Il Grand Tour. Nelle montagne dei No Tav: tra balli e lezioni di ingegneria

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DAL TERZO VALICO DI INCALZA ALLE CASE ANCORA ALLE PRESE CON IL DOPO ALLUVIONE, FINO AI CONTADINI DI VARESE LIGURE
L’impressione è che questi monti liguri abbiano fatto da cavia a progettisti dalle mani bucate. Tanto era difficile e perigliosa la decisione di svuotarli (sono previsti 37 chilometri di galleria dentro rocce amiantifere su un tracciato totale di 53) tanto più l’opera sarebbe apparsa maestosa. E quindi costosa. E dunque irrinunciabile.
Il terzo valico nasce nel fondoschiena di Genova, e secondo le fantasiose previsioni della vigilia, dovrà unire il mare ai monti, collegare il sud dell’Europa mercantile e affannata e condurre velocissimamente le merci, attraverso le Alpi, verso il nord efficiente e pianeggiante di Rotterdam sviluppando il cosiddetto corridoio Reno-Alpi. “Ce lo chiede l’Europa” è infatti lo slogan, già buffonescamente in voga in Val di Susa, con il quale i difensori della mega ferrovia ad alta velocità hanno avanzato e poi vinto la partita. Il progetto è un figlio legittimo della scuderia di Ercole Incalza che al ministero spianava l’Italia con la mente predisponendo piloni di ogni sorta di cubatura. Al solito Stefano Perotti la direzione lavori, ad Alberto Donati, genero di Incalza, qualche spicciolo per un aiuto sul campo (691 mila euro di parcelle professionali tra il 2006 e il 2010).
La nuova linea ferroviaria, la terza sulla direttrice a nord di Genova, costerà sei miliardi e 200 milioni (49 milioni di euro a chilometro, contando anche le diramazioni correlate) e finirà la sua corsa a Tortona, alle porte di Alessandria. E da lì fra molti anni, quando tutto sarà finito – e vattelapesca se davvero tutto sarà concluso – prenderà la ricorsa verso il mare del Nord.
Nella ridotta del Polcevera il comitato no Tav cerca strenuamente di resistere all’indifferenza. “Il nostro più grande problema è che questa ferrovia non si vede, i cantieri sono dispersi tra vallate. Smontano pezzi di montagna, spianano le valli ma nessuno se ne accorge. E chi ha occhi poi si acconcia sull’altro slogan in voga: “Tre mila posti di lavoro!”. Di questi tempi buttali via. A nessuno frega se la ferrovia serva o no, se possiamo tagliare a fette le montagne, se qualcosa di triste ci capiterà, se tutti quei soldi saranno uno spreco indegno”. Davide Ghiglione, un quarantenne impiegato in una ditta di spedizioni, mi aspetta a Bolzaneto, il quartiere simbolo della mattanza poliziesca durante il G8. Da qui, costeggiando il Polcevera, colorato dai rifiuti e ferito dall’alluvione (straordinarie le preoccupazioni dell’ingegner Incalza al telefono col suo ministro, Maurizio Lupi. Il primo domanda perplesso: “Non è che poi i fondi vengono dirottati per l’alluvione?”. Il secondo, deciso e inflessibile: “Tranquillo, sono d’accordo con te”), si entra nel cantiere. Coloro che si battono contro questi tracciati si chiamano “no Tav”. I no Tav sono oramai equiparati dall’opinione pubblica – grazie a un battage mediatico supino agli interessi dei più forti – come qualcosa di assai simile a terroristi. E qualunque ragione essi portino sull’altare della inconsistenza del progetto viene respinta a prescindere. “Ci sono fatti inequivocabili – dice Lorenzo, falegname – Un fatto, per esempio, è che l’opera per ben tre volte non ha superato l’esame della valutazione di impatto ambientale: tre no. Il primo nel 1994, il secondo nel ‘98, il terzo nel 2000. La supera solo quando il governo Berlusconi scavalca i recinti della ragione con la legge obiettivo. L’opera è “strategica e imprescindibile” e nel 2003 ottiene il via libera”. Ideazione del solito team, direzione dei lavori del solito team e realizzazione del solito team. L’impegno miliardario dello Stato, attraverso Rfi, è affidato a una sigla, Cociv, che racchiude l’onnipresente Impregilo, la Società Condotte d’acqua e la Civ, gruppo Gavio. Notissimi acchiappa-appalti. A norma di legge sono progettisti, esecutori e collaudatori dell’opera. Controllori e controllati. 

