Vita da 5 Stelle in grisaglia. Tutti a scuola zitti e buoni

casaleggioRobotizzati per un giorno. La tecnica di sparare i cinquestelle nel futuro prossimo, tra esoscheletri e terabyte, è stata una prova tutto sommato riuscita. Prenderli in gruppo, portarli ad Ivrea nell’officina H di Adriano Olivetti, il luogo dove il loro progenitore visionario Gianroberto Casaleggio muoveva i primi passi con i microchip. Obbligarli al silenzio, a misurare la distanza che separa la loro ignoranza dalla sapienza che una classe dirigente deve possedere, è in assoluto il più fantastico, per alcuni versi eccentrico, per altri inedito e assai utile esperimento di verifica delle competenze.

Il Mao del movimento è la Casaleggio Associati, azienda politica, tecnicamente una srl, che ha assunto il compito di alfabetizzare e guidare gli eletti verso il Sol dell’avvenire. Max Bugani, esponente dell’ortodossia e custode della piattaforma telematica Rousseau, il sistema di connessione del sapere collettivo, conferma: “Noi facciamo un’attività di tutoraggio, un modo per aprire il movimento ai temi che ci stanno a cuore, prepararlo al governo del Paese nel tempo della più imponente trasformazione. Il nostro è insieme uno sforzo per irrobustire le gambe naturalmente gracili, agevolare gli eletti ad essere sempre più consapevoli della responsabilità che ci aspetta. Il vento soffia impetuoso nelle nostre vele, noi dobbiamo prepararci a metterlo a frutto”.

CINQUE STELLE in grisaglia. Non una bandiera o un principio di caciara, zero fanatismi, zero chiasso in sala, occupata da più di mille sedie. Una convention di serie A, una specie di studio Ambrosetti applicato alla politica. Il lavoro di domani che manca, le diseguaglianze che crescono, le virtù della rete, la forza della tecnologia, la crisi di fiducia, le speranze della medicina, le virtù degli algoritmi. Davide, figlio di Gianroberto, ma molto più legnoso del padre, ha messo a frutto le relazioni – prima solo private ora anche pubbliche – e la forza del potere aziendale e insieme politico che in questi anni ha costruito. Ma se quello di Silvio Berlusconi si definiva un partito- azienda, questo cos’è? “La differenza è enorme – dice il sociologo Domenico De Masi – Il primo aveva, ancora ha, un partito al servizio della propria azienda, un partito che finanziava completamente. L’obiettivo era la tutela del mondo di Mediaset. Il secondo ha l’ambizione di cambiare il mondo e il movimento non ha necessità di danari, di sezioni, di luoghi fisici. Gli è bastato una piattaforma di internet per fare la rivoluzione. Vedrete che i partiti emuleranno: presto si trasformeranno anch’essi in movimenti e useranno la rete in modo professionale”.

Luci blu, fondale nero, pile di fogli con i pensieri di Gianroberto, cravatte nelle file principali, capi azienda e curiosi, giovani e anziani in fila, composti e vogliosi di capire dove giungerà la robotica, chi sfiderà i colossi del farmaco, come si soppianterà la chemioterapia, cosa ci diranno gli algoritmi, come decrescerà la nostra fatica. Se saremo più ricchi o più poveri, più felici o meno. Sum, voce del verbo essere. Io sono chi? Ma soprattutto cos’è la rete, qual è il potere che resterà nelle nostre mani dalla conoscenza istantanea che Google (il cui amministratore delegato per l’Italia, Fabio Vaccarono, ha tenuto uno dei primi report) oramai monopolizza? Finalmente si nota la senatrice Taverna prendere appunti, e la Lombardi fare “shhhh”, silenzio. E Di Battista meno ipercinetico del solito (“Leopolda questa? Se lo dite vi querelo, ma avete visto cosa c’è?”), e le due sindache più note (Appendino e Raggi) rilassate, Grillo devoto e silente. I Cinque Stelle in grisaglia fanno un altro effetto. E il bravo presentatore si chiama Gianluigi Nuzzi, giornalista televisivo, e i tempi sono perfetti, i congiuntivi anche, il clima molto professionale, il servizio d’ordine impeccabile, le hostess solerti. Tra gli ospiti molti i giornalisti (anche Marco Travaglio tra i relatori) ma soprattutto televisivi (Enrico Mentana, anzitutto). La tv entra in ogni casa, come internet. I giornali di carta invece no.

