LA QUERELA È A CAVOLO, MA IN NOME DEL POPOLO

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Il politico brandisce la querela come il guerriero la spada. È insieme difesa e attacco, intimidazione e tutela, finzione e realtà. La querela è una tipica attività d’azione per la quale e nella quale l’uomo politico si concede anche una pausa fantastica. Nel senso che nella querela prima si crogiola poi – esaminati gli effetti collaterali – si atterrisce. Infine rinuncia, ma in silenzio. Oppure l’annuncia ma non la fa. Invece è molto galvanizzante, anche se spesso dagli esiti incerti, la querela in nome del popolo disonorato, della città discriminata o vilipesa o mortificata. Il sindaco si fa santo patrono e lancia la sfida, cioè la querela. Ora qui non siamo a discutere dell’estetica linguistica di Giletti né del suo pensiero che allinea Napoli alla puzza (rendendo così un po’ puzzolente più che la città la propria riflessione). Per quanto sgradevole, il suo è un giudizio. Possiamo discuterne, naturalmente dissentire (oppure perfino acconsentire), ma querelare no. Chi scrive si trovò a fronteggiare tempo fa una querela di un sindaco di Messina che pensò di risolvere in tribunale l’inabilità sua e delle amministrazioni che l’avevano preceduto a rendere decente la vita dei propri cittadini. Avevo detto che quella città appariva una cloaca a cielo aperto, volendo naturalmente denunciare le troppe abitazioni ancora prive dei servizi minimi essenziali come le fogne. Il sindaco fece il pesce in barile e intese come offesa alla città quella denuncia, chiedendomi un risarcimento milionario. Risultato? La contesa è giunta fino in Cassazione: cloaca e nessuno s’offenda. Al più si vergogni. Tornando a Napoli, De Magistris sembra a suo agio quando fa il capo tribù. È un populista devoto e questa querela appare un po’ ad capocchiam.

Da: Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2015

La scommessa di Alfio: “Io, unico argine a Grillo”

alfio-marchiniIl primo sindaco del partito della Nazione sarà lui. Un metro e ottantanove centimetri per settantanove chilogrammi di peso, per sei anni (2003-2010) il giocatore di polo non professionistico più forte al mondo. Lui è Alfio Marchini, cinquantenne, l’imprenditore romano che sul cemento e dal cemento – il cemento unisce –avanza come interprete della politica del fare, il verbo che cuce amabilmente il ventennio berlusconiano con l’età renziana. Lui dice: “Di qua noi, di là i cinquestelle”. La joint venture tra Pd e Forza Italia che la ministra Beatrice Lorenzin ipotizza per far fronte alla   “deriva”grillina nella quale potrebbe essere trascinata Roma, capitale d’Italia e sede del Papato, simboli di una crisi drammatica e contestuale, è alle porte.

ALFIO GONGOLA: “Già tre anni fa immaginavo, appena ho messo piede nel campo della politica, che avesse al centro un confronto democratico tra il movimento di Grillo e un movimento che sapesse coniugare civismo e ideali, bandiere della nostra storia e modernità. Siamo adesso giunti al punto di svolta, bisogna sostituire al consociativismo un nuovo bipolarismo: noi da una parte, i cinquestelle dall’altra”. È più di un patto del Nazareno in versione capitolina, è la formula che dà concretezza a quel vettore politico che può coniugare gli interessi del centrosinistra e del centrodestra, risolvere le antitesi e arrivare alla sintesi: il potere. “Quel patto del Nazareno ha miseramente fallito a Roma. Sarebbe un onore per me essere considerato uno che può aggregare, anche se sento forte la puzza di un trappolone. Essere l’unico candidato in campo è un oggettivo rischio del tiro a piccione. Siamo al punto che persino la nomina dei sub commissari, che devono traghettare Roma alle elezioni per qualche settimana, diviene un parto difficile. In queste condizioni i falchi si avventano su di me, ma io rassicuro tutti: non userò le sigle politiche come taxi. Continue reading

ALFABETO – RICCARDO PADOVANI. Il Mezzogiorno è un malato dimenticato in corsia

riccardo_padovaniRiccardo Padovani guida la pattuglia dei ricercatori della Svimez che indagano sul Mezzogiorno. Come medici su un corpicino agonizzante, pubblicano a data fissa il bollettino dell’incurabile. Cifre, diagrammi, analisi. Sempre brutte, sempre all’ingiù (tanto che un ex viceministro berlusconiano, il palermitano Gianfranco Micciché, storpiò il nome. La chiamava “sfighez”).