Isoverde, l’alluvione di Genova è ancora qui
“È una pazzia, hanno iniziato a sbancare qui”. Silvana Patrone, impiegata in uno studio notarile, mi conduce sul luogo del delitto: Isoverde, mille abitanti dietro Genova. Una valle stretta, una frana incombente e il recente alluvione che ha costretto alla sgombero per mesi degli inquilini di alcuni fabbricati posti sul pendio. Si lavora non per mettere in sicurezza le case allagate nell’autunno scorso, ma per spianare il costone della montagna dirimpettaia che invece ha retto alle piogge e farne un pianoro per il primo campo base dove alloggeranno i minatori che dovranno bucare la roccia. Alla casa del popolo di Isoverde è appena finita una festa dell’Anpi. Un partigiano novantenne canta a squarciagola. Giovani e anziani riuniti attorno a un tavolo, tra Brecht (“ci sono uomini che lottano ogni giorno…”) e vino rosso. Si commemora Arrigo Diodato detto “Franco”, unico sopravvissuto al tristemente famoso eccidio di Cravasco, scomparso poco più di un anno fa. Per lui c’è anche il moto tour partigiano.
Scendiamo lungo le strettoie di montagna. È tutto stretto in Liguria, e l’impegno di farsi largo a colpi di ruspa è una condizione permanente di una filosofia che anzitutto e soprattutto spiana. Grumi di case lungo la strada che dovrà subìre anch’essa delle rettifiche per far posto alle betoniere e agli autoarticolati: Borgo Fornari poi Voltaggio. Decido una sosta per la cena a Busalla, al centro della valle, cinquemila abitanti. L’unico passante lungo il corso, dall’accento napoletano, alla domanda “Dove si mangia bene?”, mi guarda smarrito. “Prova al Quadrifoglio”. È un cubo di cemento con vetrate di alluminio anodizzato. Il cuoco, cento chili di meridione, si affaccia. Nel locale c’è solo una coppia, presumibilmente i figli del cuoco a cena. “Carne, pesce, quel che volete. A disposizione”. Opto per un regime ad alto tasso di calorie ma sufficientemente diffidente del talento dello chef: spaghetti con aglio, olio e peperoncino.
Franconalto, dove si educano gli ignoranti
Per dormire bisogna salire sui monti. L’agriturismo La Sereta, a Franconalto, già in provincia di Alessandria, è l’ultimo avamposto dei no Tav. Settecento metri sul livello del mare, la Val di Lemme di là e la Valle Scrivia di qua, sotto di noi. Dopo quei monti c’è la pianura piemontese. Quassù si tengono le riunioni operative della resistenza. Si propongono lezioni di trasportistica ed elementari nozioni di economia: quanto costa un’opera, che beneficio darà, cosa potrebbe esserne di tutti se quei soldi fossero investiti in un altro modo. “Diciamo che sono incontri per educare gli ignoranti”, dice l’oste. Per favorire l’afflusso e invogliare i riottosi, gli annoiati e gli indifferenti le serate iniziano e finiscono con lezioni di ballo. Finora tre gli appuntamenti musicali con i rudimenti del mambo, alcuni passi di baciata, di ciclone e una fuga immaginaria verso la Grecia con infarinature di sirtaki.
Nello Spezzino, nel paese dei quarti di bue
È la luce che rapisce, e le svolte stradali verso il mare fanno dell’Aurelia una perfetta guida accompagnatrice, una freccia che attraversa il levante ligure, indicando – ora a destra ora a sinistra – le meraviglie di questa terra bellissima. Salutata Genova e il suo buco incipiente, ecco Recco, Camogli, Sestri. I peschi in fiore, il verde degli ulivi, dei pini, dei prati che la primavera restituisce con intense e distinte tonalità. Poi il viola dei glicini, il rosa delle peonie, il rosso pallido delle camelie, le prime ortensie. All’altezza di Chiavari il corridoio autostradale mi spinge veloce fino a Brugnato. Milleduecento abitanti tenuti insieme da due torrenti che poco tempo fa sono puntualmente esondati. Coperta d’acqua, definita come zona alluvionale ad alto rischio è la piana sottostante l’autostrada. Hanno pensato bene di farci un grande centro commerciale, il megastore Shoppin. Furbi, eh? Un thè caldo e poi si riprende a salire verso Varese Ligure, il paese più a nord e più in alto, ai confini con l’Emilia, l’ultimo della provincia di La Spezia. Una ventina d’anni fa hanno capito che per sopravvivere dovevano industriarsi. Erano contadini e tali volevano restare. “Ci siamo mossi bene e abbiamo intercettato tutti i finanziamenti comunitari destinati all’agricoltura biologica”, dice Michela Marcone, albergatrice e sindaco per 12 anni del paese. Oggi Varese Ligure è il primo comune in Europa che ha ottenuto la certificazione ambientale. Energia verde, stalle e colture sostenibili. “Produciamo formaggi, carne e suoi derivati. Il 10% della popolazione è occupato nelle fattorie, la dimensione è tale che coltivare la terra da noi è diventato un buon impiego. Due anni fa una ragazza che era emigrata a Parma a fare la commessa, si è fatta due conti e ha capito che zappando i campi si guadagnava di più. È ritornata”.
da: Il Fatto Quotidiano 12 aprile 2015

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