Frizzi e la scoperta della gentilezza: parola antica ma trascurata

Un grande poeta italiano e mio caro amico, Pierluigi Cappello, scomparso pochi mesi fa, era spesso chiamato il poeta della gentilezza. Per la capacità dei suoi versi di trasformarsi in carezza, per lo lo sguardo dolce e mite del suo pensiero, il seme della conoscenza.

E gentilezza è la parola che oggi si unisce a un’altra persona molto popolare che è andata via: quella di Fabrizio Frizzi. Non c’è confronto culturale tra i due personaggi, ma non è questo che ora conta. Vale di più, forse, il fatto che la morte di Frizzi ci abbia costretto a riaprire il vocabolario e rileggere questa parola così antica, bella ma trascurata: la gentilezza.

da: ilfattoquotidiano.it

VIAGGIO – Chi ride, chi piange (tipo Bossi)

Iniziamo da chi ha vinto. Per esempio Elio Lannutti, il senatore Cinquestelle sempre dalla parte dei cittadini: “Non si digerisce, per inghiottirla ho dovuto chiudere gli occhi e pregare che il mio stomaco fosse compassionevole”. È alla buvette ma non parla del salmone andato a male. Il bocconcino storto, amarissimo si chiama Elisabetta Casellati, la pretoriana di Berlusconi, l’avvocatessa delle leggi ad personam. Lui l’ha dovuta votare e Andrea Cioffi, della stessa squadra pentastellata, fa training autogeno: “Ma chi ha cacciato Berlusconi da questa Aula? Chi se non noi?”. Tolto il reflusso gastrico, che pure è stato potente per alcuni, la partita doppia ieri non ha avuto storia. E il silenzio col quale il Transatlantico di palazzo Madama ha accolto il passaggio di Matteo Salvini verso l’Aula, con una deferenza che neanche a De Gasperi fu riservata, marchia a fuoco il senso della svolta.

IL FORZISTA Renato Brunetta, che nei momenti di calma è ipercinetico, ieri era letteralmente in fiamme. Avvolto da lingue di fuoco, da una rabbia nero fumo, procedeva al telefono sviluppando cerchi concentrici. Non ha mai smesso di girare in tondo per una buona mezz’ora, e mai ha staccato dalle orecchie lo smartphone: “Pe-ri-co-lo-so”. “Non sarò più capogruppo, è un mestiere troppo pericoloso”. Infuriato per la piega degli eventi e per il sopruso col quale Salvini ha steso il titolare della ditta, e l’irrisione di cui ha poi dato prova dopo essere uscito da palazzo Grazioli: “Gli ho portato un gelato”. Sottinteso: al vecchio. E grassa, pingue, sonora la risata di Toninelli, la gioia con la quale lui e Di Maio hanno salutato Fico sullo scranno di presidente della Camera, come lieve, di circostanza, ridotta a un puro esercizio muscolare quella di Luigi Zanda, capogruppo in uscita di un Pd in disarmo: “Mamma mia, meglio non pensare a quel che abbiamo fatto. Anzi, a quel che non abbiamo fatto. Ma vedo che quello parla, parla”.Continue reading

Beppe Grillo tra il sogno di una società più giusta e il guaio di aver marchiato a fuoco tutti i giornalisti

Tra le cose buone che ha fatto Beppe Grillo, che è pur sempre un comico, è aver dato a tanti italiani una direzione alla propria passione, un’idea alla vita e anche un conforto a quella che oggi sembra purtroppo solo una suggestione: una società un po’ più giusta, meno potenti sul calesse, meno poveri in giro. Ha combinato anche guai e tra questi il più cattivo è aver marchiato a fuoco sotto il timbro della indegnità, del leccaculismo, della viltà una intera categoria di lavoratori che sono i giornalisti. Intendiamoci: i giornalisti sono come i tubisti, i dentisti, gli elettricisti e quel che vi pare a voi. Bravi e meno bravi, coraggiosi e vili, di potere o di piazza, onesti o manipolatori. Nessuna novità al riguardo. E truffatori, cannibali, fancazzisti, idioti o geniali si ritrovano in ogni arte e mestiere.

Averli trasformati tutti in una accolita di pennivendoli ha permesso la più odiosa delle accuse: colpevole per razza. Sei giornalista? Dunque sei venduto, oppure rappresenti qualcuno, portavoce o meglio portaordini. E così è successo che ieri, invitato a un dibattito al Tg3, abbia dovuto ascoltare un deputato di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto, replicare a una mia breve e piuttosto scontata analisi sul tramonto del berlusconismo come fossi il rappresentante dei grillini: “Voi zitti eccetera eccetera”. Eh sì. Essendo giornalista del Fatto Quotidiano potrei mai scrivere e pensare in libertà, secondo quel che mi frulla in testa? E il mio giornale può mai rappresentare le proprie idee come ritiene giusto? Dev’essere per forza apparentato con qualcuno, finanziato da qualcuno, cooperante o cospirante con qualcuno.

