione politicamente compromettente. Perché ha indotto quel partito a filarsela prima che finisse masticato in un sol boccone.
Adesso ci sono le elezioni. Siamo sicuri che abbiamo in mano tutti i nomi dei colpevoli?
Incredulo per la montagna di soldi che il dopo terremoto della Campania e della Basilicata ingoiava senza che si vedesse l’ombra di un mutamento delle condizioni di vita, immaginai che l’unico modo per scorticare quella massa di mangiatori di prebende, affittacamere della coscienza collettiva, piccoli podestà a cui tutto era concesso, fosse bussare alle porte di un grande giornale ed elencare le malefatte, gli sprechi, le ruberie.
Così feci. Misi piede a Repubblica la prima volta come denunciante degli sprechi e delle ruberie. Qualche tempo dopo mi ritrovai redattore di quel giornale, incaricato dal direttore di seguire i lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sugli scandali e le ruberie del terremoto in Campania e Basilicata.
Nelle pieghe di questi dettagli la misura di quel gigante del giornalismo che è stato Eugenio Scalfari. Il direttore di un grande giornale nazionale, a quel tempo (siamo a cavallo tra gli anni 80 e 90) influente, coraggioso, veloce a percepire l’umore della società, affidava a un giovanotto digiuno sia di esperienza che di competenze, un incarico delicato e un tema che negli anni avrebbe messo a soqquadro le classi dirigenti dei partiti dominanti, in special modo la Dc e il Psi.
Di Scalfari tanti di noi sanno molto, e tanto di quel molto l’hanno appreso leggendo i suoi articoli, gli editoriali e i giornali e i settimanali che ha diretto e anche, per i fortunati come me, ascoltando le sue cosiddette “messe cantate”, le interminabili riunioni di redazione del mattino dove fustigava o premiava chi di noi – a suo avviso – avesse meritato.
Scalfari è stato direttore, dittatore,padre padrone ma anche consigliere, papà illuminato, collega prestigioso dal quale raccogliere ogni consiglio speciale (“la toilette è il posto dove si raccolgono meravigliose confidenze. Quindi non avere fretta di pisciare. Resta e ascolta, chiedi, saluta quando ti dirigi nei cessi di Montecitorio, che sono anche molto spaziosi. Vedrai quante notizie porterai a casa”), o subire bacchettate di varia entità.
Ho avuto la fortuna di vederlo all’opera nei migliori anni della sua vita professionale, con un giornale così grande (avevamo sorpassato il Corriere) il cui successo doveva fare i conti solo con la limitatezza della stampa tipografica (poco oltre il milione delle copie potevamo riuscire a stampare il giovedì notte per il venerdì, giorno di massima diffusione).
Un giornale che stava avanti un passo a tutti gli altri. Incursore micidiale e travolgente.
Di inchiostro l’anima di Scalfari, di inchiostro la sua spada. Ha raccontato un secolo e dieci mondi diversi.
Sotto soglia, sotto copertura, sotto traccia, sotto sopra. Cinquantaquattro appalti, da fratello a fratello.
Molti modi ci sono per fare il furbacchione, il primo dei quali per Stefano Miola, dirigente agli Affari generali del Comune di Saonara, diecimila abitanti in provincia di Padova, era di provvedere anche alla cura del fratello Filippo, proponendogli appalti pubblici senza le asprezze di una competizione troppo serrata con altre aziende. In questo caso, secondo le prime notizie, tutto avveniva in famiglia con reciproca soddisfazione. Essendo l’appalto di un valore inferiore ai 40 mila euro, Stefano agiva sotto soglia: valutava personalmente la meglio ditta attrezzata per dare al Comune di cui è dirigente, appunto Saonara, il servizio che necessitava.
Stefano Miola per cinquantaquattro volte (54, in cifra) ha scelto la Array System di Filippo Miola, appunto il fratello. Il top. Esperto in informatica, responsabile del settore digitale di Confindustria Vicenza di cui è vicepresidente, Filippo fatturava poi al Comune ciò che Stefano chiedeva nella modalità “sotto soglia”.
Bello così. Stefano ha appaltato a Filippo cinque lavori nel 2015, sei nel 2016, sette nell’anno successivo. Nel 2019 gli affidamenti intuitus personae sono stati cinque, nel 2020 sono balzati a dodici, nel 2021 si sono ridotti a otto.
In tutto cinquantaquattro volte Filippo, cinquantaquattro appalti vinti e soprattutto aggiudicati senza il batticuore della gara, l’ansia da prestazione, la paura di non farcela. È purtroppo accaduto che alcuni invidiosi abbiano segnalato alla procura questa particolare fratellanza. La procura si è fatta mandare le carte e Stefano, il dante causa, è finito nei guai. Pensiamo che anche Filippo, il ricevente, potrà avere qualche problemino e pure Confindustria d’ora in avanti a spiegare com’è bella la concorrenza!
