Aquarius, se sulla nave ci fossero i gattini

E se al posto di migranti affamati sull’Aquarius ci fossero stati tanti gattini, spauriti e desolati? Avremmo avuto la stessa reazione oppure un moto ondoso di proteste si sarebbe levato?

La riflessione su questo strano tempo e sulla gerarchia del nostro impegno, del nostro senso civico, sulla molla che ci fa scattare e su quella che invece ci fa addormentare è della regista Francesca Archibugi. Che scommette: ci fossero stati gattini la nostra rabbia, per vederli tenuti al largo come plichi da restituire, sarebbe salita fino a divenire un urlo collettivo.

Ma ci sono uomini purtroppo su quel barcone, e per di più neri, affamati, desolati forse ammalati, certamente impauriti. E loro saranno il trofeo della nostra supremazia, la prova della nostra intransigenza finalmente!

Noi non abbiamo occhi per vedere tanti nostri amici, magari conoscenti, magari rispettabili imprenditori che di tanti clandestini fanno uso e abuso, come fossero animali randagi, per tenere alta la rendita del capitale e annullare il valore del lavoro. Con i clandestini, e con chi sennò?, si possono raccogliere le arance, i pomodori, l’insalata, le fragole pagando ciascuno tre, cinque o anche – ma proprio se si è generosi – quindici euro al giorno, e tenere competitivo il prezzo degli ortaggi. I clandestini possono sopravvivere nelle stalle, nelle tende, nei casolari sgarrupati. I clandestini non hanno bisogno del medico, delle ferie, della domenica di festa, del sindacato, di una mamma, di fare l’amore, di lavarsi, di bere, di nutrirsi bene.

I clandestini che oggi rifiutiamo sono gli stessi che fino a ieri ci sono serviti nelle concerie, nell’allevamento del bestiame, nell’industria dell’accoglienza. Però ora basta!

Se fossero gattini e non clandestini allora sì che faremmo la rivoluzione.

da: ilfattoquotidiano.it

Nicola Amenduni 100 anni di lavoro. Dall’olio del padre al trono d’acciaio

PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE inviati a Vicenza

Il suo pane, amore e fantasia è, va da sé, Olio, acciaio e fantasia. È il titolo del suo memoriale. Ed è l’unica concessione, neppure vanitosa, alla curiosità altrui. È la storia di Nicola Amenduni – l’ingegnere dell’acciaio – che in tutti i suoi 100 anni, festeggiati il 4 aprile scorso, nei limiti della cortesia ha rifiutato onorificenze, cavalierati, titoli, scegliendo sempre la regola del “fare senza dire”. Ed è come il moto quasi perpetuo della sua idea d’industria: “Ho robotizzato il magazzino della Valbruna, un gioiello alto trenta metri, che preleva i prodotti d’acciaio che produciamo, prepara, prepara i pacchi sulla base degli ordinativi, carica gli autotreni al ritmo di quattro ogni quarto d’ora”.

L’apparentemente immobile ulivo millenario forgia ellissi e cerchi di centrifughe dinamiche. Come il celebre Profilo continuo di Renato Bertelli, capolavoro futurista, che Amenduni tiene sulla scrivania, al quinto piano del palazzo uffici delle Acciaierie: “Il dinamismo antiretorico del capo, vigile e insonne, che tutto vede e sorveglia”, per dirla con Marco Moretti.

Arrivato da Bari, Amenduni è il negro per eccellenza di Vicenza se a ripercorrere le pagine del suo libro “i difficili inizi vicentini” torna alla memoria la straordinaria Italia dei miscugli, quella che negli anni del dopoguerra, meticcia il meglio del sud col meglio del nord.

Un imprenditore di macchine oleari qual è lui arriva alla Valbruna per litigare col capo stabilimento – questioni legate alle commesse – e però fa amicizia con Ernesto Gresele, il proprietario. Lo invita a Bari per una vacanza e lì Nicola ne conosce la figlia Maria, anzi Mariuccia – ma anche Mariù come la chiama solo lui – se ne innamora e le chiede il permesso di corteggiarla.

