Coronavirus, baroni in corsia. Cinquanta prof accettano la “retrocessione”

Un bando di arruolamento straordinario e insolito. Il direttore generale del Policlinico di Napoli, Anna Iervolino, ha chiesto ai professori della Scuola di Medicina e Chirurgia del polo universitario delle più diverse materie di dare la disponibilità a fornire supporto da ausiliari ai colleghi nei corridoi delle malattie infettive dell’ospedale. Cattedratici di fama, come l’oncologo Sabino De Placido, l’ematologo Giovanni De Minno, gli endocrinologi Annamaria Colao e Domenico Salvatore, hanno accettato questa speciale “retrocessione” e si sono resi disponibili ad attraversare le corsie del Covid e affrontare non più da prim’attori l’emergenza.

In tutto, riferisce il Corriere del Mezzogiorno, sono cinquanta i titolari di cattedra che hanno risposto alla insolita chiamata. Noti al grande pubblico come “baroni”, plenipotenziari della sanità in grado di decidere carriere e prebende, e spesso coinvolti, purtroppo a ragione, in storie di intramontabile familismo, cinquanta di essi (il dieci per cento del totale) ha risposto all’appello.

Cinquanta baroni, ora ex, in corsia.

Tra i miracoli che una disgrazia produce, questo è senz’altro speciale.

Da Napoli è tutto, a voi Italia.

Da: ilfattoquotidiano.it

“Voi ci infettate”. La storia triste di tre ragazzi volontari della Croce rossa

Tre ragazzi di Taranto, volontari della Croce rossa, sono appena tornati in città, nella loro casa, dopo sette giornate infernali trascorse in Lombardia. È la loro prima notte di pace, dopo sette giorni trascorsi nell’inferno lombardo. È la loro prima notte di sonno. Due ragazzi e una ragazza convivono nello stesso appartamento osservando scrupolosamente tutte le prescrizioni di distanziamento e isolamento. I coinquilini – accortisi del loro ritorno – bussano con i pugni alla loro porta. Urlano: “untori!”, “ci infetterete tutti!”. “Non ci aspettavamo un grazie, non pensavamo all’applauso. Ma ascoltare quegli epiteti proprio no”, raccontano in un video pubblicato sul sito della Croce Rossa. I tre giovani volontari, simboli di un’Italia veramente solidale e veramente coraggiosa, avevano scelto non solo di soccorrere ma per farlo di mettere a repentaglio la loro salute. Lo hanno fatto in silenzio. Come in silenzio, chiusi nella loro casa (“naturalmente il massimo che facciamo è affacciarci al balcone”), erano quella sera, in procinto di riposare finalmente.

Invece il rumore della cattiveria, di una crudeltà che solo l’uomo sa far provare, li ha svegliati e inchiodati al loro reato: essere stati troppo generosi e coraggiosi e audaci. Dunque dei piccoli, anonimi eroi di questo tempo doloroso.

Da: ilfattoquotidiano.it

Fontana&Gallera, il duo della spocchia

Al liceo avevo, tre file avanti a me, un compagno di classe che – finita la lezione – ci spiegava quanto era stato bravo. Quanto bravo e, modestamente, anche un pochino più sveglio di noi. Perché lui studiava e sapeva. E dunque: professore posso rispondere io? Ricordo con enorme disprezzo quel ditino perennemente alzato. Oggi, nel tempo sospeso di questa ecatombe sociale, rivivo quel film grazie alle quotidiane prestazioni del presidente della regione Lombardia Attilio Fontana e del suo assessore al Welfare Giulio Gallera. Ogni giorno, verso le cinque del pomeriggio, ci ricordano come sono bravi ed efficienti e rigorosi. E come seno bravi i lombardi, e quanto sono generosi. E quanti amici hanno nel mondo: grazie ai loro amici che hanno le mascherine i ventilatori e ogni altra cosa. Fosse stato per l’Italia, addio vita.

Fontana&Gallera sono quelli del ditino alzato. E ogni giorno alle cinque mettono in riga tutti. I ministri, il presidente del Consiglio, il Parlamento. Fontana&Gallera sono i perfetti interpreti del “so tutto mi”, sono quelli che se le cose vanno bene è merito loro, se vanno male è colpa degli altri. I due del ditino alzato hanno fatto il possibile e l’impossibile. Gli altri? Solo guai. Per fare prima degli altri, e naturalmente meglio degli altri, hanno inaugurato ieri, con una fanfara tipica delle feste nazionali, un ospedale che andrà in funzione tra sette giorni. Sette giorni, in questo momento, valgono sette mesi. C’era bisogno di tutte quelle trombe? L’avessero aperto in silenzio chi se ne sarebbe accorto del miracolo lumbard?