Roberto Bolle non inviterà danzatori russi nel suo spettacolo. Anche se non sono correi di Putin, anche se non sono corifei del regime. Anche “se sono senza colpa”. Essere incolpati della propria innocenza, se non ho capito male. Perché Bolle pensa che sia giusto “in un momento come questo, fare pressione sulla Russia anche in questo modo”. Persino nella danza, che è la più formidabile arte con cui il corpo si eleva e diviene suono, disegno, immagine, e a opera di uno dei suoi interpreti più illustri al mondo, la retrocessione tra gli indegni è processo inappellabile. Il salto all’ingiù verso l’abisso della discriminazione razziale (senza per questo ridurre di un grammo il peso dei crimini del governo russo) è appunto che non si discrimina in ragione del tasso di putinismo a cui imputare a ciascuno la ragione dell’esclu – sione, ma del fatto di essere russi. Perché – spiega Bolle – questo momento storico induce a fare pressioni anche di questo tipo. Se Bolle ci avesse pensato ancora un po’ si sarebbe accorto che l’estensione del suo principio produrrebbe la migrazione verso l’inferno di una moltitudine di incolpevoli. Quanti siriani, vittime di Assad, dovrebbero pagare per Assad? E quanti libici, umiliati dai ras locali, sarebbero additati come amici oggettivi dei criminali che gestiscono per mare il mercato dei profughi? E gli egiziani piegati da Al Sisi li trascineremmo sul banco degli imputati accusandoli di non aver fatto abbastanza per battere Al Sisi? E i turchi per Erdogan? Ci dica Bolle chi avrebbe potuto inv i t a r e a l s u o grande spettacolo degli Arcimboldi prossimo venturo. Un danzatore cinese, per caso? Uno coreano? Un filippino, un sudanese? Chi? Troppi sarebbero gli incolpevoli a cui dare una colpa. Una e purchessia.
Sembra che l’Italia sia rimasta sola con l’Ungheria ad opporsi alla sanzione più dura per la Russia: estromettere la Russia dal circuito finanziario Swift. Sappiamo bene che l’Europa nei confronti di Mosca sta per prendere in mano una lama tagliente: quanto più deciso l’affondo verso l’invasore, tanto più profonda la ferita che ci procureremo sul nostro stesso corpo.
Ma se diciamo che è in ballo il diritto universale alla libertà, che è il principio e il destino ultimo della nostra convivenza, allora quello sarà un diritto supremo, indiscutibile. Indiscutibile persino quando alcune ragioni di Mosca, come ad esempio il nefasto allargamento ad Est della Nato, non erano del tutto infondate.
Però una cosa è riconoscere le proprie mancanze, fare autocritica per l’arroganza con la quale l’Occidente ha trattato Mosca dopo la caduta del muro di Berlino, altra è subire da parte della Russia un esercizio di forza così sfacciatamente gangsteristico, con un linguaggio così pericolosamente eversivo e violento col quale Vladimir Putin ha scelto di confrontarsi (illuminante l’ultima dichiarazione contro la Finlandia).
In questo caso non c’è molto da traccheggiare: se si risponde all’invasione dell’Ucraina con le sanzioni economiche contro chi l’ha provocata, esse devono essere così dure da rendere esplicito per l’oggi e per il domani a chi oggi ne è protagonista e anche a chi domani potrebbe esserlo (la Cina?) che non è consentito invadere, uccidere, negare l’altrui libertà.
E’ il costo che dobbiamo pagare per tener viva la nostra democrazia ed è meglio pagarlo ora che aspettare un’altra aggressione e poi un’altra e infine trovarci di nuovo nel burrone della Storia, dove mai penseremmo di finire.
Ps. Secondo il ministro degli Esteri ucraino, reduce da una conversazione telefonica con il collega Luigi Di Maio, anche l’Italia dirà sì all’estromissione della Russia dal circuito Swift.
Quando Mario Draghi fu chiamato al capezzale dell’Italia, a salvarla dal suo certo destino di morte, era chiaro che il mandato fosse di due anni e mezzo o gli fu proposto un contrattino per nove mesi, come quegli allenatori chiamati a sostituire il mister durante il campionato?
E se era chiaro ieri, perché oggi non lo è più?
L’elezione del Quirinale assomiglia a un grande festival dell’ipocrisia dove ciascuno fa finta di essere ciò che non è o di avere ciò che non ha. Così Silvio Berlusconi, mancandogli sia la reputazione che i voti, ha scelto di candidarsi, obbligando i suoi alleati-vassalli a far finta di sorreggerlo per poi accorgersi che la reputazione, come i voti, erano altrove.