Sono sul Lungomare Araldo di Crollalanza: “Giravamo per Bari”, racconterà dopo Amenduni a Marino Smiderle, “ci salutavano con deferenza e la mia futura moglie pesava che io fossi un mafioso”.

Li sposa padre Pio, è il 1957, ma il Sud del Sud dei Santi approda nella città del Palladio anni dopo quando Nicola, titolare della fonderia Michele Amenduni&C – specializzata nella fabbricazione di macchine per le olive – assume anche la guida delle Acciaierie Valbruna alla morte del suocero.

Nicola Amenduni, ancora oggi, ogni giorno, non manca all’appuntamento col lavoro. Dirige e decide le strategia di un’industria che s’avvale della presenza dei suoi figli: Michele, Ernesto, Massimo, Maurizio e Antonella. Tutti all’opera, nell’inossidabile acciaio del patriarcato.

da: Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2018

Vicenza rivoltata. Più bar che campanili: il Veneto non è più bianco

PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE inviati a Vicenza

Il Veneto non è più bianco e Vicenza non è più la sagrestia d’Italia. Eppure sembra ieri. Una piscina pubblica in città, proprio no: “Arrivano poi le ragazze col due pezzi e dove andremo a finire…”. Vicenza, dunque: “Più chiese che bar, ecco”.

È il prevosto del Seminario minore di Vicenza che parla. Pier Paolo Pasolini raccoglie le voci dell’a more in un documentario Rai. Intorno a lui la ressa di tonachelle. “Neppure la facoltà di Architettura serve, così tuonava il Vescovado”, ricorda oggi Roberto Floreani, pittore – erede di Umberto Boccioni – “e i democristiani di Mariano Rumor obbedivano ai preti: troppi studenti, troppo disordine!”.

MA IL GREGGE CATTOLICO emerge sempre più poco: “L’ultima volta alle primarie del Pd”, spiega Giovanni Diamanti, giovane analista di flussi che con altri colleghi partecipa all’avventura di YouTrend.

Nella prima afa della stagione, lungo via Lamarmora, ci sono tre boy-scout che non sembrano rifulgere di convinzioni religiose, piuttosto di ansietà sociale: accoglienza, solidarietà e Festival biblico. È quella miscela che per Elena Donazzan – assessore regionale al Lavoro, la donna che comanda un mondo tutto di uomini, quello della destra – “nel contesto cattocomunista, forgia la minoranza egemone in salsa progressista e buonista abile a far giocare sempre in difesa la maggioranza”.

NELLA VIVACE CAMPAGNA elettorale per il Municipio, a tre giorni dal voto col quale la Lega tenterà di conquistare l’ultimo lembo di centrosinistra in terra veneta, è dunque “il bianco che fu” a doversi “difendere” dal dilagare della parola d’ordine cattivista. È il metè a posto! intimato alla camionetta dell’Esercito dai signori in jogging serale, e sempre in fuga dai bivacchi ringhiosi degli spacciatori in sosta a Campo Marzo. Sono 903 i clandestini censiti in centro storico, la percezione è alterata rispetto all’effettivo “rischio invasione” e l’unico afro che rende nera la città bianca è quello di una celebre prima pagina de Il Giornale di Vicenza, il florido quotidiano di proprietà di Confindustria (una città dove, inaudito quasi, le edicole resistono). Ecco il titolo a tutta pagina: “Io, negro a Vicenza”. È un’intervista a un alto ufficiale di colore della base militare Usa (e non Nato), uno dei 13 mila statunitensi domiciliati a Del Din, la scintillante sede sorta –nel silenzio della Soprintendenza delle Belle Arti – al prezzo del massacro del pregiato compendio architettonico di Dal Molin, l’aeroporto degli anni 30, a risarcimento del quale la città, oggi, ha il mesto Parco della Pace.

