Primarie Partito democratico, caro Marco Minniti non si corre solo quando si vince

Chi scrive questa rubrica non è un accanito fan di Matteo Renzi. E tra i meriti di Marco Minniti vi è quello di non essere un professionista del bla bla bla. Conserva ancora un certo pudore a parlare a vanvera e si vede che tenta in tutti i modi di dire dopo averci pensato. Fa dunque un effetto strano che egli abbia rinunciato a proseguire nella candidatura a segretario del Pd dopo aver scoperto che Renzi non l’avrebbe accompagnato nella corsa e che, anzi, gli avrebbe messo il bastone fra le ruote costruendosi un partito tutto suo. Perché Minniti era stato chiaro: la sua candidatura nasceva per dare un futuro al Pd, per salvarlo dai personalismi e dall’odio, per offrirgli la possibilità di tornare presto al governo esercitando un’opposizione dura e illustrando un’alternativa chiara.

Un partito esiste e resiste a dispetto delle persone che lo animano. Un partito vale più del destino del singolo, proprio come dieci giorni fa diceva Minniti. E se lo diceva dobbiamo immaginare che non fingesse. E se non fingeva perché poi, scoprendo che il suo potenziale supporter non era con lui e magari neanche più nel partito, ha cambiato idea? La revoca della disponibilità a candidarsi invece che offrire il senso di una misura, di un limite, ha il sapore amaro della fuga dalle responsabilità, della retromarcia davanti a un insuccesso possibile. Ma la politica è passione, abbiamo detto. E allora non si corre solo per vincere la gara. Si può persino accettare di perdere se si vuol bene alla ditta.

da: ilfattoquotidiano.it

L’amica geniale. Quando studiare era un sogno e poi un bisogno

Tra i meriti impareggiabili di chi ha scritto “L’amica geniale” e di chi ora l’ha riproposta alla platea infinitamente più vasta e popolare di RaiUno, è di aver illustrato come “studiare” ancor più che una scelta fosse un bisogno. E quel bisogno una necessità, una sorta di difesa civile. Lenù e Lila non sanno cos’è la borsa nera, cos’è la monarchia, il fascismo. E Lenù, napoletana di strada, vede il mare, il suo mare, nel giorno in cui mette piede al ginnasio. Studiare significa dunque difendersi dalle angherie, capire chi sei, dove vivi e la ragione della tua vita grama rispetto a quella ricca e sazia dei tuoi dirimpettai.

La povertà dell’Italia del primo dopoguerra, gli anni cinquanta e i primi sessanta, l’età della trama, segnano un abisso dai tempi nostri. L’alfabetizzazione di massa ha cambiato assetti sociali e stili di vita. Adesso però i laureati sono i nuovi poveri. Questo senso così attuale di inutilità dello studio, della fatica di conoscere (e del piacere di sapere, della forza che il sapere dà) ci sta facendo accettare l’idea che l’ignoranza, se di di massa, divenga ancor prima che una necessità (“tanto laurearsi non dà da mangiare”) una scelta e infine una virtù. La virtù dell’ignoranza che ci porta dritti verso l’età della contumelia, del malanimo, del pregiudizio.

da: ilfattoquotidiano.it

Il sosia nigeriano di Matteo Salvini

Il presidente della Nigeria Muhammadu Buhari ha diramato una nota ai suoi concittadini informandoli di essere vivo e soprattutto vegeto, in forze. La nota dovrebbe servire a eliminare il dubbio social che il presidente sia morto e che al suo posto sia stato messo nottetempo un sosia: “Sono proprio io, non il sosia”, ha spiegato piccato. Non sappiamo se la notizia abbia rinfrancato lo spirito dei nigeriani, quel che conosciamo con esattezza è che al tempo di internet ogni apparenza si fa realtà.

Qualche mattina fa, per esempio, girando per Roma, ci è parso di vedere un tizio, molto simile al ministro dell’Interno, su una ruspa nell’intento di buttare giù le case di alcuni notissimi abusivi della Capitale: i Casamonica. Non era sua la ruspa, non era suo il provvedimento di demolizione, non aveva proprio nulla di cui vantarsi. Quindi abbiamo pensato che fosse un sosia. Invece lui ci ha detto: “Sono proprio io, Matteo Salvini”. Allora abbiamo capito: la Nigeria è qui.

