Antonio Ingroia: “In politica ho fatto errori ma clientelismo mai”

L’assunzione di un grappolo di raccomandati, tradizionale pacchetto di scambio della Palermo di sempre, un po’ clientelare e un po’ criminale, da parte di Antonio Ingroia nelle vesti di commissario liquidatore di una società pubblica siciliana, contrasta prima ancora che con la sua vita con il principio di gravità. Repubblica ieri ha riferito di un tipico lascito di Cuffaro, l’ex presidente ora in carcere. Nomi di clienti da salvaguardare incistati nella pancia della Regione più sprecona d’Italia. Siamo corsi da Ingroia a chiederne conto. E domandargli anche degli errori, delle sviste, dei formidabili autogol che lo hanno accompagnato nei suoi passi in politica.
Prima stranezza: un commissario liquidatore anzitutto liquida, non assume.
Comprendo la sua perplessità. Il mio mandato, conferitomi a luglio scorso dal presidente della Regione Siciliana.
Alt, siamo già arrivati alla seconda stranezza. Lei a braccetto con Crocetta, insuperabile affabulatore, parolaio professionista.
Ho stima di lui, e la mia fiducia rientra nella sfera dei rapporti personali. Ho creduto di dare una mano alla mia terra con un piccolo impegno professionale. Lo posso fare e sono felice di mettere a disposizione la mia esperienza. Quanto alla prima stranezza sulla quale mi interrogava: stavo dicendo che il mio mandato è quello di venire a capo di una delle tante società a partecipazione pubblica che ingoiano milioni di euro. Fare luce, ripulirla e alla fine proporre se chiuderla o tenerla in vita. La Sicilia@servizi cura tutti i servizi informatici della Regione. Era partecipata al 49% da un socio privato. Che beccava tutti i quattrini e gestiva tutto l’apparato informatico della Regione con i server domiciliati in Valle d’Aosta.
Di nuovo Aosta, dove volevano spedirla a fare il giudice?
E lì stavano i computer, lì la cabina di regia e vattelapesca perchè lassù. Capisco che fa sorridere. Io vado, vedo, noto una gestione approssimata e oscura di quei servizi. Decido di liquidare questo speciale partner che – quando capisce che è finita la pacchia – smobilita e lascia a casa i suoi dipendenti, in tutto 76. Due giorni fa mi sono trovato nella condizione di scegliere: se li assumo imbarco tutti, buoni e cattivi, se non li assumo anniento un servizio essenziale e la Regione si blocca.
Ha scelto di assumere sia i buoni che i cattivi.
Non posso fare colpa, proprio io che sono stato magistrato, ai figli di avere un papà ingombrante. Non posso punire il genero di Bontate, mafioso al cento per cento, per il cognome che porta il suocero. Né lincenziare la signora Cammarata, solo perchè figlia di un sindaco esperto in clientele. Ma posso imporre una clausola di salvaguardia. Li prendo tutti e li metto alla prova: entro due mesi selezioneremo i bravi e gli confermeremo il contratto. Gli asini li spediremo a casa. Non varrà l’anagrafe, non varrà l’amicizia con Cuffaro ma il merito. Solo quello.
Le fa onore osservare questo principio garantista. Però resta l’ombra di una confusione cosmica del suo ruolo e la percezione che aver lasciato la toga non le abbia fatto tanto bene.
Il mio impegno da magistrato era giunto al suo culmine, era un tragitto concluso. Il mio impegno doveva proseguire su un piano diverso, ma non contraddirlo. La politica è il primo impegno civile.

In politica non si va con la toga da magistrato. Prima le dimissioni poi la candidatura.
Non ho mai creduto che fossero necessarie le dimissioni. La sua tesi è infiltrata magari inconsapevolmente di propaganda berlusconiana.
Berlusconi può anche dire cose sensate.
Infatti potevo prendere atto che questo era un sentimento diffuso nella società e dimettermi prima di candidarmi.
Poteva persino evitare di candidarsi.
Mi crede se le dico che non era la candidatura la mia personale impellenza? Mi è stata sottoposta una realtà elettorale prosperosa (e in effetti lo era). Se avessi detto di no avrei tradito una speranza. Mi spiego?
Ha preso lucciole per lanterne.
No, i voti c’erano. Ma siamo stati costretti nella forbice tra il voto utile del Pd e il ribellismo di Grillo. Ho sopravvalutato le mie forze, le mie ragioni e anche la mia capacità di persuasione.
Più che una lista quella Rivoluzione civile è parsa un papocchio.
Un agglomerato di piccole e diverse bandiere che io dovevo solo rappresentare.
E quella lista era stata preceduta da una incursione in Guatemala che non aveva né capo nè coda. Lei era lì per l’Onu e si occupava ogni giorno delle beghe di Roma.
Lì anche ho sbagliato. Non avrei dovuto lasciarlo così rapidamente.
Anche in famiglia si sono alzati i cori: papà lascia stare.
Ci sono state perplessità, ma ho diritto a scegliere e anche a sbagliare.

Sembra che non le sia bastata la batosta.
Sono persuaso di fare la cosa giusta per il mio Paese. Non ho altro scopo, piacere o interesse che farla. Bado poco alla mia immagine, e magari sbaglio ancora una volta. Ma sono così, e così continuerò a essere.
Crozza la illustrava benissimo.
Lei dice?


da: Il Fatto Quotidiano 24 gennaio 2014

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