Vite “spericolate” nella Perugia universitaria

ROMINA ROSOLIA

Quando arrivo a Perugia sono le tre del pomeriggio. Dopo due ore e mezza siedo anch’io, come le decine di studenti universitari, sui gradini del Duomo in Piazza IV novembre, di fronte c’è Corso Vannucci, il fulcro della città. Un luogo di ritrovo per i ragazzi ma anche un posto che denuncia una delle consuetudini entrate ormai a far parte del loro modo di vivere: bere e fumare. Sono le diciassette e mezza appena e qui a Perugia non è certo l’ora del tè. Accanto, avanti e dietro di me quasi tutti fanno la stessa cosa, sorseggiano birra da bicchieri di plastica trasparenti o direttamente da bottiglie di vetro, portano con loro tabacco e arrotolano sigarette, altri spinelli, aspirano e soffiano fumo nell’aria. Dopo un po’ cercare di respirare ossigeno per chi gli sta intorno è davvero un’impresa.
La sensazione è che tra loro viga una regola comune: “la condivisione”. E infatti ho tra le mani il programma del Festival Internazionale del Giornalismo quando un tipo accanto a me, trascurando il fatto che lo stessi leggendo e le sue mani imbrattate di birra e canne, con invadenza mi chiede di dargli un’occhiata. Lo prende ma dopo pochi minuti, mentre lo osservo leggere, bere e fumare in simultanea mi faccio valere, lo guardo negli occhi e gli chiedo di ridarmelo.
Ha l’aspetto di un ragazzo che si prende la vita con comodo ma poco dopo gli arriva una telefonata e sento che comunica che ha appena consegnato la tesi, che è stressato, che teme possibili correzioni da parte del prof. E allora penso che è un peccato vivere così, cercando nel fumo e nell’alcool la distrazione, il riposo di cui sentiamo avere bisogno.Continue reading

“Vi racconto chi mi ha ammazzato”

lasanthaSERENELLA MATTERA

No other profession calls on its practitioners to lay down their lives for their art save the armed forces and, in Sri Lanka, journalism. (Nessun altro mestiere chiede a chi lo svolge di mettere in gioco la propria vita tranne le forze armate e, in Sri Lanka, il giornalismo).
Lasantha Wickramatunga era il direttore del “Sunday Leader”, che è riconosciuto come il principale quotidiano indipendente dello Sri Lanka. In Sri Lanka è in corso da anni una guerra civile, tra il governo e le Tigri Tamil. Lasantha Wickramatunga, in questa guerra, faceva il suo mestiere da giornalista. E non si tirava indietro quando si trattava di denunciare gli abusi del governo, tanto quanto quelli dei ribelli. L’8 gennaio 2009 Lasantha Wickramatunga è stato assassinato. Come già altri colleghi, prima di lui.
It is well known that I was on two occasions brutally assaulted, while on another my house was sprayed with machine-gun fire. In all these cases, I have reason to believe the attacks were inspired by the government. When finally I am killed, it will be the government that kills me. (…sono già stato brutalmente attaccato…ho ragione di credere che gli attacchi erano guidati dal governo. Quando alla fine sarò ammazzato, sarà stato il governo ad uccidermi).
La sua morte, il giornalista singalese l’ha predetta. In un articolo scritto poco prima di essere assassinato e pubblicato postumo. Un atto di denuncia nei confronti di un governo che tiene “sotto attacco” la stampa indipendente e “cerca di controllare gli organi di libertà”.
“Oggi sono i giornalisti, domani saranno i giudici” ha messo in guardia Wickramatunga. Lui non ha tentato di salvarsi e non si è salvato. Ma la sua storia e il suo ultimo articolo, inciso dalla Bbc in un file audio, stanno facendo il giro della Rete e del mondo.

Come un romanzo

comeunromanzoFRANCESCA SAVINO

“Come se”. Come tutti i racconti, il giornalismo si nutre di “come se”. Serve a riempire i vuoti o, a seconda delle occasioni, a alleggerire i pieni. A volte per avvicinare un’immagine, altre volte per stemperarla. O per capovolgerla senza senso, nello spazio di sette battute. Il punto non è l’omosessualità. Non è la sessualità in genere, né i dati sensibili. Il punto è che i “come se” sono bestie strane, e uno dei motivi è nascosto nella storia di un giovane stewart morto ma non ancora sepolto sulle pagine dei nostri quotidiani. I fatti sono semplici: una sciagura aerea a Barajas, Madrid. Centocinquantatre morti. Fra loro, anche un italiano. Si chiamava Domenico Riso, aveva 41 anni e al suo fianco in aereo c’era la sua famiglia: Pierrick Charilas e il figlioletto di quest’ultimo, Ethan. Lo abbiamo letto solo fra le righe dei giornali, che al massimo si sono spinti a usare nella loro storia le parole coninquilino, amico più caro, “famiglia” ma solo fra virgolette. Lo abbiamo intuito guardando i telegiornali, e sentendo cugini intervistati che parlavano di “un bimbo amato come se fosse un figlio”, scorrendo articoli in cui si diceva che vivevano tutti a Parigi “come se fossero una famiglia fra le tante”. Trattati come se non lo fossero stati.