Un vescovo “del fare”, idee innovative, pensiero strategico e parole sante. Lui è Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli, il presule che nell’omelia per i funerali delle vittime ha chiesto a Dio: “Signore, ma tu dove stai?”.
D’ERCOLE per cinque anni è stato a L’Aquila, inviato dal Vaticano a sorreggere la diocesi distrutta, aiutare i fedeli feriti, le anime scosse, e portare conforto e spinta – anche materiale – alla ricostruzione. Concreto, determinato, preciso: “Ci stiamo specializzando adesso nella diagnostica ingegneristica”, mi disse quando lo incontrai per chiedergli conto della sua attività di socio e presidente del consiglio di amministrazione di Aquilakalo’s, una Srl che aveva l’obiettivo di realizzare un piano strategico di restauro e rifunzionalizzazione del centro storico. La Curia aveva il suo master plan, la Chiesa i suoi tecnici e le sue mura da difendere, consolidare o ricostruire. “Quasi tutto il patrimonio artistico è di nostra proprietà”, mi disse. Ed era così. E infatti non solo chiese, ma anche negozi e case e terreni rappresentavano la proprietà fondiaria aquilana alla quale monsignor D’Ercole dovette dare risposte e presumibilmente iscriverle anche a bilancio. La sua società (per sei mesi ne fu presidente, poi delegò un sacerdote di fiducia) aveva come oggetto sociale anche quello di vendere e costruire immobili, chiedere finanziamenti e concederli. Lottizzare, espropriare, partecipare ad affari con altre società, ricevere contributi statali, anche utilizzando l’istituto della concessione ed erogare in definitiva attività di “global service”. Spiegò: “Ho ancora tredici milioni di euro della Caritas da spendere e il municipio non mi spiega, non indica dove, non mi dà la possibilità di investirli per il bene della comunità. Ho dato un ultimatum: entro giugno devono darmi le autorizzazioni”. Era il 2010.
Da presule accorato e persona puntigliosa e pragmatica, alla pubblicazione dell’articolo reagì con queste parole: “La creazione della Srl ha come unico scopo quello di permettere alla diocesi di occuparsi esclusivamente delle anime, delegando alla società la cura degli aspetti materiali. Siamo una comunità di servizio e non una società di affari”. Per le smentite più delicate – riferite per esempio agli articoli sull’identità e la consistenza di un suo proprio “cerchio magico” aquilano – si è affidato ai suoi legali che, in nome di Sua Eccellenza, hanno specificato, contraddetto, escluso, smentito e infine denunciato il clima di artificiosi sospetti che ha accompagnato la sua opera pastorale nella città del terremoto.Continue reading

Noi terremotati siamo così tanti che potremmo edificare una Patria e avere una bandiera, una lingua comune. Con Pierluigi Cappello, il poeta della gentilezza, lo scrittore friulano che più ha dato all’Italia con la sua penna e la sua lirica, abbiamo un terremoto in comune. Lui, quando il 6 maggio 1976 il Friuli tremò, aveva nove anni. Io diciannove il 23 novembre 1980, il giorno del boato che distrusse le aree interne di Campania e Basilicata.
Con il terremoto dell’Irpinia nasce lo spreco come teoria e prassi di governo e la Lega come movimento di opposizione. Quello de L’Aquila si ricorderà per le risate al telefono, di San Giuliano di Puglia si avranno in mente i 27 bambini sepolti a scuola. In quarant’anni sei terremoti distruttivi, quasi cinquemila morti e quasi quindicimila feriti, quasi cinquecentomila case andate perdute e un mucchio indefinibile di quattrini, un fiume che ha allagato fin quasi a sommergere l’Italia.
È vietato lavorare nei campi dalle 12 del mattino alle 16 del pomeriggio sotto il sole cocente e fino al 31 agosto”. Non siamo agli inizi del Novecento e nemmeno dentro il cuore delle lotte bracciantili degli anni Sessanta capeggiate dal pugliese Giuseppe Di Vittorio. Non è l’Italia della riforma agraria ma quella dei nostri giorni e il divieto e il primo atto da sindaco di Nardò di Giuseppe (Pippi) Mellone. E Nardò non è un angolo sopraffatto dalla miseria, abbandonato dalla civiltà e dal diritto. È città del barocco, pregiato e nascosto quadrilatero della pietra bianca e lucente, degli orli imponenti, dei roseti cuciti davanti alle mura delle chiese. Città che in estate si riversa sui chilometri di mare meraviglioso, trasparente come acqua di fonte. La separa a sud da Gallipoli e a nord da Porto Cesareo. Decine di chilometri di costa e una terra fertile, per un’agricoltura che ha bisogno di braccia.
Fenomenologia della monnezza.
Le più anziane sono Primavera, Regina, Baronessa, Mattiola, Biancospina. Ma Principessa è sempre stata avanti alle altre per la sua autonomia, il carattere forte, l’assoluta indipendenza di giudizio. È successo che senza attendere l’ultimo giorno di luna piena di maggio e mettersi con le altre amiche in cammino per la rituale transumanza, Principessa abbia lasciato in anticipo la piana pugliese e già arroventata dal sole di San Marco in Lamis per raggiungere le montagne molisane di Frosolone. Al fresco finalmente. Oltre duecento chilometri, quattro giorni di viaggio, senza sbagliare di un metro l’arrivo. “Le nostre mucche sono fantastiche. Sanno cosa fare, sanno dove andare, sanno avere giudizio”
C’è un paese in Italia, un borgo di 780 abitanti, dove il Pd è bandìto e la sua festa cassata d’imperio, non autorizzata. Monteverde, nell’alta Irpinia, è un grumo di case, molte delle quali purtroppo svuotate dagli anni dell’emigrazione, che ora ospitano solo 780 residenti. È bellissimo, e infatti è iscritto nella lista dei borghi più belli d’Italia, ma i suoi cittadini più della beltà si cibano del rancore col quale paiono convivere felicemente dalla nascita.
Staff oppure team. È lo staff che sorveglia, il team che censura, l’ufficio stampa che risponde. Non ci sono nomi ma ombre. Di Facebook si conosce il proprietario, il giovane milionario Zuckenberg. Il giovanotto gestisce la vita, le passioni, i segreti e le idee di un miliardo e settecento milioni di persone. Un grande continente. La libertà di ciascuno è sorvegliata e i suoi limiti decisi dallo staff o dal benedetto team. Chi siano, e soprattutto dove siedano, quali i loro curricula, è mistero della fede digitale. Di qualche giorno fa l’avventura del regista Daniele Vicari che ha chiesto conto per una settimana e più della censura subìta per aver manifestato il suo (documentato) pensiero sulla mattanza poliziesca al G8 di Genova. Ha dovuto imbucare la sua protesta alla cieca, confidando che qualcuno la leggesse e giudicasse. Qualcuno, chissà chi e chissà dove.