Il Nero, dunque. E il Bianco.

È la bicromia messa in atto dal genio di Andrea Palladio, l’artefice della scenografia chimerica del Rinascimento vicentino che ancora oggi – come con Wolfgang Goethe nella sua tappa dell’Italienische Reise, davanti alla Basilica palladiana – fa dire a tutti: “È bellissima”.

E chissà la piscina. Anche Piovene, il conte Guido, nel maggio 1953, nel suo Viaggio in Italia – “un capolavoro che meriterebbe di essere studiato nelle scuole”, diceva Indro Montanelli –annota il dettaglio del bikini in agguato nella sua Vicenza. Oggi a Vicenza ci sono più bar che chiese. E ci sono ragazze in gamba come Chiara Mastrotto sedute ai tavoli del Caffè Garibaldi, in piazza dei Signori, per il meritato bicchiere della sera. È un vero capitano d’impresa, lei. È a capo di una conceria ad Arzignano e il distretto del pellame, qui, a differenza che a Prato, nella Toscana dei romanzi di Edoardo Nesi, cinesi non ne fa entrare e alza il Pil del bilancio d’Italia. “La Vicenza operosa e attiva”, dice Massimo Calearo come a presentare la città dell’eccel – lenza industriale dove il paron, spesso, ha una terza media, impara inglese, cinese e tedesco come niente, e con un euro investito ne ricava due. Già presidente di Confindustria in Veneto, ex parlamentare del Pd, Calearo è tornato adesso alla sua azienda di antenne e s’è fatto crescere una barba importante: “Le pinne che si vedono sulle Audi, le Volkswagen o le Volvo, le produciamo a Vicenza”.

È CITTÀ D’INTARSI, intagli e dorature, Vicenza. Una città dove se c’è una rapina il bottino è di cento chili d’oro. “Operosa, benestante, solida”, la descrive Marco Sofia, sociologo, al lavoro adesso in una società d’informatica. E però – prosegue – sempre “nel sottinteso maestoso di una fatica che dal settore tessile all’industria meccanica va incontro al mondo, tra i foresti, in quel traguardo che la porta a essere la seconda provincia industriale…”. Un traguardo che va a offrire un curioso esito: “È la seconda realtà industriale ma nessuna delle sue aziende – sottolinea Marino Smiderle, caporedattore del Giornale di Vicenza –, è quotata in Borsa”. Acciaierie, oro, cuoio. Vicenza, dunque, va tra i foresti. E i mille metri quadri della Diesel del pur bassanese Renzo Rosso in Fifth Avenue a New York, inaugurati all’indomani dell’11 settembre, a significare la solidità di questa terra anche a dispetto degli urti del mondo. I vicentini fanno impresa. E lavorano di fantasia. Come Alberto Zamperla, il giostraio. Detta così sembra facile ma lui ha costruito il parco divertimenti di Coney Island a New York dove risiede sebbene il quartiere generale della sua azienda – specializzata in macchine ad alta qualità d’ingegneria – sia ancora a Vicenza. L’internazionalizzazione è la cifra della città. Lino Dainese, da pochissimo ex proprietario dell’azienda Dainese – abbigliamento per motociclismo e moto mondiale – è oggi presidente del Centro Studi Internazionali Andrea Palladio, ed è l’ente di riferimento per gli studi di architettura del mondo in ragione di un ben preciso scopo commerciale.

