Un giorno di ordinario delirio: il gancio Pd e lo striptease grillino

I CINQUE STELLE CONCLUDONO LA PROTESTA SEDUTI A TERRA IN PIAZZA MONTECITORIO
Oggi il Transatlantico è come i magazzini Zara all’ora di punta. Non c’è una poltrona vuota, una sigaretta spenta, un supplì nel vassoio, un telefonino in tasca. I deputati sono corsi nel Palazzo, ufficialmente per difendere la democrazia. Sembra una fiction di un regista mediorientale o di un virtuoso del cinema fantasy. Invece è vero e te ne accorgi da come trotta Renato Brunetta. L’ora è grave, chiama a raccolta maschi e femmine di ogni ordine e grado. C’è anche Gabriella Giammanco, sorretta da un tacco spaziale, con una bella mise chiara che segna l’innocenza della politica e la durezza del momento. Le parole sono pietre. “Mamma, metti a sessanta grandi la lavatrice, non di più che si scolorisce tutto”. È una figlia che parla, giovanissima, ancora poco nota ma in televisione arriverà presto. Grillina oppure della covata di Renzi. Non è in branco, dunque difficile inquadrarla. Chiedo il suo nome: “Un momento”, risponde. Ha ragione, non si interrompe così un colloquio, a novanta gradi solo i capi davvero sporchi.
OGGI LE COSE sono chiare: chi sta con Berlusconi di qua, chi contro di là. Rosy Bindi dove si mette? Non lo sa. Bei tempi andati. Anche Francesco Boccia si interroga: “Ho presieduto la commissione Bilancio come sempre. Gli emendamenti li ho fatti passare. Basta non ascoltare Brunetta e tutto ti viene bene”. Che sorriso di sfida! Sorride, ma per contrasto, pure Andrea Martella, democratico veneziano. Vorrebbe fuggire se solo potesse. Ma deve dare l’altolà alla Cassazione. “Ci fanno mangiare merda senza neanche avvertirci. Almeno la presentassero chiusa, in carta argentata”, dice Sandro Gozi. Sono tutti qui oggi: democratici e berlusconiani, rossi e neri. Anche a Palazzo Madama il pienone è scontato. Oggi bisogna dare una mano a Silvio. Il suo processo dura da 9 anni, non 9 giorni, e l’han condannato per una storia di frodi fiscali da 398 milioni di dollari, non 398 euro. Ma l’emergenza personale è emergenza nazionale.
IL CLIMA, diciamo la verità, è rilassato come sempre. Perché le nubi passano, e anche se il temporale si annuncia forte, la vita è bella comunque. Chi doveva dirglielo alla Bonafè di essere qua? Lei è renziana, portaparola simpaticissima con le idee sempre al posto giusto. Ride e fa comunella. La gioventù ha le sue necessità. Mariastella Gelmini ha invece l’aria della professoressa del liceo che nell’ora dell’intervallo non sa in quale classe avventurarsi, seconda o terza B? Quando le domandano cosa stia accadendo sgrana gli occhietti e prova: è a rischio la democrazia. Anzi il governo. Anzi il Paese. Anzi l’umanità, l’eternità, il clima globale. Anzi: è un’apocalisse! Nell’epica della disgrazia Maurizio Lupi si rivela più contenuto: non è in gioco il governo, ma la democrazia. Sentono la loro carriera in pericolo o si dilaniano per i destini del mondo? Vattelapesca. I grillini sono su di morale oggi. Finalmente non parleranno di scontrini. Si vede da come si siedono nell’aula, dalla convinzione che impiegano nell’applauso di sostegno. È il loro giorno. Tranne Vendola, al quale l’idea berlusconiana di far fare la serrata al Parlamento appare “un’idea delinquenziale”, e la Lega, che con Maroni si dissocia dalla protesta, è tutto un fuggi fuggi sotto il banco. Meno mi vedono meglio mi sento. Allora i grillini, quando scocca l’ora X della decisione, corrono verso il piano centrale dell’aula: “Vergognatevi, buffoni, servi, schiavi”. Indirizzano le urla nel settore del Pd, corpi molli, già trafitti di loro dalla cattiva coscienza. Le urla sono sale sulla ferita. Ne discende una breve ma tipica scazzottata da stress. Piero Martino e Nico Stumpo, i democratici più vicini agli avversari, tentano il gancio. I commessi, al solito, li fermano. La Boldrini guarda con qualche disgusto, ma avanza e fulmina il suo vice: “Presidente Di Maio, la prego”. Lui: “Adesso sta presiedendo lei, non io”. Ancora lei: “Non siamo in un teatro, ma in un aula parlamentare”. L’aria è frizzante, la bagarre è appena iniziata, i Cinque stelle giungono in piazza. La protesta fuori dalle mura si vede di più, si sente anche meglio. Solo che c’è poca gente. Il popolo ha degli impegni ora. La piazza è venuta meno, infatti. Prima di ogni altri a Berlusconi. Che non la invoca, sarebbe dura vederla riempita. E dunque tutto rientra nel Palazzo della democrazia che contesta ai giudici di giudicare con celerità (nove anni!). Napolitano non ascolta, o così sembra. Sta ricevendo Grillo e ha altre grane. Epifani è chiuso nella stanza di segretario pro tempore: “Attenti che la corda si sta spezzando”. A chi lo dice? Intanto a Palazzo Madama, anch’esso in trincea per via del colpo di Stato giudiziario, la mano ferma del presidente Grasso indica la procedura. I lavori sono sospesi e basta, fino a domani, se Dio (e Berlusconi) vorranno. E allora: giacche e cravatte via, per protesta.
I GRILLINI maschi in camicia, le donne esentate. Si spogliano per dare al disonore il giusto disonore. Si facciano le schifezze, ma in difetto di contegno, in flagranza di reato estetico. Memorabile invito di Grasso: “Confido nel senso di responsabilità di questa aula”. È tutto vero, ma certo sembra una fiction. Perché i parlamentari si dileguano all’ora del pranzo e si ritrovano, quelli alloggiati alla Camera, per ascoltare Enrico Letta. Alle tre il premier mette piede in Parlamento. Dovrebbe dire qualcosa, fare qualcosa. Infatti parla della moglie del dissidente kazako, e anche della figlia, sequestrata dalla polizia. Sembra incredulo quando spiega che qualcuno, con la divisa, senza ordine del giudice ha chiuso in un cellulare e rimpatriato due persone innocenti. Incredulo del suo stesso governo, dei colleghi ministri, ma voglioso di far capire a tutti che lui è di un’altra stoffa. Se tutti parlano di Berlusconi, lui affronta il tema di De Gennaro a Finmeccanica. Se la democrazia italiana è in pericolo, lui guarda a quella indiana che detiene ingiustamente i nostri due marò. Parla facendo finta di essere il premier di un altro Paese, di un altro governo, di un’altra era. Parla e fa presente con gli occhi che lui conosce Berlusconi a malapena. Anzi, tra cento in fila, nemmeno saprebbe riconoscerlo. Non ci credete?
da: Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2013

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