E così il comico Beppe Grillo, che ha dato passione a tanta gente, ha ridotto un pezzo della società in schiavitù e ora si ritrova, perché la storia ricambia sempre le cortesie, ad essere lui il potente di turno e lo schiavista di Palazzo. Ha dato a noi giornalisti l’etichetta di pennivendoli, in modo che voi lettori simpatizzanti del movimento poteste sentirvi autorizzati a coprire di insulti chiunque e ora si ritrova, per il principio del contrappasso, tante penne catalogate – a sua insaputa – come già vendute a lui in modo che voi lettori antipatizzanti del movimento possiate sentirvi autorizzati a coprire di insulti chiunque abbia idee che non collimano con le vostre.

Buone contumelie a tutti.

da: ilfattoquotidiano.it

Palazzo Mariuccia, il Parlamento pieno di matricole e novizi

Lui, il piccolo, con la camicia bianca chiusa in gola da un farfallino esausto: “Mamma, ho da fare la pipì”. Lei, allarmatissima moglie del neosenatore: “Non lo dire neanche per scherzo. Ma non vedi dove siamo?”. Siamo nel corridoio che conduce all’aula di Palazzo Madama, oggi zeppa di congiunti inorgogliti che conducono a fatica i propri corpi e quelli della prole verso il fatidico passaggio di babbo o mamma sulle poltrone di velluto rosso antico, da legislatore della Terza Repubblica.

È QUESTO un Senato formato junior, più sprintoso che mai. Signore ma giovani, alcune ancora con l’aria di ragazze attardate, come Gabriella Giammanco. Berlusconi l’ha voluta deputata nel pieno dello splendore e ora l’ha trascinata qui, l’ha resa senatrice: “Devo ancora abituarmi a questo luogo. Mi sembra tutto così strano”. Maria Rosaria Rossi, non per niente soprannominata “la badante” ai tempi in cui organizzava l’agenda e la vita dell’ex Cavaliere, è lì vicino a soccorrerla.

Strano, forse stranissimo questo tempo e questo luogo anche per Sabrina Ricciardi, rigorosa in un abito di sartoria, dai tratti delicati, lo sguardo un po’ frastornato ma cosciente, consapevole dell’impegno. Lei rappresenta la seconda ondata grillina, la maturità raggiunta e anche una certa classe, una compostezza, e anche uno status da nuovo potente, che cinque anni fa sembravano sconosciuti. “Piacere, sono la senatrice De Lucia”. Si danno il lei e c’è un perché. La dirimpettaia chi è? Giornalista o collega, amica di gruppo o nemica?

“Scusa, sai dov’è il bagno?”, interroga una signora in tailleur e scarpe rosse vive, leghista di sicuro che chiede al compagno di cordata, Roberto Calderoli, un’indicazione utile.

Non è attesa tremante questa, ma momento lieto, ozio proficuo, sorriso ascendente. Ecco Daniela Santanchè in versione Fratelli d’Italia dopo essere stata la pitonessa del Cavaliere. Trasferita da Montecitorio e più custodita oggi rispetto a ieri. In effetti il centrodestra si distingue per mise: più approssimato e casual quello leghista, ricercato, a volte sfarzoso quello forzista. In mezzo, né pitone né jeans, la Meloni, tutta di bianco bestita, la voce flebile del centrodestra e, a vederla come alza gli occhi al cielo, anche la meno pronta a spiegare le mosse che verranno.

SE SEI DI FRATELLI d’Italia il Lazio è la regione d’elezione. Parli Lega? Allora Veneto e Lombardia. Grillini del sud invece: siciliani, calabresi, pugliesi. I dialetti si sentono e i gruppi si ricompongono per geolocalizzazione. “Io? Sono la senatrice Toffanin, da Rovigo”. Giuliva, veramente felice, la signora è coccolata dalla famiglia, i figlioli sono emozionati e anche lei tantissimo. Come la moglie di Domenico De Siano, boss forzista di Ischia, transformers isolano, accumulatore di poltrone (sindaco, consigliere provinciale, regionale). Oggi qui, finalmente. La sua signora: “Contentissima”. E contento è Luigi Cesaro, conosciuto come Giggino ’a purpetta, per via dell’identità popolare, della grammatica faticosa e delle amicizie, a volte non specchiatissime. Sono due forzisti del sud sopravvissuti all’onda anomala.Continue reading

