Lebole, l’uomo che vestì l’Italia (e Gelli)

PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE

“Come si può dire di no a un uomo come lui?”. L’Italia di Carosello si innamorò dell’u omo “in Lebole” che era ancora il 1964. Che classe, e perfetto anche il suo cane, Lord per nome, e che fascino quest ’uomo di gran tessitura, l’attore Armando Francioli, modello perfetto che entrava ogni sera in casa. Tra i gomitoli di lana vennero trovate le liste della P2 giacché il patriarca Mario Lebole aveva l’azienda a Castiglion Fibocchi, sede di dislocazione delle energie creative e sovversive di Licio Gelli, che infatti fu suo grande amico e acquirente della sua dimora meravigliosa lassù in cima ad Arezzo, che poi prese il nome di villa Wanda.

Arezzo ha detto la sua anche nell’eleganza italiana. Il successo di Lebole che impegnò le sue forze per competere con un altro simbolo-fashion dell’epoca, quello Facis, altra sartoria e medesima eleganza borghese, accompagnò il successo della amata cambiale, il pagherò bancario, pegno puntualmente onorato. Gli Agnelli – per dire – hanno fatto fortuna grazie alle cambiali che gli italiani sottoscrivevano per rateizzare l’acquisto dell’agognata Seicento. E anche qui Arezzo contribuisce a suo modo al marchio Fiat perché l’autostrada del Sole, per mano ferrigna di Amintore Fanfani, aretino di Pieve di Santo Stefano, vide il suo tracciato fare, all’imbocco della vallata, una piega considerevole fino alla periferia di Arezzo e poi far ritorno alla sua originale traiettoria. Fanfani il gran democristiano d’amor perduto per la sua terra, e gli aretini devoti non dimenticano nemmeno oggi. Cosa sarebbe Arezzo senza l’autostrada? E senza la Lebole? Purtroppo nella storia della famiglia (e della massoneria) bisogna iscrivere il luttuoso evento del suicidio del patriarca. Era il 1983 quando Mario Lebole si tolse la vita. Fossero gli affari, le trame, le inchieste o solo libero e disperato arbitrio, non si sa.

Massoni o meno gli aretini hanno conosciuto da contadini la stagione della mezzadria e poi da operai quella dell’industrializzazione. Lo stabilimento Lebole, per dire, dava onore e ristoro a tremila addetti. Ma anche la falegnameria era un settore di vasta tradizione. E trés chic erano le cucine Del Tongo, che l’Italia invidiava. Sempre insieme Del Tongo e Arezzo, nella buona come nella cattiva sorte.

Successe che il 18 marzo del 1980 davanti scuola, davanti agli occhi di due suoi compagni, l’Anonima sarda rapisse il piccolo Francesco Del Tongo. Fu liberato solo a giugno, il 15 del mese, e le trattative vennero condotte da due preti, don Franco Bindi e don Ivano Marconi. Ricordò il primo: “Ci dicevano dove andare, e spesso anche a 450 chilometri di distanza. Giravamo per ore, in lungo e in largo. La mia piccola Fiat 126, per fortuna non stramazzò dalla fatica”.

Da: Il Fatto quotidiano, 28 dicembre 2017   

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