La discussione sull’incurabile dura meno di 24 ore: appena un accenno ai tg, un’intervista afflitta a un politico di passaggio, in genere di seconda o terza fascia, un colpo di tosse e via con un’altra notizia. Arrivederci tra sei mesi. Insomma, se non ci fosse la Svimez neanche esisterebbe più il Sud.

 

Padovani, ma non le viene lo sconforto di abbaiare alla luna?

Non mi sconforta, mi dispiace eccome però. Credo che negli anni la Svimez abbia non solo analizzato la realtà, ma dato una risposta a come si può aiutare il Sud, perché conviene a tutti che il Mezzogiorno si avvicini agli standard del Nord. Indichiamo dove bisogna investire, e per fare cosa.

Iniziamo dalla fornace dei luoghi comuni sul Sud.

Che il Sud abbia più aiuti pubblici rispetto al Nord è un falso storico. Ne ha molti in meno. Come di meno, in rapporto alla popolazione, sono i dipendenti pubblici. E un altro grandioso falso è che il Nord sia la locomotiva e il Sud stia al traino. Se cresce il Mezzogiorno cresce tutta l’Italia.

L’inverso invece è manifestamente infondato.

Il Sud non ha più una banca, nemmeno una televisione e neanche un giornale che si legga anche a Milano.

Gli ultimi quattro presidenti del Consiglio sono nati al Nord.

Aggiungo che la rappresentanza governativa meridionale (metto dentro ministri e sottosegretari) è scesa dal 33 al 4 per cento.Continue reading

ALFABETO – VITO MANCUSO, teologo. Il tempo al contrario: un Paese papista senza religione civile

A Roma neanche la Chiesa è santa, figurarsi il resto. Quel resto siamo noi.

C’è un quid che ci manca: si chiama religione civile. Il teologo Vito Mancuso ne parlò diffusamente ancor prima che declinasse il pantheon berlusconiano. E spiegò che anche un nostro tratto antropologico, la scaltrezza, la condizione di assestare il passo dove meglio il piede potesse proteggersi, si andava dilatandosi fino a divenire costante ed estrema furbizia. Alla fine della giostra però la furbizia diviene null’altro che devianza dell’intelligenza.

vitomancusoEra il 2009 quando lei ne scrisse. Nulla è cambiato.

Non facciamoci illusioni, sono condizioni che non si colmano certo in un lustro. La religione (da re-ligio) è il senso di collegamento, di appartenenza, un legame fortissimo con qualcosa di più grande. Come cittadini è la disposizione della mente e del cuore a essere parte di qualcosa di più grande di noi stessi.

Perché siamo così?

Perché siamo divenuti italiani troppo tardi. Perché siamo figli di uno Stato che si è unito solo da pochi decenni, ha subìto la frammentazione, è stato ostaggio di domini potentissimi, non ultimo quello dello Stato Pontificio.

E siamo alle colpe della Chiesa.

La religione cattolica, a differenza di quella ortodossa e protestante molto votate alla identità nazionale e anche di più, ha preteso di essere l’Assoluto in terra e i fedeli hanno individuato la Chiesa come un succedaneo dello Stato, sovrapponendo l’una a discapito dell’altro: la comunità ecclesiale, il Regno dei cieli.

Poi la politica ha fatto il resto.

In Italia è stato sempre fortissimo il filone socialista e comunista. Non è un caso che nelle loro riunioni si cantasse l’Internazionale. E non è un caso che la parola Patria fosse intesa come una parolaccia e il senso nazionale vanificato sistematicamente.