Ai giudici della Consulta non interessa la brutta figura sul caso Zanon

Quanto costa il comportamento di un giudice alla reputazione dei giudici, alla loro credibilità, all’idea che essi hanno di sé stessi, del fatto che dispongono della misura di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, di chi deve pagare dazio e chi invece guadagnare l’innocenza? Quanto costa la scelta di far utilizzare l’auto blu di servizio, dunque auto di Stato, alla consorte per fatti privati invece che al titolare per fatti d’ufficio? Quanto costa alla credibilità della Consulta, l’organo che custodisce la Costituzione, la mamma di tutte le leggi, aver liquidato con un “poteva farlo” la scelta di un suo membro, Nicolò Zanon di lasciare che sua moglie viaggiasse per fatti propri sull’auto pubblica, caricando i costi delle sue trasferte nella casa al mare sullo Stato? I giudici supremi non lo sanno, o fanno finta di non saperlo. O forse nemmeno gli interessa.

da: ilfattoquotidiano.it

 

Breve storia dell’hastag #senzadime e quelle incaute lezioni di Casaleggio

Se i partiti sono finiti la democrazia digitale, quella che piace tanto a Casaleggio (al padre come al figlio), è così pubblicamente perforabile, manipolabile, riconducibile a una volontà esterna che fa sorridere o allarmare, a seconda dei casi, la fede assoluta nel clic. L’ultima prova a Davide Casaleggio e a tutti noi è consegnata su un piatto d’argento da ciò che ha costruito sul web il Pd per convalidare il no renziano a qualunque accordo governativo con i Cinquestelle. Il sito thevision.com ha ficcato il naso su come è nata e si è sviluppata su twitter la campagna #senzadime, l’hashtag col quale gli elettori del Pd rifiutavano qualunque intesa con Di Maio e soci. Su twitter è stato un plebiscito di no e dal momento che ogni cosa che accade lì giunge nelle pagine dei giornali, quel no si è trasformato in vistosi titoli (“L’urlo collettivo del popolo del web ha decretato che l’alleanza non si deve fare”, così La Repubblica).

I colleghi di thevision, incuriositi, hanno iniziato a indagare l’identità di quei tweet, la corrispondenza tra il nickname e una persona fisica. Una ricerca persino banale. Hanno scoperto che i primi mille tweet (necessari a far entrare l’hastag nel trend topic, la classifica dei temi più seguiti e dibattuti) più della metà (519) provenivano dallo stesso account e uno di questi (@Monica64512055) era stato creato alle 2,26 a.m. del 7 marzo e in una stessa giornata aveva twittato 1080 volte. In quattro giorni Monica twitta con l’hastag @senzadime o @senzadinoi 985 volte. Ricordarsi che si ritiene fasullo l’account se il numero dei tweet in un giorno supera i 50.

Questo è quel che è successo. Ma il Pd ha fatto quel che fanno tutti sul web: se i partiti sono morti, e non si può dar torto a Casaleggio, coloro che li guidano sono vivi e vegeti e hanno capito che il web è come una grande friggitoria: butti nell’olio bollente qualunque cosa e ti esce fritta a puntino, dall’aspetto dorato. Poi la assaggi e ti vien voglia di vomitarla.

da: ilfattoquotidiano.it

Firenze, Rokhaya e i suoi due mariti uccisi perché neri

Rokhaya Mbengue abita a Pontedera ma è nata a Morola, in Senegal. Ed era nel suo paese quando, il 13 dicembre 2011, seppe che suo marito, Samb Modou, un venditore ambulante che offriva le sue chincaglierie ai turisti di Firenze, era stato ucciso da Gianluca Casseri, un militante di CasaPound. L’uomo bianco aveva vendicato la sua razza freddando anche un altro compagno di lavoro nero, pure lui senegalese.

Qualche anno dopo la donna si risposa e accetta l’invito del suo secondo marito, Idy Diene, di venire in Italia. Fa la badante. Ha una figlia, nata dalle nozze di primo letto, da mantenere. Idy, anch’egli senegalese, vendeva ombrelli per i turisti in visita a Firenze, fino a quando, qualche giorno fa, non ha incontrato sulla sua strada (in verità è comparso alle sue spalle), un altro uomo bianco, Roberto Pirrone, tipografo che senza un perché gli ha scaricato contro tre colpi di pistola e l’ha ucciso.

da: ilfattoquotidiano.it

La lezione di quella mamma che non perdona il proprio figlio

Un figlio viene come vuole lui. Cresce storto o dritto, come le piante, e tu non ci puoi fare niente”. È il papà di uno dei tre ragazzi che hanno ucciso a bastonate una guardia giurata intenta a compiere l’ultimo atto del suo lavoro quotidiano: chiudere i cancelli della metro a Piscinola, periferia est di Napoli, disgraziata e degradata.