Il Palladianesimo, infatti, è lo stile sempre in voga nell’area anglosassone – dall’Inghilterra all’India, fino

agli Stati Uniti – e il logo più noto, ormai, è proprio la Casa Bianca a Washington. C’è anche “l’oro del vin”, quello di Gianni Zonin. “Tutto di aerei privati e Caravaggio”, ricordano in città. Ed è la famosa tarasconata veneta del crac della Banca Popolare di Vicenza. È il tasto dolente: “Solo un vicentino poteva fottere i vicentini!”, sentenzia un mattacchione sapiente – è un lettore del Fatto – incontrato giusto tra le due colonne di piazza dei Signori. Giorgio Conte, ingegnere, ex vicesindaco, ride: “Ma per non farmi venire il sangue agli occhi”. Anche lui ha perso soldi con quel crac. Basta chiedere a qualunque passante – “Scusi, lei quanto ci ha rimesso?” – ed è un rosario che sgrana diecimila, ventimila, cinquantamila, centomila euro e ovviamente di più, oltre i milioni. La storia che grida vendetta è quella di Emilio, il beniamino di tutti – il conduttore dei bus di città – che va in pensione, viene convinto dal direttore della sua filiale a investire la liquidazione in azioni della BPV e perde tutto. Quello del crac – dice Achille Variati, il sindaco uscente del Pd – “è il cataclisma più grave capitato in città dopo i bombardamenti americani”.

TUTTI HANNO PERSO TUTTO, anche el can del pignataro. Fa eccezione Calearo: “Ma è il famoso fattore culo”, mette le mani avanti, “è il 2004 e Luca di Montezemolo mi chiede di entrare nel Cda di Unicredit, e mi salvo”.

I vicentini comprano online. Le signore navigano tra i trecento box con tutte le griffe del sito Sorelle Ramonda, “quelle delle tre sorelle di Montecchio che i milioni di euro” – scherza Floreani – “se li mettono nella tasca del grembiule ”. C’è sempre un fondo avaro in città, vero?

Lucrezia Marseglia, giovane logopedista, seduta ai tavoli del magnifico terrazzo della Basilica Palladiana, sfoglia il libro di Piovene e – nell’impregnarsi acerbo dell’olea fragrans, profumatissima – trova la risposta: È lo scontento del troppo bene”.

Da: Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2018

Giuseppe Conte, l’apparenza e la realtà

All’apparenza Giuseppe Conte è l’esatto esecutore, il grigio burocrate collettore delle volontà altrui. Un presidente del Consiglio ininfluente che è chiamato a dirimere il traffico di obiezioni e statuizioni.

L’apparenza potrebbe venire confermata dal secondo discorso da premier tenuto alla Camera. Vago da sembrare vuoto pneumatico, ecumenico fino all’arrendevolezza, con tanti luoghi comuni e tanti verbi coniugati al futuro: vedremo, faremo, concorderemo, spiegheremo, capiremo.

Tutta questa vaghezza però è sospetta. Perché Conte non si è tenuto alla larga soltanto dai punti più controversi e dibattuti nella coalizione, dove l’accordo non c’è e bisogna usare piedi di piombo, ma è stato prudente persino nel rivendicare i cavalli di battaglia del governo giallo-verde. Il reddito di cittadinanza, il no agli immigrati o l’espansione della legittima difesa li ha frullati al punto da scolorirli, poi – uno a uno – li ha posti dentro i vincoli della Costituzione riducendo le promesse a uno stato semiliquido, avvertendo sempre delle compatibilità, delle opportunità, delle coerenze.

La realtà, a ben vedere, è che Giuseppe Conte nell’esecutivo è colui che più agevolmente maneggia i codici e le leggi, e conosce meglio degli altri colleghi ministri le ostruzioni che i commi e gli articoli possono provocare, le vie lunghe per scansarli e quelle brevi per trovarseli nemici.

E alla guida nel mare periglioso della burocrazia ci sarà lui.

Insomma la realtà potrebbe di molto distanziarsi dall’apparenza e domani Giuseppe Conte, esecutore del Contratto, potrebbe rivelarsi un outsider, un giocatore che siede al tavolo e chiede di dare le carte. L’ambizione non manca al Prof. Avv. Conte, per adesso il Signor Contratto.

da: ilfattoquotidiano.it

Caramelle per tutti I cento minuti del signor Contratto

Cinque ore seduto ma nemmeno un filo di sudore, un millimetro di pochette fuori posto, un capello esausto. E che dire della cravatta? Il signor Contratto è entrato nell’aula del Senato a mezzogiorno e ne è uscito a sera vidimato e infine approvato dal voto e prima ancora da settantotto applausi.

