Il racconto: “Così mi salvai dall’eccidio delle Fosse Ardeatine”

albertosedMARCO MORELLO

Quel giorno, oggi, è distante sessantacinque anni esatti, ma Alberto Sed l’eccidio delle Fosse Ardeatine lo ricorda come se fosse avvenuto ieri. Era ancora un ragazzino nel marzo del 1944, un’epoca in cui la vita di quelli come lui, gli ebrei, aveva un prezzo inserito in un tariffario: 5mila lire se uomo, 3mila se donna, mille lire se bambino. E la sua storia di doppio superstite, prima al massacro compiuto a Roma dalle truppe naziste ai danni di 335 italiani, più tardi al campo di concentramento di Auschwitz, è raccontata nel libro Sono stato un numero, da poco pubblicato da Giuntina (168 pagine, 15 euro). Lo ha scritto Roberto Riccardi, ufficiale dell’Arma e giornalista, direttore della rivista Il Carabiniere.
Nell’ottobre del 1943, avvisato dai vicini, Alberto era riuscito a scampare a una retata tedesca nel Ghetto e si era rifugiato in un magazzino nei pressi di Porta Pia. Lì viveva con la madre, le tre sorelle piccole e il nonno, quando all’alba del 21 marzo le camicie nere bussarono alla sua porta. Qualcuno lo aveva tradito, li avevano venduti e furono portati via. «Poco dopo il nostro arresto – racconta Sed – in via Rasella i partigiani avevano compiuto un attentato e i tedeschi stavano rastrellando prigionieri da fucilare per rappresaglia. Gli agnelli per il sacrificio furono scelti a Regina Coeli. Noi eravamo altrove per puro caso, il giorno in cui ci avevano catturati il carcere era pieno. “Niente camere, siamo al completo”, aveva detto ironico il secondino al capo delle camicie nere, come se parlasse di un albergo in alta stagione. Ci portarono al convento di San Gregorio, all’Orto Botanico, erano sicuri che non saremmo mai scappati». Dei colpi sparati alle Fosse Ardeatine Alberto sarebbe finito certamente vittima, invece ne udì soltanto un’eco lontana. La sua discesa agli inferi, però, era appena cominciata: lui e la sua famiglia furono portati a Fossoli e, di lì, a Birkenau, il campo peggiore del comprensorio di Auschwitz. La madre fu destinata subito al gas insieme con la bambina più piccola; quanto alle altre due sorelle, Angelica fu sbranata dai cani, aizzati contro di lei dalle SS durante un sadico gioco, mentre Fatina, di 13 anni, fu sottoposta nel lager ai crudeli esperimenti di Mengele, il «dottor morte». Tornerà a casa segnata per sempre insieme con Alberto, anche lui sopravvissuto all’orrore grazie a un espediente: quello di fare il pugile per il divertimento delle guardie. In premio riceveva qualche buccia di patate o di mele e incassava scariche di pugni da ex professionisti, «ma almeno – dice stringendosi nelle spalle – di botte non si moriva».
Oggi ha ottant’anni, una moglie, tre figlie, sette nipoti e tre pronipoti, con cui ogni venerdì sera celebra la cena che, per tradizione, dà avvio alla festa ebraica settimanale. «Ha risposto con l’amore all’odio – spiega Roberto Riccardi, che ha raccolto la sua storia –. Mi ha detto che questo libro gli ha permesso di uscire veramente da Auschwitz. Che, finalmente, la notte riesce a dormire. Senza più incubi».

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