Da: ilfattoquotidiano.it

Di Maio, il silenzio lo salverà

Tra le regole monastiche più preziose c’è sicuramente quella del silenzio. E’ un grande riparo anche per chi ha altre incombenze da affrontare. Prendiamo il caso di Luigi Di Maio. Ha soltanto 32 anni e già deve tener testa ad altissime responsabilità. Facendo il politico ha immaginato che la parola fosse tutto, e perciò ingenuamente ha calcolato che quante più parole avesse liberato la sua bocca, e quante più idee e promesse avesse immaginato di proporre, tanto più il suo status si sarebbe elevato. Non ha purtroppo conosciuto un monaco che gli spiegasse la regola aurea del silenzio. L’avesse incontrato sulla sua strada avrebbe evitato un sacco di guai. Da ultimo, per esempio, non avrebbe ricordato le virtù legalitarie del suo papà imprenditore per poi scoprire in lui il vizietto del lavoro nero. Fosse stato aiutato dal silenzio, non avrebbe urlato le peggiori cose contro l’Unione europea, trovandosi adesso nella difficile condizione di riparare alle urla con qualche scusa. Silenziando la sua favella avrebbe sicuramente rinunciato a promettere l’eliminazione della povertà, così come a immaginare che in tre mesi avrebbe fatto scintillare i centri per l’impiego e in sei mesi avrebbe dato un lavoro ai migliaia che lo aspettano. Avrebbe, nel silenzio, valutato meglio – al tempo della formazione di questo governo – l’azzardo di chiedere l’impeachment del presidente della Repubblica, e scelto con più cura i suoi collaboratori, come anche i ministri e i sottosegretari. Nel silenzio avrebbe indagato le virtù della competenza che impongono di spiegare agli altri la soluzione di un problema solo quando si è sicuri di conoscere il problema.

Col silenzio avrebbe sicuramente evitato epiteti nei confronti dei giornalisti, perché il tribalismo dell’eloquio non fa rima con gli obblighi dell’ufficio. Nel silenzio avrebbe infine difeso meglio la sua reputazione, messa così a dura prova dalla sfrontatezza del suo ingegno, e custodito per tempi migliori la prova che lui è effettivamente migliore degli altri. Si chiuda ora nella sua stanza, rinunci alle televisioni per una settimana almeno, e anche a Facebook e a tutti i consigli di Casalino.

Imponga alla sua ugola una vacanza, un periodo di requie.

Lui ne godrà in prestigio, e noi italiani tireremo un sospiro di sollievo, benché breve.

da: ilfattoquotidiano.it

Minniti e quella vergogna di essere stato comunista

Tra i tanti partiti che ha contribuito a fondare o a dirigere, tra i tanti vessilli grazie ai quali è stato eletto, e ormai da decenni, Marco Minniti, candidato alla segreteria del Pd, dimentica il Pci, la culla della sua militanza giovanile e non solo. Temo sempre che resettare il passato, abiurarlo o esorcizzarlo, nasconda un senso profondo e irrisolto di colpa, l’ammissione di un peccato che poi ha bisogno di un ravvedimento tanto operoso da apparire definitivo.

Se Minniti nega la sua identità è perché vi scorge un peccato così grande da non poter essere neanche narrato. Ma Minniti non sa che chi si vergogna di quel che è stato nasconde anche quel che è.

Non sa, non ricorda oppure fa finta di non saperlo che milioni di italiani (compreso chi scrive) sono stati felici di essere militanti di quel partito, anzi ne sono così orgogliosi da ricordarlo sempre.

Si sono battuti, chiedo scusa se riduco quella passione in uno slogan, per una società più giusta, per una democrazia più larga e solida. E mai hanno dimenticato di denunciare i soprusi, gli atti di imbarbarimento, le violazioni dei diritti di chi nel mondo – storpiando il senso di quella idea – aveva dato vita a regimi illiberali.

Bisogna conservare il vizio della memoria. Solo così potremmo custodire con noi, e per sempre, il vizio della speranza in un mondo un pochino migliore di quel che è.

Da: ilfattoquotidiano.it

Se Matteo Salvini si trasforma in troll

Scegli al mattino, dai verbali di polizia, il crimine che ti fa più comodo, anche se trascurabile, modesto, comune a tanti. Scegli l’autore, preferibilmente immigrato e con la pelle nera, e poi lo lanci nell’iperuranio di internet. Quel singolo reato verrà moltiplicato per dieci, per mille, per centomila volte in altrettanti singoli atti di malaffare. Poi selezioni le attività di polizia e tra le decine di operazioni meritorie che ogni giorno si compiono, scegli quelle legate alla radice politica del tuo impegno: lo sgombero. A patto che gli sgomberati abbiano la pelle nera, siano soprattutto o prevalentemente immigrati. Al modo già illustrato, quell’evento lo lanci nell’iperuranio di internet, nella certezza che venga moltiplicato per dieci, per mille, per centomila volte in altri singoli atti di sgombero.

