La malattia ti colloca in una unità di misura strana, fuori del cerchio della vita ufficiale, senza il carburante che gli altri utilizzano per arare l’esistenza. Diventi osservatore, e in questo senso la poesia mi aiuta a riconoscere i segni più minuti della beltà e dell’orrido, del possibile e dell’impossibile”.
Trovo Pierluigi Cappello in ospedale a Udine. Con la sofferenza ha una speciale confidenza avendo ottenuto in dote da ragazzo una eredità feroce: incidente in moto, mesi tra la vita e la morte e poi l’immobilità come condizione permanente, quotidiana. Cappello è poeta della dolcezza, estimatore della rugiada, illustratore dell’odore della fatica e delle magnifiche minuzie. Ma è anche un giovane adulto paraplegico.
“Io sento che l ’acqua scorre fino a un certo punto del mio torace, poi l’acqua scompare come il mio corpo che si mimetizza e si assenta da me”.
Mi ha detto che ha intenzione, un giorno o l’altro, di scrivere un libro sull’amore, sui suoi amori.
Sì, vorrei scrivere qualcosa sull’amore e persino sulla sessualità delle persone in difficoltà. Comprendo che c’è il rischio di essere frainteso, ma sento che il mio corpo così immobile, impermeabile, assente alla vita è un corpo da esplorare. Meglio: lo sento come un corpo di frontiera. Come quei luoghi lontani, inaccessibili, faticosi anche solo a raggiungerli con il pensiero. Nell’amore, nel sesso, mi vedo effettivamente come un esploratore che tenta, a suo modo, di spezzare le catene e incamminarsi per raggiungere la vetta.
Il suo corpo ha un segno vistoso.
È un privilegio di cui volentieri farei a meno. So che è una amputazione, ma so che possiedo interamente la libertà dei miei sentimenti e i miei sensi possono supplire, dare fiato alla gioia che altrimenti non conoscerei.
Innamorarsi è più facile per uno come lei costretto spesso alla contemplazione della vita, a vederla scorrere al davanzale della finestra di casa?
Ho conosciuto l’amore durante il periodo in cui la mia esistenza era ancora meno di quella che è divenuta oggi. Era una foglia distesa e ingiallita. Mi sono innamorato mentre ero lì lì per perire. La morte mi ha accarezzato a lungo. Mi viene voglia di risponderle con i versi di una poesia di Ungaretti (Veglia) che amo tanto.
Mi risponda come vuole.
Nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore.
Sono gli occhi, gli sguardi.
Acutizzi i sensi che possiedi completamente e ti concedi nel modo che la malattia ti permette. Concentri il tuo sguardo e il tuo impegno, e l’altra lo destina a te, su pochi centimetri quadrati, quelli salvi dall’anestesia perpetua, quelli integri, disponibili persino al piacere. Cambia un punto di vista, non la forza delle facoltà che senti di possedere, e muta la capacità di sentire, provare piacere, esserne il destinatario e anche il soggetto propulsore. Amplifichi il tatto e ogni gesto, quando si ama, diviene decisivo, straziante nella sua fatica, ma totale, definitivo. Certo, bisogna distinguere tra amore e sesso. L’una cosa che vivi a tuo modo e per intero, al pari di un impiegato, un fattorino o un professore, l’altra che interpreti secondo la misura della tua difficoltà. Però c’è una magia nell’adattamento, nell’esplorazione e poi la felicità di aver raggiunto il traguardo, l’appagamento, di aver superato il confine che la malattia avrebbe voluto importi.
Innamorarsi è bellissimo.
È fantastico. E – si parva licet – Leopardi al suo tempo era un disabile, dalla disabilità progressiva e invalidante. Eppure il frutto delle sue poesie non è la malattia ma l’amore. C’è compassione? No, non ho mai provato questo sentimento. E aggiungo che per provare compassione bisogna sempre essere in due.
Lei possiede un corpo di frontiera.
La malattia in sé vuol dire e non vuol dire, ti colloca in una condizione di contemplazione che però poi superi. L’amore per un paraplegico è come l’assetto di volo. È un volo che spicchi, un cammino che compi. Bisogna conquistare la vita metro dopo metro, è uno sforzo eroico pari a quello di Ettore, ma se ci riesci…
…Ecco la felicità.
Eccola qua.
Da: Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2016