La Lombardia sta vivendo una tragedia terribile. Non era preparata ad affrontare anche il ciclotimico duo della spocchia.

Da: ilfattoquotidiano.it

Coronavirus, la spedizione albanese. La lezione della memoria

Donare una fetta di prosciutto per chi ne possiede solo altre tre nel frigo è un atto di generosità incomparabile rispetto a chi compie lo stesso gesto avendo però in cantina un prosciutto intero.

Perciò i trenta medici e infermieri che il governo albanese ha inviato in Italia per aiutarci a vincere questa guerra ha il sapore di un sacrificio rilevante, di un gesto di particolare e intensa solidarietà. E le parole del premier Edi Rama, in un italiano così pulito e elegante, che in un video accompagnano questa spedizione, paiono piene di una sincerità insospettabile, di una amicizia profonda. “Non siamo ricchi, ma non siamo privi di memoria”, dice Rama ricordando che migliaia e migliaia di suoi connazionali hanno trovato ospitalità, lavoro e una nuova vita in Italia.

Gli ospedali albanesi non hanno le risorse tecnologiche dei nostri centri, i medici albanesi non godono delle competenze e del supporto su cui possono contare i loro colleghi italiani. La società albanese, ancora in larga parte priva delle protezioni sociali che noi conosciamo, non può contare su un sistema sanitario capillare come il nostro.

Eppure trenta dei loro medici e infermieri, preziosissimi in tempi di pandemia in un Paese che ha risorse umane limitate, sono qua per dimostrare che la memoria regala una grande lezione di civiltà.

Da: ilfattoquotidiano.it

Coronavirus, faremo altri errori. Se riusciremo a costruire la società del rimedio

Tra le tante necessità che abbiamo una supera tutte: quella di sbagliare in fretta. Davanti al mistero di questo malanno che conduce alla morte tanti, possiamo soltanto avanzare per approssimazione.

Se è vero che stiamo sperimentando un evento mai sperimentato, è chiaro che gli errori successivi a quell’evento saranno tanti. Ha ragione Alessandro Baricco: la nostra capacità sarà quella di sbagliare il più velocemente possibile. Di capire in tempo l’errore dov’è, e di trascinarlo via dalla nostra operazione quotidiana.

Esempio 1: Il commissario per l’emergenza Arcuri ha capito che le dotazioni per la protezione individuale non arrivano ai sanitari nello stesso momento. Coloro che vivono in città vicine ai grandi centri di smistamento ricevono mascherine e tute prima dei colleghi che operano lontano da quei centri. Rendere indifferente la distanza sarà una grande conquista.

O ancora: abbiamo fatto bene o male a chiudere quasi tutto? Esempio 2: Per quanto tempo ancora saremo in grado di reggere lo stress non solo sociale ma anche economico? Chiudere l’Italia per un altro mese creerà più tensioni o le diminuirà? Avremo più sicurezza? Capirlo in tempo, capire se stiamo facendo la cosa giusta e capirlo più in fretta possibile.

Si dirà: la fretta è cattiva consigliera. In questo tempo, e in quello che ci aspetta, dovremo riuscire a sovvertire il motto. Essere più veloci senza essere temerari, avventurieri. L’unica soluzione che abbiamo è di sommare le nostre forze, cioè le nostre intelligenze. Capire che l’intelligenza collettiva, quel che sai fare tu e quel che so fare io, se sommata ci renderà meno stupidi, o meno superficiali, o solo meno prede della paura. Facendo così ridurreremo il margine di errore. E quindi: meno errori, meno problemi. Provare per credere.

Da: ilfattoquotidiano.it

Coronavirus, alla guida della macchina dei soccorsi giovani zero. Solo anziani

Il virus attacca maggiormente gli anziani, gli ultrasessantenni. Ma la prima linea del fronte che deve respingere l’attacco è formata da ultrasessantenni.

Questa grande epidemia ci fa conoscere ancora di più come l’organizzazione della macchina dei soccorsi, la gerarchia del potere a livello periferico, escluda i quarantenni e i trentenni da ogni responsabilità di rilievo. Regioni e ospedali sono, quasi esclusivamente, nelle mani degli anziani.

È insieme un problema e un paradosso.

Il problema è quello di sempre: non riuscire a innestare nel grande corpo burocratico dello Stato e nelle sue diramazioni periferiche, le passioni, le capacità e le competenze di chi ha meno di cinquant’anni. Il paradosso è che invece a livello centrale la classe politica propone una leadership assai più giovanile. Il premier Giuseppe Conte, il più anziano, ha 55 anni. Più giovani di lui sia Zingaretti che Di Maio, per non dire di Salvini, di Renzi e della Meloni.

