Metro C racconta: orti, canali, vigne (e qualche tomba)

metroCI nonni dei nonni dei nonni di Roma si davano da fare con le frecce per cacciare mucche, capre e cervi, amavano l’orto, drenavano l’acqua, costruivano canali, non gli bastava il grano, producevano legumi. 1410 avanti Cristo, insediamento del neolitico poggiato alla base del parcheggio che fa da capolinea alla metro C in località Pantano, 18 chilometri di tratta, l’ultima fermata verso oltre le borgate della cinta metropolitana, alle soglie dei Castelli.

Tra le tante rogne che la nuova linea C ha dato a Roma almeno un tesoro ha restituito. Un enorme, incredibile viaggio nel tempo attraverso i secoli. Giù e ancora giù a seguire le tracce d e l l’uomo fin dove è stato possibile, fin quando è comparso. Diciotto metri ci separano dal punto G dell’archeologia, 18 è la quota zero, la soglia dove si perdono i segni dell’umanità comparsa, il fondo del fondo in cui le tracce della grandezza e dell’identità di Roma paiono misurabili, intellegibili, processabili in questo monumentale saliscendi dal contemporaneo al primitivo, lungo la scala, non metaforica, del ritrovamento di ciò che siamo stati. Giungere fino al piano terra dell’umanità non è soltanto una corsa all’ingiù, ma è anche l’esibizione di una tecnica sopraffina, di una ricerca no limits, di risorse economiche, finalmente si può dire, spese per illuminare la nostra identità, ritrovare fin nei dettagli la nostra memoria. Ciò che fummo.

Diciotto metri sotto il piano stradale è il punto dove lo scavo scientifico si è fermato (quello tecnico ha raggiunto i meno trenta), dove gli archeologi hanno finito le escursioni, chiuso nelle teche vasi di cocci e noccioli di pesca, ceneri funerarie, recintato e tutelato stanze militari e caserme, cave di tufo e discariche millenarie.

“UN GRANDE, avventuroso e felice viaggio nel tempo” l’ha chiamato Rossella Rea, curatrice scientifica del progetto. Le ruspe della metropolitana hanno seguito gli archeologi e hanno avanzato solo quando la caccia al tesoro era conclusa, i segni dell’uomo scomparsi. E hanno atteso, e l’attesa che pure è costata alla città, alla fine è stata premiata. È stato rovesciato il metodo di indagine, facendo aprire il varco agli archeologi, e sono state evitate le pratiche distruttive con le quali purtroppo avanzò la linea A della metropolitana…Continue reading

ALFABETO – LETIZIA DI MARTINO: “Queste parole, righe per tenerci compagnia”

letizia-dimartinoLetizia Dimartino aveva 57 anni quando ha incontrato Facebook. Ne ha fatti passare quattro tenendolo a distanza di sicurezza. Poi si è decisa. “Ho preso coraggio, nella mia vita ho amato solo la poesia. Mi son detta proviamo con la prosa”. Oggi ha 64 anni, vive a Ragusa ed è divenuta la narratrice di Facebook. “Sono ammalata, obbligata alla sedia, allo sguardo di una stanza, di un punto di luce, di un angolo di una finestra. E racconto una veduta, un ricordo, un oggetto, una piuma. I miei amici online mi aspettano. Così ogni giorno. Appena posso scrivo. Poche righe per tenerci compagnia”. È divenuta la narratrice istantanea, la scrittrice dell’ora e qui, consolatrice di gatti e finestre, aiutante di campo dell’anima dei navigatori di Internet.

LA BADANTE

Wioleta, prima badante di mia madre, dalla Polonia mette il suo like ai miei post. Ha occhi azzurri e capelli sottili e leggeri di biondo striati. Giovanissima venne da noi, litigava e ci amava. Faceva tanti shampoo e puliva mia mamma, un senso di colpa mia e la sua abnegazione e pure la rivolta necessaria. La sera friggeva patate e mele, in estate si dondolava sulla terrazza, ridevamo e ogni tanto no. Wioleta che adesso ha un figlio bianco e biondissimo. Quando partì trascinava sacche pesanti più grandi del suo piccolo corpo perfetto. E non ci vedemmo più. Fu il nostro tempo.