Le forme umane di Giuseppe Conte (Prof.Avv.) il presidente del Consiglio, o anche l’esecutore, il mediatore, il tecnico, “il collega cittadino” di questo strano governo gialloverde sono apparse per la prima volta nella veste ufficiale. Ha parlato cento minuti e più, tra discorso programmatico e replica, realizzando un primato: costringere Matteo Salvini, l’influente socio di maggioranza, a disabilitare la connessione con i suoi fan. Neanche un tweet. Fermo e muto. Conte ha illustrato i problemi del mondo, almeno quelli che sono dentro il suo programma, col taglio eloquente del democristiano di buona famiglia, del moderato con un occhio a sinistra, del politico perbene. A Luigi Di Maio è piaciuto un sacco. Conte ha spiegato che il reddito di cittadinanza non si può fare se non si riformano i centri per l’impiego, che la flat tax sarà progressiva, che bisogna difendere gli ultimi ma attaccare il business che conduce gli ultimi nelle nostre case. È stato equanime nella vaghezza, e ciò gli ha consentito di ben figurare. Ha aperto il discorso facendo deferenti saluti al presidente della Repubblica, già amico poi ex oggi di nuovo intimo, e l’ha chiuso ringraziando la senatrice a vita Liliana Segre per il suo monito ad avere memoria, a ricordarsi di cosa è stata la persecuzione razziale, un’enormità in cui l’Europa è finita dentro.Continue reading

La morte di Carniti e la storia del clavicembalo

C’è un modo per misurare i passi all’indietro compiuti in termini di civiltà, di conquiste del lavoro, di benessere, di dignità. Ieri è venuto a mancare Pierre Carniti, un sindacalista cattolico che i più anziani ricorderanno. Integro, devoto al suo mestiere. Un sindacalista vero e la Cisl, di cui Carniti è stato segretario, ne ricorda pochi di dirigenti della sua autorevolezza e onestà.

Bene, Carniti fu il promotore di un contratto nazionale che prevedeva anche 150 ore all’anno di studio per i lavoratori. La Confindustria, per sbeffegiarlo, chiese: “Ma volete forse che i lavoratori studino clavicembalo?”. Carniti rispose: “Sì, se vogliono studiare clavicembalo devono poterlo fare”.

Ecco, pensate a quanta dignità avesse il lavoro e quanto valore la vita del lavoratore e a quanta ne ha oggi.

da: ilfattoquotidiano.it

Le parole che ti aspetteresti dal governo e quelle che non vorresti mai ascoltare

Tutto si può dire tranne che il governo sia silenzioso. Parla, parla, parla. Spesso straparla. Ma nel vocabolario di questo nuovo tempo mancano parole che ti aspetteresti e invece sono presenti quelle che non vorresti mai sentire. Mi sarei aspettato che di fronte alla fucilata che ha sepolto Sacko Soumayla, immigrato regolare e sindacalista dei suo compagni di sventura, braccianti agricolisfruttati e spesso clandestini, tenuti sotto la sferza da imprenditori italiani schiavisti, il ministro del Lavoro che dichiara giustamente di battersi per la dignità di ciascun cittadino, avesse immediatamente preso la parola. Si fosse fiondato in Calabria per confortare gli sfruttati e decidere misure urgenti contro gli sfruttatori. Quel ministro è Luigi Di Maio, il capo politico dei Cinquestelle, la prima forza di governo.

Le parole che sono mancate in onore della morte di Sacko per mano violenta sono state compensate, in una tragica contemporaneità, da quelle del ministro dell’Interno Matteo Salvini che annunciava la fine della “pacchia” per i clandestini.