Invece facciamo fatica a scorgere tra i presidenti di Regione loro coetanei. Eccetto Bonaccini, il presidente dell’Emilia Romagna, tutti avanti con l’età. Un generale in pensione in Lucania, un signore assai attempato in Lombardia, e così l’Umbria, il Molise, la Sicilia, il Piemonte, la Campania per citare solo i governatori più stagionati. E tra le decine di volti di scienziati, primari, direttori delle unità intensive, responsabili delle Asl, manager pubblici, pochissimi sono i quarantenni. Si dirà che gli incarichi di responsabilità prevedono un cursus honorum, ma è evidente che esiste una distorsione, un’incapacità e anche un atto culturalmente ostruttivo verso la promozione delle giovani leve.

L’Italia ha dimostrato di avere tanti ragazzi su cui contare. Molti di essi, guarda un po’, sono “fuggiti” per guadagnarsi altrove la responsabilità che qui veniva loro negata specialmente nel sistema sanitario pubblico e nelle università.

E in queste tragiche giornate la grande ingiustizia diviene quotidiana prova visiva.

Non può essere che i giovani siano solo i barellieri.

Da: ilfattoquotidiano.it

Coronavirus, se a Milano arrivano i comunisti

Tra ieri e oggi tre distinte missioni internazionali sono atterrate all’aeroporto di Malpensa. Prima i cinesi con le mascherine e i presidi sanitari, poi i russi con virologi e ventilatori, infine i cubani con la brigata internazionalista di medici esperti nell’emergenza.

Doveva essere la Lombardia, terra degli artigiani, dei padroncini, delle partite Iva, il popolo che ha costruito il successo delle Lega, il popolo che urlava contro “Roma ladrona!”, la terra che ha innalzato prima la bandiera della secessione, poi quella del federalismo infine dell’autonomia differenziata, a dover fare i conti con la realtà.

Oggi che chiede l’aiuto trova al suo fianco proprio quella che una volta chiamava Roma ladrona. Sono 7923 i medici volontari, moltissimi meridionali, che hanno risposto alla chiamata della Protezione civile, pronti a raggiungere i loro colleghi negli ospedali di Crema, Bergamo, Brescia, nelle campagne del lodigiano, nella Val Seriana. E in questa drammatica crisi il Sud Italia, com’è giusto che sia, riceve e cura i malati che non trovano più posto negli ospedali lombardi, stremati da una epidemia così violenta e inaspettata.

Arrivano dunque a Milano altri meridionali e soprattutto i comunisti. I cubani, paese che ancora soffre dell’embargo dell’Occidente, e quelli cinesi, i nemici eletti dei lumbard.

La storia si fa beffe di noi, e la realtà complica e destabilizza le nostre convinzioni. La catastrofe che si è abbattuta sull’Italia la costringerà a fare i conti con i suoi egoismi e le sue ossessioni.

Tra le cose buone che accadranno è che dovremo rinunciare a puntare l’indice e a dividere il mondo tra buoni (naturalmente noi) e cattivi (quasi tutti gli altri). Non è più così.

Da: ilfattoquotidiano.it

Contabilità funeraria. Chi muore dove trova la morte?

Ogni sera a quest’ora (sono le sei) tanti di noi s’affacciano al computer per la consueta, tremenda contabilità funeraria. Chi ci ha lasciato oggi? Quanti di noi non ce l’hanno fatta? Quante famiglie stanno piangendo e quante lacrime ancora dovremo versare? Facendo il giornalista mi sono però incuriosito a due dati che ogni giorno, dall’inizio dell’epidemia, riporto nel mio quadernetto. I numeri dei decessi e quello dei nuovi arrivi in terapia intensiva. Noto, purtroppo, una costante: i primi sono quasi sempre un multiplo dei secondi. Esiste cioè una enorme differenza quantitativa tra i decessi e i nuovi arrivi in terapia intensiva. Trascrivo, per esemplificare, solo l’ultimo, quello riferito pochi minuti fa dalla Protezione civile: in Italia abbiamo avuto ieri 627 morti. Il picco, la cifra più grande e più tragica da quando questa brutta storia è iniziata. Bussano oggi purtroppo alla porta della terapia intensiva in altri 168. Finora il conto complessivo, ancorché parziale, di questa tremenda contabilità è di 4032 decessi e 2655 ricoverati in terapia intensiva. Se tutto fosse come supponiamo, e cioè che i deceduti sono stati curati fino all’ultimo stadio, quello della rianimazione o della terapia intensiva, avremmo, e faccio riferimento al bilancio di ieri, 459 letti liberi da stasera. 459 rappresenta la differenza tra chi lascia la vita e chi invece arriva nel punto estremo per tentare di sopravvivere. Ma perfino la metà di questa orribile disponibilità, ritenendo che tanti decedono a casa e tanti altri magari in una affollata corsia, renderebbe meno pressante l’urgenza di acquisire questi macchinari salva vita. Invece da tre settimane non si fa altro che parlare della necessità dei ventilatori, della assoluta urgenza di realizzare nuovi posti di terapia intensiva, del fatto che alcuni ospedali, come quelli lombardi, provatissimi dall’epidemia, non abbiano più dove mettere i malati gravi. E non c’è dubbio che è la dura realtà. Ma allora coloro che muoiono dove trovano la morte? Mi verrebbe di rispondere d’impeto , ma tremo al pensiero che sia così.