La realtà prefigurata, alterata nel modo descritto, diviene, col concorso del tempo, la realtà vissuta, l’oggetto stesso della contesa. Non esistendo nella percezione collettiva altri eventi criminosi che questi, altri soggetti pericolosi che questi, altre questioni urgenti che quelle descritte, ogni attenzione sarà devoluta alla soluzione indifferibile e conclusiva di questi problemi, gli unici che meritano – con l’aiuto dei mass media – dibattito e polemica. L’alterazione della percezione della realtà sarà il frutto dell’uso manipolativo della comunicazione, e oggi conosciamo col nome di “troll” individui che in forma singola o associata, in modo professionale o dilettantistico, promuovono questa attività di disinformazione. La domanda, che mi permetto di rivolgere al capo della polizia Franco Gabrielli, la cui fede democratica è indiscutibile, e così pure le doti di equilibrio, di prudenza, di dialogo, è questa: che si fa se scoprissimo un giorno che a trasformarsi in troll era il ministro dell’Interno, cioè il ministro dell’ordine e della polizia?

da: ilfattoquotidiano.it

Raggi assolta, il giornalismo e le sue tribù. Quando i social inquinano il dibattito pubblico

Se il dibattito pubblico si inquina al punto che due esponenti del movimento ora maggioranza di governo come Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio ritengano di poter definire legittimamente “puttane” e “infimi sciacalli” i giornalisti ritenuti colpevoli di aver “massacrato” mediaticamente Virginia Raggipur di provocarne le dimissioni, significa che siamo oltre la misura e che qualcosa di grave e forse irreparabile è già accaduto nella precaria democrazia italiana. Queste accuse sono certo irresponsabili perché lasciano intendere che oramai non ci sia più barriera e pudore nella sfera pubblica, nessuna riserva ad utilizzare un lessico così violento nei confronti di coloro che non sono più ritenuti professionisti al servizio dell’informazione ma congiurati, oppositori, scudieri dell’ancien regime.

Basta dire che è ingiustificabile questa posizione? Possiamo respingere, restituendole al mittente, queste accuse e poi basta?

Io penso che ugualmente noi giornalisti dovremmo interrogarci sulla misura con la quale raccontiamo questo tempo nuovo, sulla continenza che dovrebbe consigliarci di usare i social network, l’arma davvero letale che rischia di annientare noi giornalisti più che il potere pubblico.

Twitter, Instagram, Facebook ogni giorno ci spingono verso forme espressive sempre più cruente. Diciamo la nostra e, a mano a mano che scriviamo, la diciamo sempre più netta, più dura, più inappellabile. Cosicché il nostro diritto a manifestare compiutamente il nostro pensiero, perché prima che giornalisti siamo cittadini e godiamo pienamente delle libertà garantite a tutti (e ci mancherebbe!), a volte si sovrappone al nostro compito, quello di informare, e lo infiltra al punto che le opinioni anticipino addirittura i fatti, corrompendoli definitivamente della loro essenza: cosa è successo, dove è successo, per merito o per colpa di chi.

Intendiamoci: io non credo al giornalismo anestetizzato, e del resto scrivo su un giornale che delle sue opinioni fa bandiera quotidiana. Non credo al giornalismo terzo, non credo alla verità oggettiva, non credo al formalismo narrativo, alla ipocrisia linguistica.

Ma ci deve pur essere una terza via, un modo di scrivere che a volte non ci riduca a gazzettieri e a propagandisti, di una parte o dell’altra, non ci imponga, ogni giorno, giudizi feroci e perentori, assoluti sul mondo intero. Perché siamo noi giornalisti a rischiare di più. Dovremmo essere avvertiti sui rischi del giudizio continuo e compulsivo, di come i social trasformino brave persone in belve umane, aristocratici e stimati professori di economia in frange contrapposte e velenose che si combattono a suon di insulti, e persino scienziati in propagandisti della sera, irosi tuttologi del mondo che c’è.

Noi giornalisti dovremmo dire la nostra senza perdere la trebisonda, senza cioè che la nostra opinione, che abbiamo non solo il diritto ma a volte l’obbligo di manifestare, possa legittimare, neppure lontanamente, le terribili e infamanti accuse che oggi muovono nei nostri confronti Di Battista e Di Maio, per restare solo ad oggi e solo a loro due.

Se lo capiamo presto aiuteremo il dibattito pubblico a ripulirsi almeno un po’ da un linguaggio che si fa sempre più tribale, violento, che insozza la democrazia e non aiuta a capire un bel nulla riducendoci alla considerazione di essere tutti servi di qualcuno.

Da: ilfattoquotidiano.it

Trump, la cacciata del giornalista sgradito e l’abuso di potere in nome del popolo

Il presidente Usa Donald Trump caccia via dalla sala stampa un giornalista della Cnn perché a lui sgradito. Nemmeno sembra più una notizia, ormai abituati alla soverchieria del potere, all’esercizio personale e padronale dell’ufficio pubblico. Quel che più fa paura, che più è indigeribile è che Trump stronca la domanda del collega americano che gli chiedeva conto del suo atteggiamento nei confronti della cosiddetta “Carovana dei migranti”, migliaia di povera gente che dal centro America va dirigendosi verso nord, accusandolo di essere un “nemico del popolo”.

