“Nel cibo c’è il destino della democrazia”

Si possono illustrare le ingiustizie del mondo, denunciarne le violenze e anche valutare i crimini del capitalismo partendo da una caciotta. Carlin Petrini è – tra i pensatori del nostro tempo – colui che con più convinzione ha collegato la terra allo scheletro umano, la vita delle sementi alla nostra intelligenza o alla nostra devianza. Ha cioè connesso ciò che mangiamo, e come lo mangiano, con quel che siamo, che pensiamo. E se moriamo di fame, se migliaia di umani muoiono per fame, malgrado cinque miliardi di tonnellate di cibo finiscano ogni anno tra i rifiuti, consumando con le discariche altra terra, è il frutto di una scelta consapevolmente assassina.
Carlin, la caciotta è l’emblema di quanto siamo ignavi, votati al fallimento, alla disperazione.
I grandi economisti si occupano della crisi finanziaria ed economica risolvendo in una bolla inconcludente la loro supponenza. Chi si preoccupa del cibo che c’è, di quello che manca, di come viene modificato, alterato o semplicemente nascosto, eliminato, tratta un tema marginale. Ben altri i problemi! Allora documenteremo che la vita e la morte di una caciotta mostra il declino di una intera società. Un declino non solo alimentare ma economico, sociale, politico.
Forse stiamo esagerando con il discorso sulla caciotta.
Affatto. In penisola sorrentina, dalle parti di Agerola, si produceva un magnifico caciocavallo detto il provolone del monaco. Era il frutto del latte di mucche native, che pascolavano ai bordi dei monti Lattari (il nome dice tutto). Mucche magnifiche e pregiate, che producevano al giorno solo dodici litri di latte. Un’inezia.
E dunque?
La logica produttivistica ha immaginato il restyling: al posto delle mucche native delle belle frisone olandesi, bestie che producono il triplo. Il risultato è che sta scomparendo quel tipo di prodotto che non è solo un prelibato cibo ma il segno di quella comunità. La logica industriale ha fatto con il provolone del monaco ciò che ha combinato col latte.
Il latte.
Il latte esce dalla fattoria al costo di 32/35 centesimi di euro. Finisce all’industria alimentare che lo tratta in questo modo: toglie il grasso e lo destina alle industrie dolciarie e mette in vendita il latte impoverito. Il povero lo acquisterà a un euro, e berrà il latte senza nessuna consistenza. Per i ceti più abbienti l’industria immette un prodotto rivalutato con immissione di omega 3 e altre lavorazioni che danno consistenza. Valore di mercato: un euro e sessanta centesimi.
La selezione biologica inizia dal latte.
Per chi arriva a berlo. Lo sai che l’80 per cento delle sementi nel mondo è di proprietà di cinque multinazionali? Cinque. Loro solo detengono il potere della vita, loro decidono a chi, a quale prezzo. I contadini sono schiavi e a malapena riescono a custodirne il restante 20 per cento. La mia lotta, la nostra lotta, dico nostra perchè siamo insieme alla Fao, è di tentare che almeno questa residua proprietà, insieme economica e intellettuale, venga detenuta dai legittimi proprietari.
I grandi statisti non si occupano di sementi.
Il destino del mondo però è in mano a chi detiene la nostra fame, giusto?
A Bruxelles sono presi dalle banche.
Siamo di fronte a una crisi entropica del capitalismo. E l’etimo della parola economia non è per caso la cura della casa? La casa che oggi sta distruggendo.
Forse il capitalismo sta schiattando e la corsa a rattopparlo si sta rivelando inconcludente. Forse è così. Quel che non accetto è che l’interesse, la passione, lo studio e la militanza a favore del cibo sia considerata una attitudine poco più che ludica, un passatempo o quasi per bontemponi che amano il piacere (a parte che il piacere è legittimo e contribuisce a dare valore spirituale alla nostra vita). Quel che non si comprende, o non si accetta di valutare come questione essenziale della democrazia è che dare cibo a tutti, tutelare le produzioni autoctone, rispettare la tradizione e la qualità, ripristina il principio base dell’uguaglianza, promuove stili di vita ed economie compatibili ed ecologiche, alleggerisce il peso del debito alimentare: una parte del mondo affamata che viene depredata, schiavizzata, ridotta a branco al pascolo del più forte. Quale battaglia è più potente di questa?
La terra, anzitutto.
Sono reduce da un viaggio in Messico. Lì è nato il mais, lì è stato prodotto in mille tipi, ha sfamato intere generazioni. Adesso il Messico importa il 33 per cento del mais, capisci? Hanno depredato la sua ricchezza e adesso gliela rivendono a caro prezzo. Una vergogna.
In Italia è tutto un fiorire di saggi.
Saggi senza saggezza.
Tutti in cravatta, e seri.
Hanno persino proposto di accorpare il ministero delle politiche agricole con quello delle attività produttive. Per dire della sensibilità, della vicinanza al problema.
Secondo me non sanno che pesci prendere.
Chiamino un pescatore, avrà più cose da proporre e illustrerà il mondo e la vita con più verità.

Avrebbero potuto chiamare te. Sei così saggio.

Non indosso mai la cravatta.


da: Il Fatto Quotidiano, 10 giugno 2013

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