Da: ilfattoquotidiano.it

Coronavirus e l’ospedale Cardarelli: quanto vale una stampa libera?

In tempo di pandemia c’è un solo luogo indispensabile, un solo posto di lavoro che non si può lasciare, una sola casa da presidiare: l’ospedale. I medici italiani, e con loro gli infermieri, i portantini e ogni altro addetto, si trovano ad affrontare una situazione di emergenza. E alcuni di loro, con gesti di assoluto eroismo, hanno pagato e stanno pagando con la malattia e addirittura la vita la dedizione, l’impegno.

Un vigile del fuoco sa che deve affrontare l’incendio, un medico è consapevole che la malattia dell’altro sia il destino a cui far fronte. E l’infermiere, la ferrista, la caposala sanno che il loro impegno è insostituibile.

Perciò è più doloroso vedere alcuni casi di assenteismo come quello del Cardarelli. Chi si assenta produce un danno gravissimo al collega e a chi si ammala. Diserta nel tempo in cui proprio non deve. E’ una colpa doppia, una responsabilità aggiuntiva.

La stampa, se è libera, autorevole e indipendente, ha il dovere di denunciare i fatti. E le istituzioni hanno l’obbligo di non minimizzare né confondere. Dire che è falso il dato dei 249 medici assenti al Cardarelli di Napoli è un modo per confondere e non per chiarire. 249 – secondo la denuncia del capo del Dipartimento per le emergenze dell’ospedale medesimo – sono gli operatori sanitari, e tra di essi ora sappiamo dei 33 medici a marcare visita. Forse che in corsia il medico non ha bisogno dell’infermiere?

Una stampa libera che denuncia aiuta l’ospedale a controllare. E se l’ospedale controlla, allora la lista dei furbi si accorcia e la prima linea sarà più folta, le cure più tenaci e appropriate.

Avremo tutti da guadagnarci, vero?

Da: ilfattoquotidiano.it

Le verità che non ci diciamo

C’è l’epidemia ma non va in vacanza la stupidità, la dabbenaggine, l’ambiguità del dire e poi negare.

Lo stupido o anche il cialtrone si chiedono, per esempio: come è possibile che siamo un modello per l’Europa se contiamo 2500 morti, una carneficina che non finisce mai? Lo stupido, anzi il cialtrone, non sa o non dice che questa cifra sarebbe salita di tre volte, forse di quattro, se non avessimo avuto un sistema sanitario che in Lombardia è una eccellenza riconosciuta e confermata. Senza la qualità delle cure, la prontezza delle cure, il sacrificio di chi ha curato la catastrofe avrebbe assomigliato a una ecatombe. Chiaro?

E già che ci siamo vogliamo chiarire una volta per tutte che questo incendio che sta consumando le resistenze degli ospedali è stato agevolato da decisioni improvvide, intempestive, ingiustificate? La Lombardia è stata flagellata più dal virus o dalla corsa a riaprire tutto nei giorni immediatamente seguenti al focolaio di Codogno? Chi ha imposto al governo di alleggerire, normalizzare? Gli imprenditori, anzitutto quelli lombardi. E gli amministratori, anzitutto quelli lombardi. E’ una verità, e la dobbiamo dire.

Decine e decine sono i medici e gli operatori sanitari contagiati. Perché ai servizi più esposti non è stato deciso di fare controlli preventivi e una tracciatura quotidiana? Misure di autotutela più severe. Dovrebbe rispondere l’Istituto superiore di sanità che ha indicano le linee guida e i protocolli da seguire. Rispondere con verità alla verità.

Infine: le Asl: stanno svolgendo il proprio dovere con efficienza? Sono una rete di protezione per i cittadini? Rispondono alle nostre chiamate? Giungono laddove c’è necessità di un aiuto medico, presidiano, proteggono? No.
La verità costa. Ma di lei non possiamo più fare a meno.

Da: ilfattoquotidiano.it