E infine ci siamo noi italiani a completare l’opera.

È indubitabile che la natura dell’italiano sia individualista, e che questo carattere si mostri ancor più decisamente scendendo da Nord a Sud. Non c’è misura tra il senso di compattezza e unità del popolo tedesco rispetto all’italiano. Ma uguale differenza risalta anche se il raffronto è fatto tra un trentino o un piemontese e un siciliano.

Quanto ci costa essere individualisti?

Ci accreditano di essere un popolo di notevole intelligenza. Molto creativo con punte di genialità davvero non comuni. Ed è tutto vero. Però malgrado questa forza è l’uso distorto dell’intelligenza a farci affondare. Quando l’intelligenza diviene furbizia sistemica e di massa allora sono guai.

Troppo furbi. Un suicidio collettivo dell’etica.

La misura esorbitante della furbizia produce il caos, un divenire caotico della nostra vita. L’intelligenza vede quel che vuole vedere. Esiste il primato della volontà. E noi selezioniamo scientemente. Rifiutiamo il collegamento all’idea madre, a un qualcosa di più grande che ci unisca e ci faccia sentire comunità.

Individualisti, furbi e devotissimi.

Ma spesso la religione sconfina nell’intimismo, il credo si fa superstizione. È il sintomo di una religione immatura, così distante dalla predicazione di Gesù. Beati i perseguitati per la giustizia, per la loro voglia di vedere affermato il diritto. E che dire dei profeti? Per tutti si legga Isaia: “Quel che voglio è che il diritto non venga calpestato”. Invece esiste un senso comune diverso, differente.

Quel che succede in queste ore in Vaticano conferma il senso comune: non può esistere rigore, diritto, pulizia. Ma soltanto il rovescio, lo sporco.

Roma è l’emblema di questa incapacità di credere ai grandi ideali. La città santa è divenuta la città cinica, disillusa, tradita. Del resto la storia del papato è contrassegnata dalle stagione dei corvi. La storia ci offre casi a ripetizione: da papa Formoso alla papessa Giovanna, ai Borgia, fino ai giorni nostri…

Una stagione infinita di corvi.

Ora l’opposizione a Francesco è così visibile e la notizia del male al cervello è così simbolica. Il cervello ci guida e se si ammala si produce un processo di cancellazione, di lacerazione del tessuto. Ma la lacerazione è l’esatto contrario della religione. Mi aspettavo questo epilogo.

Se lo aspettava?

Assolutamente sì. Significa che Francesco sta duramente provando a cambiare la Chiesa, a trasformarla. Ogni azione di rinnovamento produce opposizione, al Concilio si creò lo scisma lefebvriano. Ora siamo di nuovo al punto, al bivio.

 

Da: Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2015

Nencini difende le donne ma caccia la collaboratrice

Il viceministro dei Trasporti ha presentato tre disegni di legge per garantire i diritti ai lavoratori, specie le precarie in rosa. Ma non applica il Jobs act

riccardo_nenciniC’è sempre da imparare da chi fa le leggi. E dunque ecco qua la lettera che il legislatore, uno dei magnifici mille o poco meno chiamati alla guida della Patria, scrive a una sua collaboratrice. È una missiva d’addio, una lettera di licenziamento, raccomandata con avviso di ricevimento datata ottobre di quest’anno. Lei, non più giovane e non più alle prime armi, svolge l’attività di collaboratrice a progetto, l’ipocrita dicitura con la quale si chiede il lavoro negando i diritti. È una fatica quotidiana che svolge negli uffici dei gruppi parlamentari di palazzo Madama, e che finora si rinnovava periodicamente. Però alla “Gentilissima Signora” il presidente di gruppo che qui non si cita per non creare disagio e un ulteriore problema alla licenziata (che per vedersi liquidate le spettanze ha dovuto sottoscrivere un impegno alla totale riservatezza di quanto le stava occorrendo), spiega candidamente l’intenzione di recedere dal contratto anzitempo. Scadeva in aprile ma dobbiamo troncare la relazione subito, già in autunno. Il datore di lavoro recede perchè lei è scansafatiche? Perchè fa la furba con l’orologio? Perchè è incapace? Perchè flirta con l’opposizione? Nient’affatto. Il legislatore che qualche mese fa aveva approvato il Jobs Act ora prende nota con disperazione che quella legge prevede dal prossimo gennaio l’entrata in vigore di una disposizione secondo la quale i contratti a progetto “subiscano l’automatica trasformazione in contratti di lavoro subordinato”.Continue reading