Con queste definizione i regimi totalitari mettevano a tacere il dissenso. I Paesi del blocco sovietico, del cosiddetto socialismo reale, la Cina comunista, i fascismi e le dittature latino-americane. Perciò inizia a farmi paura l’uso così disinvolto e a volte inappropriato che si va facendo, anche in Italia, della parola “popolo”, che sembra oramai lo scudo d’acciaio dietro al quale ogni schifezza si nasconde, si tutela o si legittima: per il popolo, a favore del popolo, in nome del popolo, continuando poi con i suoi derivati (la manovra del popolo, etc). Sarebbe il caso, prima di invocare invano il nome del Popolo, di conoscere e applicare le regole basiche della democrazia che ci ricorda come nel confronto, e naturalmente nel dissenso, essa vivifichi e maturi.

da: ilfattoquotidiano.it

Ici, quel condono perpetuo alla Chiesa

B&B, case vacanza, cliniche, ostelli, scuole. Un patrimonio edilizio che fa della Chiesa di Roma la titolare di una rendita fondiaria immensa alla quale, non si è mai saputo in ragione di cosa, è stata concesso un condono perpetuo. Non ha mai pagato infatti l’Ici sui suoi immobili.

La Chiesa cattolica invece mostra da sempre un attivo interesse per patrimonializzare i suoi beni, agendo sul mercato al pari di altre aziende private. Mette a reddito tutto ciò che può. Finanche la facciata della Scala santa, luogo di pellegrinaggio e di culto, è coperta da un enorme fascio pubblicitario. Paghi, e nel nome del Padre avrai il tuo spot.

Finalmente la Corte di giustizia europea ha dichiarato illegale l’ingiustizia italiana, il principio di diversità secondo il quale c’è chi deve e c’è chi no. I primi calcoli dicono che l’arretrato ammonterebbe a qualche miliardo di euro, addirittura cinque si stima. Sarebbe cosa e buona e giusta se quei soldi, per esempio, potessero venire spesi per difendere la terra, i boschi, le case dalla natura che si è fatta incontinente.

Nel nome di Francesco, che è da sempre il suo Santo venerato protettore, e ora anche il suo Papa.

da: ilfattoquotidiano.it

Tenere in piedi l’Italia prima che ci caschi in testa

Ci sarebbe bisogno di milioni di opere piccole e anche piccolissime e invece la nostra attenzione è sempre e solo concentrata sui miliardi di euro che servono per le grandi opere. E poi dividerci, mentre i miliardi vengono spesi, sulle scelte compiute, sull’utilità di esse.

Cosa ne è del Mose, per esempio, nessuno lo sa. Avrebbe dovuto difendere Venezia dall’acqua alta, e aspettiamo, dopo che qualche miliarduccio è stato speso, di vederlo completato e di capire se sia servito oppure no.

Sapremo domani forse. Per oggi possono bastarci le polemiche sul Tap. Si deve fare! Ecco l’esercito dei Sì che si confronta con quello del No. Che quel No fosse non tanto sull’opera, il gasdotto transnazionale, ma sul luogo in cui debba sbucare è questione che non ci riguarda. Banalmente: sarebbe stato possibile far adagiare il grande tubo in un’area già sottratta all’ambiente, già posseduta dal cemento? Cosa mai sarebbe accaduto se il grande tubo fosse sbucato qualche decina di chilometri più a nord, in prossimità delle aree industriali inquinate e dismesse del brindisino? Sarebbe stata quell’opera anche motivo per bonificare terreni che invece saranno lasciare al loro destino, ai loro veleni.

Le idee muovono le passioni, ma l’ideologismo le ammazza, ci fa vivere sempre dietro una barricata. Decine di studi dimostrano che il Tav è costoso, sovradimensionato, al di sotto dei parametri minimi che assicurano al costo dei benefici corrispondenti. Perché non accettare la logica e comprendere, finché si fa in tempo, che quei soldi possono divenire più utili, maggiormente profittevoli per la collettività, se si investissero altrove?

Avremmo bisogno di una legge che ci obbligasse al consumo zero del suolo. Dovremmo dire: basta così. Ogni energia dovrebbe andare a mantenere ciò che è stato costruito, difendere i beni che sono esposti agli attacchi oramai virulenti della natura. Avremmo bisogno di un piano straordinario di manutenzione straordinaria del Paese. Che sarebbe anche un modo per dare un reddito a chi ne è privo, e cittadinanza a chi – senza lavoro – ha perduto la sua dignità.

Tenere in piedi l’Italia prima che ci caschi in testa. Questa dovrebbe essere l’urgenza.

E invece: si Tap, no Tap, si Tav, no Tav…

da: ilfattoquotidiano.it