Il centrodestra ha assunto su di sé l’onere della prima mossa, della candidatura vincente, in nome della maggioranza relativa dei consensi che detiene in Parlamento. Nessuno che abbia fatto l’addizione e abbia verificato. Poi due sere fa Enrico Letta, il segretario del Pd, ha comunicato: “La maggioranza relativa dei numeri è semmai del centrosinistra”. Nessuno ha nemmeno replicato.
Forza Italia è divenuta un’eccedenza nel centrodestra. Il simbolo traino dell’estate berlusconiana si ritrova nella infelice condizione di scatola vuota, ormai figurativamente una sorta di “bad company” dello schieramento a tre.
Nel declino fisico e politico di Silvio Berlusconi, leader ormai in smart working, proprio i suoi proconsoli romani hanno visto la conclusione dell’esperienza del partito personale cercando in forme più o meno solitarie una exit strategy. Metà del gruppo dirigente apparentandosi nei fatti con la Lega, e l’altra metà avanzando disordinatamente nell’improvviso buio.
Alcuni sono saltati sul carretto del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro che, in accoppiata con Giovanni Toti, il primo dei pretoriani in fuga, tentano la carta dell’autonomia negoziale con Salvini e Meloni, altri – come le ministre Carfagna e Gelmini – stazionano nel governo in un rapporto sospeso con la casa madre di Arcore e che già evolve verso altri possibili lidi centristi.
La fusione con la Lega agognata da Berlusconi diviene così la carta estrema ma perdente che si presenta sul tavolo per salvare un partito che appare già fuori gioco, esattamente come il suo leader che esiste ma non si vede più, non fa più notizia, come quei brand scaduti e ormai rimossi dal mercato della politica.
La Lega di Salvini ha in animo di arraffare quel che resta dell’eredità elettorale di Forza Italia. Berlusconi non offre voti ma candidati, per di più azzimati e stanchi. Che matrimonio potrà mai essere?
Ha ragione Lucio Caracciolo quando dice che il Partito Democratico più che un partito è “un’accozzaglia di correnti”. Ha ragione Rosy Bindi quando spiega: “Il Pd è venuto su male. Resettare tutto e ripartire”. Ha ragione anche Gianni Cuperlo quando accusa: “Stare al governo ha rovinato il partito”. I motivi per spiegare il clamoroso addio di Nicola Zingaretti, queste dimissioni sbattute come un ceffone in faccia al partito, e l’invito ai suoi compagni di ventura di vergognarsi di quel che fanno e non dicono, di quel che dicono e poi revocano, sono tanti e il lettore ne troverà certo mille altri.
È un partito che vive una perpetua crisi di nervi, destinato dai suoi geni ad essere non una formazione politica, ma l’ufficio di collocamento governativo in sede permanente. E dunque non idee, passioni, strategie, ma poltrone e poltroncine sono divenute il cibo quotidiano, l’assillo, il bisogno incomprimibile di questa comunità. Già, ma che comunità è divenuta? Il Pd è una zattera che traghetta ogni cosa e quando accoglie sceglie di non selezionare. C’è il buono e il cattivo, il conservatore e il progressista, il clientelare e il legalista. Un concentrato di diversi o l’insieme di sconosciuti. Dunque, non un partito ma un ossimoro.
Perciò le dimissioni di Zingaretti renderanno ancora più certe le divisioni, ancora più feroci le ambizioni, e purtroppo ancora più opaco l’orizzonte. Resterà la convinzione di un partito “gnè gnè”: gnè di qua gnè di là. Una zattera che, malgrado tutto, negli anni resiste ai marosi ma per resistere si alleggerisce sempre un po’ di più dei marinai a bordo: e così ogni giorno qualcuno come Zingaretti si tuffa in acqua e se ne torna a riva.
B (Berlusconi, Bettini). Ambedue ex costruttori, destineranno altrove le loro riflessioni. Silvio in Provenza e Goffredo in Thailandia.
C (Calenda, Casalino). Il ghigno efficientista di Carlo Calenda, com’è chiaro, non risulta più decisivo. Ne risentirà anche Twitter, ex sua gioiosa macchina da guerra. Uguale sorte tocca a Rocco, e infatti: Rocco chi?
D (Di Maio). Il ministero di Luigi si fa mistero e la sua leadership nuvola bianca. Resiste la cravatta però.
E (Embraco & Co). Le mille vertenze occupazionali non rilevano perché in contrasto col senso del Recovery. L’Italia è pronta alla sfida e non ha voglia di guardarsi indietro.
F (Franceschini, Feluche). Franceschini, una passionaccia per le geometrie del gioco politico, si trova scavalcato al centro nientemeno che da Mattarella. Ubi maior minor cessat. Anche la diplomazia nell’era Draghi sarà sfaccendata. Lui, benché non l’abbia ancora annunciato, è pure ministro degli Esteri.