ALFABETO – MARINO NIOLA. Dimmi che cosa (non) mangi e ti dirò chi sei

marino_niolaDa Feuerbach agli scontrini del ristorante di Ignazio Marino. Il filo che ci condurrà dal filosofo tedesco alla tavola su cui l’ex sindaco di Roma ha immolato la poltrona è il cibo, vanto collettivo e ossessione del nostro tempo. L’antropologo Marino Niola tiene al Suor Orsola Benincasa di Napoli anche un corso su Miti e riti della gastronomia contemporanea, ed è un grande studioso della civiltà del mangiare.

Dimmi ciò che mangi e ti dirò chi sei.

Non aveva torto Feuerbach. Il cibo è identità di un popolo, compone e ricompone l’u m anità, restituisce all’uomo il corso del suo divenire. Il cibo scandisce le epoche, segna i processi di avanzamento della nostra civiltà.

Il pollo e l’emancipazione delle donne.

Fino alla Seconda guerra mondiale il cibo era diviso sulla nostra tavola in misura diseguale. Al marito toccava la porzione di pollo più gustosa e pregiata, il petto o le cosce. I nostri nonni ricorderanno. Alla donna era riservata l’ala, il piede: il principio della sudditanza, della marginalità, della esclusione. E infatti solo in gravidanza le era permesso di mangiare cibi altrimenti preclusi, e bere bevande a lei proibite. La birra, ad esempio, perchè fosse più abbondante il latte materno. Era un premio non a lei ma alla sua condizione di generatrice.

Il cibo come gerarchia sociale e anche come elemento di polemica, idioma della separatezza.

La polenta ha diviso l’Italia. Polentoni contro terroni. E le patate hanno segnato il destino dei tedeschi: mangiapatate (e i loro appellavano i francesi chiamandoli mangiarane).

Oggi però subiamo il fascino del cibo fino a divenire vittime di una ossessione. Continue reading

CEPU – Addio all’università che laureava tutti col sorriso dei vip

testimonial-cepuAnche il Cepu sta per lasciarci e il suo mondo sempre col sole in tasca improvvisamente si spegne. In metro o al supermercato, in fondo alla piazza, per strada, davanti alla chiesa, dietro alla chiesa. Per anni nessuno di noi è mai potuto mancare all’appuntamento con l’università della felicità, al suo cartellone eterno e la promessa divina: chiunque avesse voluto avrebbe potuto laurearsi. Senza lacrime, senza patemi, senza sudore. Al mille per mille ce l’avrebbe fatta. “Bravi si diventa”, fu il potentissimo slogan.

IL CEPU ALLENAVA dunque all’ottimismo dal Piemonte alla Sicilia, e se c’erano i quattrini, perché i corsi di preparazione universitaria purtroppo costicchiavano, nulla era precluso. “La prima cosa che mi è venuta in testa di fare al momento di iscrivermi all’università è stata quella di andare al Cepu”, affermò la pattinatrice Carolina Kostner. Malgrado gli impegni sportivi, la vita da giramondo, le ore impegnate nell’allenamento, Carolina, grazie a Cepu, riuscì a superare cinque esami in un anno, e tutti meravigliosamente. Venne subito ingaggiata come testimonial, e il matrimonio pubblicitario durò a lungo. Anche Alex Del Piero scelse Cepu. Mai un esame dato, ma un suo sorriso d’incoraggiamento sì. Due anni durò il contratto. “Abbiamo poi scelto un’altra linea”, spiegò il suo manager quando il fantastico Alex lasciò i libri in cantina e si diresse in cucina, a bere e far bere acqua minerale.