ALLA FINESTRA

Alla finestra adesso: due ragazzini spingono un passeggino e scendono per una strada appesa ridendo e saltellando. Una donna anziana e grassa sale lentamente aiutata da un bastone, mi pare di sentire il suo fiato a ogni fermata necessaria al riposo. Due uomini con giubbotti smanicati attendono che i loro suv scuri vengano lustrati al lavaggio. La signora in total nero ferma l’auto davanti alla farmacia e incontra un’amica, parlano lisciandosi i capelli e toccando le borse firmate. Un’ambulanza sosta senza sirene. Quattro ragazze indossano magliette aderenti e mostrano i loro ventri debordanti gesticolando e ridendo, le mani a coppa sulla bocca e il capo alto e sfrontato. Striature di nuvole leggere e vetrate aperte. Maggio si presenta in un pomeriggio qualunque. Io sono a letto e ogni tanto mi alzo per cercare di esistere.Continue reading

Il Paese dei senza reputazione che saccheggia quella degli altri

emmanuel-macronQuanto costano oggi le fragole? E la lattuga? E i carciofi? La classe dirigente si comporta come se fosse al mercato sotto casa. Come se le idee fossero cicoria di stagione, mele annurche vesuviane, fragole di Terracina. La frutta è saporita? Il prezzo è buono? Allora compro. Oggi è la volta di Emmanuel Macron, il giovane francese, metà banchiere e metà socialista, En marche! (E.Ma. le sue iniziali) verso il potere. Prezzo di favore anche per un santino appoggiato al comodino di Marine Le Pen, reginetta della destra internazionalista, della sovranità assoluta, teorica del motto tardo-berlusconiano: padrone a casa mia.

LA CLASSE DIRIGENTE in difetto di reputazione cerca di riparare facendo razzia sul mercato estero. Non è storia di oggi. È successo ieri con Obama e la corsa alla photo opportunity; ieri l’altro con Blair e prima con Mitterrand e Kohl. Imponimi le mani, e diverrò come te.

La reputazione è costruzione nel tempo, è sintesi di competenza e passione, autorevolezza e capacità di resistere al gorgo del luogo comune. La forza di accettare la verità e di non scambiarla con la verosimiglianza, l’attitudine al dubbio quando è consigliato e la radicalità nella scelta quando essa diviene urgente e indifferibile.

Una élite senza reputazione non è élite, e parte già da un orizzonte di sottogoverno, dall’idea che con una furbata può dribblare la fatica; che la competenza viene da sé, sorge spontanea come fosse fiore di campo. Furbo di prima scelta è stato Luigi Di Maio che ha accolto – ritenendo che la scaltrezza potesse compensare l’estrema disinvoltura – l’invito di tenere una conferenza a Harvard, il tempio universitario, l’eccellenza per antonomasia. Ha pensato di arrivare al punto più alto partendo da quello più basso, non essere cioè riuscito a laurearsi benché l’età (31 anni), l’intelligenza e le condizioni economiche familiari lo permettessero, e scavalcare tutti quelli che stavano in mezzo, la immensa fila in cui tanti si ritrovano. Harvard come un bollino blu, il certificato di garanzia e di nulla osta universale. Invece se avesse saputo che la furbizia, portata alle estreme conseguenze, diviene una devianza dell’intelligenza avrebbe sicuramente rifiutato, magari con garbo e con un sorriso, l’invito. E avrebbe fatto benissimo perché si sarebbe risparmiato la considerazione banale ma fondata di un cardiochirurgo italiano, anzi salernitano, che ha studiato nella sua stessa università (la Federico II di Napoli) ma con differente profitto. Può dare lezioni uno che non sente come un dovere inderogabile la fatica di apprendere? Domanda anche piuttosto scontata ma sommamente incisiva.

CHI DÀ LEZIONI, chi indica la strada, deve conoscere esattamente dove essa porta. E non può affidarsi al tutoraggio internazionale. Chi ha reputazione la mostra e insegna agli altri. Inutile che Matteo Renzi copi Macron, l’inventore del partito istantaneo, anche perché gli costerebbe la residua fortuna elettorale se domani scoprissimo che anche Emmanuel brancola nel buio.