Un figlio cresce e vede, emula e impara. Impara a fare il barbiere oppure il rapinatore. Può il destino essere l’unico arbitro della nostra vita? Quel papà pensa che il destino sia tutto, e non trova – perché forse neanche la cerca – la propria responsabilità. Sua moglie invece, proprio in nome della responsabilità e non del destino, è implacabile: “Non lo perdonerò mai, mio figlio non mi vedrà mai più”. Il papà ha assistito inerme che quella vita crescesse storta. Si giustifica e un po’ si perdona. La mamma invece ha fatto ogni cosa possibile per raddrizzare la pianta. Non ci è riuscita e sente di dover pagare il pegno della sua colpa con la più dura delle sanzioni. Infatti dove c’è responsabilità non c’è perdono.

da: ilfattoquotidiano.it

Cincin: De Luca jr. fa festa a Salerno, dove ha perso

Chiamatela festa del ripescato, o anche del paracadutato, oppure del miracolato. È comunque festa. Ieri sera al Modo, locale cool del litorale salernitano, Piero De Luca ha salutato la sua elezione “con buona musica e tanti amici”. Piero è figlio di Vincenzo, santo patrono della città oggi in una fase lievemente declinante, e si ritrova a Montecitorio per via del paracadute che il Pd gli ha offerto, facendolo atterrare da vincitore, nonostante la sconfitta nel proprio collegio, in quel di Caserta.

Originale, unica e persino trasgressiva. Perché la domanda che tutta Salerno si è posta è stata: si festeggia la vittoria di Caserta oppure la sconfitta in città? Piero, neodeputato fortunello, ha già pronunciato parole nette e inequivoche: sente di aver vinto nonostante abbia perduto il collegio. Sente che quel 19 per cento, col quale si è piazzato al terzo posto dei quattro in gara, è una conquista – visto ciò che è accaduto – in qualche modo memorabile.

Essendo il Pd, come ha spiegato il papà Vincenzo, governatore della Campania, “un partito del nulla”, la performance realizzata non teme raffronti. La Salerno deluchiana, la città serva e prona, plaudente e magnificata, ha infatti ritenuto di condividere con il suo amatissimo e indimenticato conducator, il senso dell’improvviso nulla, dando un valore affettivo al vuoto imprevisto. Cosicché nelle due sezioni elettorali più prossime a casa De Luca, quella di via Calenda e quella delle Medaglie d’oro, Piero ha goduto rispettivamente del 3 e del 2,79 per cento dei consensi. Il baratro secondo una visione tradizionale.

La festa di ieri – molto avanguardista – avanza però gli occhi al nuovo orizzonte, al successo di domani. E intanto la legge elettorale già una prima risposta è riuscita a dare: ha compensato il vuoto con il pieno e ha permesso al corpo di Piero la cosiddetta bilocazione – come succedeva a padre Pio – facendolo gareggiare sia a Salerno che a Caserta nella stessa competizione, negli stessi giorni, alla stessa ora.

Piero bilocato ha fatto il miracolo e festeggia a Salerno la vittoria di Caserta.

Più precisamente Piero festeggia sia la sconfitta che la vittoria, a seconda dei punti di vista, quando ancora l’elezione col paracadute non è formalizzata perché Forza Italia ha chiesto il riconteggio di circa 20 mila schede. Ma qui, ed è a suo modo notevole, entra in gioco l’ottimismo della volontà.

da: Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2018

L’oro d’Italia

Un cargo russo in fase di decollo da un aeroporto siberiano ha fatto scivolare sulla pista, per un guasto al portellone, circa 3,5 tonnellate di lingotti d’oro. Non si sa se siano stati recuperati tutti oppure qualche chilo sia sfuggito, né si conosce la proprietà di tutti quei lingotti a quale magnate appartengano. La Banca d’Italia nei suoi caveau conserva circa 90 miliardi di euro in oro. Tonnellate e tonnellate di lingotti, una riserva aurea cospicua e abbagliante. E’ così tanto l’oro che possediamo che risulta invendibile. Infatti gli economisti ci ricordano che scaricare sul mercato anche solo poche quantità (che comunque sarebbero nell’ordine di decine di tonnellate) provocherebbe un crollo dei prezzi e l’oro si trasformerebbe in rame. Così qualche anno fa è successo alla Banca d’Inghilterra, impegnata a vendere i suoi lingotti e poi, vista l’aria, obbligata a fare marcia indietro. “Non lo vendo neanche per tutto l’oro del mondo”, usiamo dire per definire quel che abbiamo di più prezioso e intoccabile. Ora sappiamo che seppure lo avessimo quell’oro non varrebbe più oro. Se la ricchezza si fa smodata perde di valore, diviene visione e abbaglio, e accade che per spenderla (succede agli emiri, ai grandi criminali e pure alla famiglia Trump), si è costretti a disseminarla fino alla toilette, nei dintorni della tavoletta del water.

da: ilfattoquotidiano.it