Il Cepu è dunque stata la navicella spaziale, la piattaforma di lancio di chi voleva toccare il cielo con un dito, subito e senza sforzo. Il suo patron Francesco Polidori comprese bene e meglio di altri la dimensione della ruggine che gli italiani avevano con gli studi, l’impegno quotidiano, la fatica di leggere e rileggere. E allora scelse di presentarsi con una pubblicità quotidiana, assillante ma convincente: lui ingaggiava mister sorrisi e non professori carogna. Nel giro di qualche anno l’universo Polidori diventò scienza dell’apprendimento a bassa intensità di sudore. Cepu fu presto messa al centro di una costellazione che, per i somari o solo sfortunati, partiva dalle scuole superiori. Con Grandi Scuole infatti si potevano superare anche prove difficilissime, farsi furbi e ottenere il massimo col minimo, infilare due, tre anni di studio in uno soltanto. Acquisì anche Radio Elettra, la scuola di formazione giovanile di Umberto Bossi. Ce l’aveva fatta Bossi e insomma chiunque avrebbe potuto mettere la freccia e scattare verso il diploma. Bravi si diventa, hanno garantito sia Vittorio Sgarbi che Valentino Rossi. E infatti, col tutor Cepu a tracolla si poteva poi serenamente affrontare l’università.Continue reading

Sabrina Ferilli L’attrice romana promette: “Se Marino rimane, resto al suo fianco e ballo il tango per una notte intera. Forse è inadeguato, ma non mafioso”

sabrina_ferilliSe Ignazio Marino ci ripensasse, se facesse delle dimissioni una pallottola di carta e la puntasse contro chi adesso esulta, se queste dimissioni le rifiutasse nel modo che sa, con la bizzarria di cui è capace, mi farebbe felice. Anzi di più: diverrei una sua fan, ballerei il tango per una notte intera. Lo rivoterei alle prossime elezioni. Perché Marino è quello che è, ma quegli altri sono iene a cui non frega nulla di Roma. Avevano bisogno di una preda, hanno ordito un agguato”.

Sabrina Ferilli, secondo lei Marino chi è? Anzi cos’è?

Un uomo inadeguato, è figlio di questo tempo e partecipe dei successi di questa nuova classe dirigente che fa dell’apparenza la propria cifra, l’essenza dell’esistenza. Il sindaco di Roma c’è stato sempre nelle belle notizie, pronto a mettere il suo sorriso davanti all’aiuoletta pulita, a spumeggiare di felicità nella celebrazione del matrimonio tra gay, ad annunciare ora la pedonalizzazione, ora la moralizzazione, ora la bonifica. Con gli annunci oppure in compagnia delle belle notizie lui è sempre stato presente. Con le brutte, con i Casamonica re di Roma, è andato ai Caraibi.

Fugge dal dolore?

Fugge dalla vita vera. Fugge esattamente come Matteo Renzi, il capostipite di questa mejo gioventù. Ieri Roma bruciava e il premier era con le eccellenze emiliane. Sempre pronto e in prima fila alla partita di tennis, in ultima quando deve avere occhi per gli ultimi. So’ uguali uguali. Ma Marino ha un atout che Renzi non può permettersi di vantare: è fuori dalla fanghiglia del potere dei predatori, di coloro che adesso contano le bottiglie di vino, se la moglie ha mangiato bresaola o pasticcio siciliano, e non ricordano chi ha dato le chiavi del Campidoglio a Buzzi, chi ha reso inservibile il 65 per cento degli autobus della Capitale, chi ha concesso –per sette euro e 75 centesimi di affitto al mese – settemila abitazioni di proprietà pubblica.

Chi ha messo in bilancio e speso come assistenza ai nomadi, 270mila euro all’anno per famiglia.

Un magna magna rivoltante, del quale Marino è totalmente estraneo. I suoi errori, che pure sono niente male, sono stati altri: non capire che una città ha bisogno di essere curata ogni giorno, ha bisogno di vedere che fai e non solo annunci. Però, diamine!Continue reading