ALFABETO – MARINO NIOLA. L’antropologo: “Sacrificio e martirio sono parole che ci spaventano. Persino i macelli sono lontani da noi”

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Il nostro martire è l’agnello, lui il capro espiatorio, l’animale che col suo sangue leva a noi tutti i peccati. Martirio, sacrificio, peccato e sangue sono però parole che oggi suonano così prossime alla nostra vita, così temibili per la nostra libertà. Nuove, minacciose e fanatiche.

Professor Marino Niola, lei studia i riti dell’uomo. L’agnello per noi è divenuto solo parte di un menu.

Cosciotto o coratella? La secolarizzazione tra le sue innegabili virtù ha purtroppo il vizio di confinarci nel vuoto della memoria. Domani troveremo a tavola l’agnello al quale daremo il valore più immediato e modesto: gustoso cibo per il nostro palato, piacere per il nostro corpo, appuntamento conviviale genericamente festoso.

Questa è la settimana del sacrificio.

Del sacrificio animale. Altrove gli sgozzamenti – di pecore o montoni o agnelli – e il sangue sono manifesti, visibili in una relazione aperta, diretta, in un rapporto contiguo e permanente col sangue e con la morte. Ma la nostra cultura, anche quando si tratta di animali, rifiuta di vedere la morte, la esorcizza, la disconosce, la rende astratta. E quando proprio non può farne a meno, perché quell’ora arriva, tenta di renderla incruenta, la trasforma in dolce. L’uccisione, anche dell’agnello, avviene al buio, al chiuso, lontano dai nostri occhi. E suonerebbe assai disdicevole se potesse accadere il contrario. Il nostro rifiuto è assoluto e non esiste categoria che relativizzi la morte. Non assistiamo al sangue versato. Ci inorridisce se capita a un nostro simile, ci fa star male se accade per un animale.

Adesso mandiamo in battaglia i droni. Velivoli senza equipaggio sganciano bombe e uccidono in nostra vece, per nostro conto. La chiamiamo guerra pulita, asettica.

Non sosteniamo il peso della morte e sempre più spesso ascoltiamo gli strateghi militari che illustrano le modalità di attacco per via aerea, senza più poggiare a terra i famosi scarponi. E la morte si trasforma così in un videogioco, il nemico in un target da colpire. Lo rendiamo invisibile per nostra estrema difesa. Seguiamo puntini luminosi, non ci accorgiamo dei corpi che infatti per noi non esistono. Sono entità astratte.

L’agnello resta l’unico nostro martire, sacrifichiamo il suo corpo, emendiamo grazie alla sua morte i nostri peccati.

È il capro espiatorio, colui sul quale sono caricati le nostre colpe.

Sacrificio, morte, martirio. Una incredibile sovrapposizione di significati e linguaggi in queste ore.

Parole che perturbano, diceva Freud e aveva ragione. Rende esattamente il nostro stato d’animo, il disagio che ci procura il riconoscimento di una realtà seppellita.

Abbiamo bisogno di martiri?

Il martire fu ebreo. Il martire fu cristiano. Le cronache del cristianesimo illustrano azioni di martirio che sono fuori dalla nostra odierna comprensione. Nel Corano poi si può leggere questo versetto: ‘Non dite che sono morti sulla via di Dio. Invece sono vivi e non ve ne accorgete’. Fu Khomeini che nella storia contemporanea (sono gli Anni 60) ha teorizzato la salita al paradiso islamico attraverso il sacrificio. Ai ragazzini veniva data addirittura una chiave. L’avrebbero portata con sé e al momento della morte. Sarebbe stata utile per aprire le porte del paradiso. E ricordo che in Iran, uno Stato col quale l’Occidente sta ritrovando una improvvisa intesa, nel 1982 venne promulgata una legge che permetteva ai ragazzini di andare al martirio senza il bisogno dell’assenso dei genitori.

Il martirio ci spaventa anche solo immaginarlo.

La nostra società attraverso la tecnologia si è sempre più emancipata dal corpo e dal sangue. Infatti la morte la esorcizziamo, come anche la malattia. Certi brutti mali tendiamo a tacerli, piegarli nel sacco delle nostre paure. La nostra cultura invoca e amplia gli spazi di libertà che producono per ciascuno di noi responsabilità, forse a volte eccessi di responsabilità. Cosa diciamo ai nostri figli? Se ci riflettiamo la nostra indicazione si riduce a una generica precettistica di tipo pratico o economico. Come vivere meglio, dove vivere o studiare. Nessuna indicazione sullo scopo, il fine della loro vita.

La nostra è una società aperta, che sceglie il contatto ma teme il contagio.

Contatto e contagio sono fratelli coltelli. Siamo aperti costantemente al mondo e con Internet il contatto, cioè la chat, diviene il sistema chiave della trasmissione della conoscenza, ma permeabili, perforabili, indifendibili attraverso appunto ciò che ci ossessiona: il contagio.

In Rete si utilizza questo codice sanitario.

Il computer è infettato. E da cosa? Da un virus. Con le parole tornano a galla le nostre paure.

Da: Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2016

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