La pacchia, già.

da: ilfattoquotidiano.it

Le città al voto: VICENZA

PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE inviati a Vicenza

Di questa terra bianca come il suo baccalà appena spugnato, resta la tradizione: il voto passa per una quota significativa ancora tra le sagrestie, tra chiese e conventi. E il personaggio politico più potente di Vicenza è Achille Variati, sindaco uscente, già presidente della Provincia, parlamentare e, soprattutto, devoto di Mariano Rumor. Lui, il democristiano del dopoguerra, resta il simbolo di una politica con la croce al petto e la “musina” in camera da letto. La musina, cioè il salvadanaio dove mettere gli schei, i soldi, tanti soldi perché la ricchezza che conta la città e la sua provincia non ha eguali in Italia.

Vicenza è Palladio ma domenica prossima più che l’architettura che la rende così lucente e viva, sarà l’onda leghista a stabilire se anche questo piccolo spicchio di centrosinistra in terra veneta verrà assoggettato al dominio di Alberto da Giussano.

I FATTI, se fossero solo questi a dare un senso alla scheda da votare nell’urna, porterebbero a ritenere che l’amministrazione uscente, guidata da Variati, non ha demeritato. Ha anzi offerto a Vicenza, da sempre ossessionata più dal lavoro che dalle sue bellezze, una opzione in più: l’arte, la cultura, il turismo. “La Basilica del Palladio conta i suoi visitatori in milioni, è una realtà oramai prestigiosa sulla scena turistica nazionale. Abbiamo investito tanti soldi per vederla nella sua smagliante beltà e possiamo dire che ce l’abbiamo fatta. Diamo lavoro a 30 persone e i conti sono in attivo: quest’anno chiudiamo con 60mila euro di profitto. La scommessa è vinta”, dice Variati. La scommessa sarebbe vinta se tutti i 110mila residenti abitassero al centro, se la periferia, dalla monotonia delle sue forme grigie di conosciuta bruttezza, non avesse la solita paura.Continue reading

IL SOLITO SALVINI (MA ADESSO È AL GOVERNO)

Primo giorno da ministro e primo comizio in piazza. Scortato da una pletora di poliziotti e da un corteo di auto blu Matteo Salvini riprende il filo mai interrotto della propaganda: “Per i clandestini è finita la pacchia”. Rende felice Vicenza, che tra una settimana deve andare a votare, e concludente il suo operato spesso intermezzo di parole e proclami. Quello di ieri: “Nessuno deve più permettersi di alzare una mano contro gli uomini delle forze dell’ordine”. Applausi, naturalmente. Ma anche – benché sottintesa – la totale, indefinita e incondizionata fiducia nei tutori della legge (la Lega si è opposta all’introduzione del reato di tortura nel codice), e la garanzia assoluta di una difesa preventiva rispetto alla singola valutazione dei fatti.

E cosa dire delle Ong declassate alla condizione di “vice scafisti”, arruolate tutte nell’esercito dei mercenari che scaricano corpi per fare affari? Non gli sarà più permesso di attraccare impunemente nei porti italiani, ha annunciato. Oggi il ministro sarà a Pozzallo, in Sicilia, a verificare e sicuramente giudicare la presenza degli immigrati nel centro di identificazione. Altre parole timbreranno la sua visita e altre polemiche che in questo caso già anticipano il suo arrivo. Sempre ieri infatti è comparso un video, chissà quando pubblicato, in cui Salvini definiva il sindaco di Riace, autore di un piano di accoglienza ritenuto all’avanguardia (ma i cui costi sono sotto il giudizio della Corte dei Conti), “uno zero assoluto”. D’altro canto il leader leghista coniuga felicemente, e ancora ieri l’ha ripetuto a Vicenza, le funzioni di segretario politico e quelle di ministro dell’Interno. È perfino banale ipotizzare che il suo tempo lo dedicherà alle piazze più che ai dossier del Viminale. Sarà un Salvini al giorno e nessuno potrà dirsene sorpreso.

da: Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2018