Una porta a Lampedusa

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SERENELLA MATTERA

«Vivere nel mondo di oggi ed essere contro l’ uguaglianza per motivi di razza o di colore è come vivere in Alaska ed essere contro la neve».
William Faulkner

L’ho visto una volta, un caporale. Ho visto cinque stranieri scendere dal suo van dopo una giornata di lavoro. Magari mi sbaglio. Forse la suggestione del luogo. Milano, Famagosta. Il grigio della periferia in una giornata di fine inverno. Forse incrociavo la strada e gli sguardi di operai con regolare contratto. Forse un regolare datore di lavoro aveva disposto che i suoi dipendenti fossero accompagnati fino alla fermata del metrò.
Però appena li ho visti, accendersi una sigaretta sotto la pioggia, scherzare e sorridere a una battuta, aspettarsi per andare insieme chissà dove, ho guardato fisso quello straniero come loro, alla guida del van, quel tipo triste, gli occhi sulla strada, pronto a ingranare la marcia al chiudersi dell’ultima portiera. E ho pensato: quello è un caporale. O il tirapiedi di un caporale. Insomma, qualcuno che li sfrutta, o forse il loro unico sostegno.Lampedusa è lontana centinaia di chilometri da me, da Roma, da Milano. Eppure è da lì che molti arrivano. Su quell’estremo lembo d’Italia il 28 giugno sarà inaugurato un monumento “alla memoria dei migranti deceduti in mare”. Una porta alta cinque metri dello scultore Mimmo Paladino. Un modo per non dimenticare un ventennio di “viaggi della speranza”. Un simbolo di accoglienza. Mentre l’esodo continua.
Forse anche il caporale che ho visto io, quello che ora accompagna la sua manodopera a Famagosta, è arrivato da lì. E’ sfuggito ai controlli. O è passato per un Cpt. Fregandosene di un foglio di via è andato verso nord. Ha trovato qualcuno che gli dava da lavorare. Si è conquistato la sua fiducia. Ha fatto carriera. Si è fatto regolarizzare. E’ diventato caporale.
Forse. O forse no. Ma il resto non cambia.

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