Da: Il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2017

David Ermini – Mr. Ovvero: “Ci ha fregati il tecnicismo”

david-erminiDavid Ermini, da Figline Valdarno, è l’onorevole Ovvero. “E qui sbaglia, eccome se sbaglia!”

Ovvero?

È stato utilizzato correttamente per segnare una disgiunzione. Testo tecnico ma limpido, efficace, senza possibilità di alcun ragionevole dubbio.

Chissà perché la confusione ha conquistato tutti quanti.

Anche Matteo mi ha telefonato riflettendo su questo gran pasticcio semantico.

Quell’ovvero è stato una jattura.

Allora le dico che il sottoscritto, relatore del provvedimento sulla riformulazione della legittima difesa e responsabile giustizia del Pd, si era adoperato solo per mutare l’articolo 59 della legge in vigore.

Ovvero?

Si era in tema di errore scusabile. Poi Alfano si è incaponito per mutare anche il 52 e la norma corretta è stata licenziata dagli uffici del ministro Finocchiaro.

Il 52, l’articolo della notte.

Si voleva sensibilizzare il giudice nel valutare con attenzione le circostanze di tempo. Durante la notte l’aggredito è più sensibile alla paura, meno avvertito, vigile, prudente.

Quindi di notte il colpo in canna può uscire più facilmente.

Si può sparare anche di giorno se si è nelle condizioni previste dalla legge.

Ma di notte di più.

E dai! Non mi faccia sorridere anche lei. Si tentava di spiegare che le tenebre…

Le tenebre offuscano.

Nelle tenebre la condizione psicologica della vittima, nella fattispecie agente, è decisamente più avvilita.

Aggiunga che fenomeni parossistici accadono quando c’è buio.

Io sono dalla sua parte, purtroppo però le differenze del colpo di pistola sparato col sole o con la luna in cielo stanno producendo un’ironia che conquista anche le coscienze più avvedute e amichevoli.

Vuole che non lo sappia?

Gli amici mi invitano a cena garantendomi che mi lasceranno tornare a casa prima che faccia buio.

L’onorevole Del Buio.

Io sorrido.

Ha la pistola?

Il mio babbo sì, alla sua morte l’ho data via.

Avvocato Ermini, da un avvocato come lei…

Le confermo: tecnicamente ineccepibile la norma.

Nessuna ammissione?

Forse ci siamo fatti fregare dal tecnicismo.

Quell’ovvero ha distrutto un lavoro imponente.

Ovvero come disgiunzione, diamine!

E comunque l’ovvero è farina della Finocchiaro.

Se proprio vogliamo mettere i puntini sulle i.

Da: Il Fatto quotidiano, 7 maggio 2017

Il Bengodi del terremoto: Il paese dei balocchi: 254 anime, 52 milioni

gaglianoAl censimento di due anni fa erano in tutto duecentocinquantaquattro. Ventitré vedove, tre vedovi, cinque divorziati. Bambini sette, ragazzi dodici. “Solo io ho vent’anni in questo paese”, dice Giovanna, dietro il bancone del circolo Arci. Vende undici caffè al giorno, ma la ricostruzione sta dando il suo indotto: “Ora con i muratori al lavoro c’è più movimento, qualche panino in più a mezzogiorno si prepara”. Gagliano Aterno sta provvedendo a riparare i danni del terremoto del 2009 che colpì L’Aquila e giunse anche qui, nella valle subequana, lungo i pendii rigogliosi che guidano la strada all’Aterno, il fiume che conduce l’Abruzzo verso Pescara e il suo mare. Per fortuna in questo borgo non ci furono morti né feriti. Non ci fu bisogno di impiantare prefabbricati. Ma la paura sì, e tanta. Per risarcirla, e suturare le lesioni che comunque il tremolio che rase al suolo L’Aquila qui anche produsse, sono in arrivo 52 milioni di euro. Fanno 204 mila 724 euro a testa, supponendo che dal 2015 a oggi nessuno sia stato accompagnato al cimitero. “Ci siamo assottigliati un altro pochino” dice invece Mario Di Braccio, il sindaco di Gagliano, il paese dei balocchi. “Balocchi in che senso?”.Continue reading