G (Goldrake). L’ufo robot che prima ci teneva incollati alla tv è ricordo del Novecento e dell’era analogica. Ora, con il digitale, Colao Meravigliao.
H (Acca). Non vale un acca. O anche “scappati di casa”. Oppure “bibitaro” piuttosto che “incompetenti”. Definizioni inattuali visto il mondo nuovo.
I (Inettitudine). Anche in questo caso il termine situazionista diviene non solo cognitivamente ostruttivo ma superato dalla realtà. L’efficiente può mai essere inetto? Con Brunetta alla Pubblica amministrazione la musica cambia da così a così.
L (Lombardia). Nessuno s’azzardi più a parlare della Lombardia come della pietra angolare della incompetenza nel tempo della pandemia. È stata pure aggiunta una elle (Letizia) al nome della regione.
M (Mortacci!). Esclamativo e dileggiativo in uso a Roma. Draghi privilegia, se proprio deve far ricorso allo spregiativo, alcune locuzioni imparate a Francoforte. Questione di stile.
N (Negazionista, Neutrino). Nessuno nega più il valore dell’Europa, il valore dei vaccini e il valore di Maria Stella Gelmini.
O (Oligarchia). Il governo dei migliori non è minimamente accostabile alla dimensione oligarchica. Siamo in democrazia e come si è visto anche il peggiore può diventare migliore. Significa che funziona l’ascensore sociale.
P (Populismo, Patuanelli). C’è bisogno di aggiungere altro? È il passato remoto. Per dire: il ministro Patuanelli, già Cinquestelle, sembra uno dell’Udc.
Q (Quaresima). Non è la quaresima, cioè l’austerità, ma la crescita, quindi l’abbondanza, il nuovo obiettivo di Draghi. Il premier non a caso ha scelto di illustrare il suo programma nel giorno dell’inizio della quaresima per dimostrare che le capacità terrene possono tener testa anche al divino.
R (Renzi). A Matteo sarà affidato l’incarico di mediare nella crisi politica ecuadoregna. Un primo e decisivo passo per mostrare l’abilità di tessitore. Per l’incarico Draghi prevede un gettone di presenza.
S (Salvini, Sud). L’altro Matteo si ritrova ad essere superfluo benché si ritenga essenziale. Giorgetti gli ha detto: “Come ci hai insegnato vengono prima gli italiani e poi tu”. Con Salvini scompare dai radar anche il Sud.
T (Taranto, Tarantini, Talk show). Risolto definitivamente il caso Tarantini (solo quattro contagiati al suo pranzo di nozze ma nessun legame con Berlusconi che ha avuto il Covid ben prima) resta quello abbastanza spinoso dell’Ilva di Taranto. Visto che c’è bisogno di Pil non è meglio chiudere la città piuttosto che la fabbrica? Altra urgenza: dei talk show che ne facciamo?
U (Ursula). A settembre, con l’uscita di scena della Merkel, Draghi sarà il capitano del consiglio europeo e così potremo fare a meno anche della von der Leyen.
V (Villa Pamphili). Lì gli Stati generali del Recovery. Ora in vendita.
Z (Zingaretti). Anche il Pd è stato affidato a Draghi. E Nicola?
Un’ora e le ministre che si dimettono e non sono “segnaposto” rimangono zitte facendo appunto da segnaposto. Sessanta minuti per accusare Giuseppe Conte di badare ai like, alle dirette Facebook, alla politica pop, a fare mister Simpatia. Esattamente ciò che l’Italia ha imparato da lui: dalle sue dirette, dai suoi modi pop, dalle sue enormi capacità di essere un giocoliere spericolato nel potere e del potere. Sessanta minuti – gli ultimi sessanta di una serie di ore interminabili di enunciazioni, illustrazioni, ultimatum – per dire che il premier è accentratore. L’ha detto proprio lui, l’ex premier, che nel suo governo accentrava anche la decisione di dove mettere i cucchiaini da thè. Ora chiede di rispettare la liturgia del Palazzo, come un novello De Gasperi, lui che ha sfondato ogni regola, e sconvolto ogni prassi. Oggi, per dirne solo una, è contro i decreti legge, ieri ne sfornava a decine.
C’è qualcosa di allarmante nella misura con la quale Matteo Renzi avanza, senza memoria e anche senza prudenza, che lo porta a una doppiezza francamente insopportabile. E’ vero: la politica rispetta le regole del teatro, e questa interminabile, incomprensibile, incredibile crisi, che si svolge mentre il Paese si avvia nella più cruenta ondata della pandemia, pare proprio una grande prova di teatro, un palcoscenico sul quale finalmente si parla senza dire, si propone senza fare, si costruisce distruggendo.
Un notabile democristiano del secolo scorso, Luigi Gui, spiegò cosa fosse la vita politica. Disse: “E’ fatica senza lavoro, ozio senza riposo”.