È IL MOVIMENTO che si fa azienda? O è invece la Casaleggio che coopta e tenta di imporre il codice di comportamento, un nuovo alfabeto? “Io sono venuto qua mandato dai miei dirigenti ad ascoltare e capire quali sono le idee loro, sappiamo che hanno alte possibilità di andare al governo. Devo dire la verità: questo modo di fare ci piace molto”, sostiene Marco, “il cognome non lo dico per la privacy”. I cinque stelle di domani come quella pubblicità che faceva: piace alla gente che piace.

Da: Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2017

ALFABETO – ANDREA MARSAN: “I cinghiali in città? Meno spazzatura e tornano tra i monti”

andrea-marsan
A Genova qualche giorno fa un cinghiale è riuscito a tuffarsi a mare e dopo qualche bracciata ha fatto ritorno tra i suoi monti. L’animale, finora coccolato soprattutto dai cacciatori che lo impallinano e poi lo gustano a tavola, non è nuovo a fughe in avanti. Negli ultimi tempi ha però fatto irruzione nelle nostre periferie con insolita frequenza producendo, come effetto collaterale, una nuova nevrosi da ingombro animale.

Daini, lepri, volpi, caprioli, naturalmente cinghiali, qualche lupo, anche qualche cervo. Gli avvistamenti si susseguono e con loro una nuova tipologia di stato d’ansia. Vuoi vedere che? Andrea Marsan, zoologo genovese e studioso appassionato di questo quadrupede, è il più titolato ad avanzare un’analisi logica della questione.

“Il cinghiale è un onnivoro. È un ghiottissimo fruitore della nostra ricchezza infinita che esonda nei rifiuti e fotografa la cultura della società dei consumi. Viene in città perché la campagna è spopolata e abbandonata, giunge da noi perché trova cibo. Se usassimo maggiore accortezza nella gestione dell’immondizia e nella relazione tra città e campagna la questione non si porrebbe”.

Il cinghiale è bello grosso.

Se s’incazza, perché teme un pericolo, ci fa anche male. Anche se nella scala del pericolo io metterei prima gabbiani e cornacchie. Sono veramente cattivi quelli.

Cinghiali a Roma, cinghiali a Genova.

Stupore, eh? Non c’è nulla di cui stupirsi invece. Il cinghiale si avvista in città come Genova ma anche a Barcellona e Berlino dove c’è continuità tra bosco e periferia. Dove non c’è rottura è più naturale che l’animale che ha fame, come un letto di fiume in piena, straripi un p o’. Succede sempre più spesso, ma è un fenomeno che vive soprattutto in primavera quando le campagne hanno terminato di offrire loro ghiande e castagne.

Fino a ieri il lupo lo teneva a bada.

L’equilibrio della natura è formidabile e il lupo provvedeva alla selezione naturale.

Quanti ne beccava a settimana?

Non saprei dirle con certezza. Il lupo predilige i cinghiali baby, o azzanna quelli adulti ma feriti o ancora si fa lupo quando la preda è in vecchiaia avanzata, deboluccia e arrendevole. Il lupo deve misurare le proprie forze e sa che un conflitto con un cinghiale in armi, giovane e robusto, lo vedrebbe sconfitto.

Abbiamo ripopolato troppo? Siamo stati permissivi?

Beh, in qualche caso siamo stati distratti e non abbiamo calcolato la prolificità di questo animale che riesce a triplicarsi in una sola annata. Ma più che contenere le nascite, e quindi dar luogo all’eliminazione per via cruenta, bisogna avere fiducia e lasciar fare alla natura. L’equilibrio naturale della selezione è la via maestra. Considerare poi che le campagne incolte producono, come effetto collaterale, questa mini invasione e capire che lo spopolamento produce enormi questioni, vitali per la società del benessere. Ricordi che l’uomo ha impiegato dodicimila anni per rendere domestico l’animale più aggressivo. Dal lupo è nato il cane; dal cinghiale il maiale.Continue reading

MATTARELLA, LA POLITICA SVUOTA LE SALE

Il Salone del mobile di Milano è la principale mostra del made in Italy, la rassegna annuale dei capitani d’industria, il centro di gravità permanente del capitalismo italiano. È un appuntamento così importante che i rappresentanti delle Istituzioni non mancano mai di presenziare. È sempre stato così. Mai però, fino all’altroieri, era accaduto che il presidente della Repubblica fosse accolto in una sala con larghi spazi vuoti. Alcuni secondi di un video del Corriere.it documentano questa imprevista defaillance che le compensazioni e i tagli delle foto ufficiali erano riuscite a evitare di esibire.

NON PENSO CHE sia stato un atto di disistima per l’oratoria di Sergio Mattarella, pur nota per non essere particolarmente coinvolgente, o una scortesia personale o ancora una contestazione per l’ufficio che rappresenta. Quel vuoto – semplicemente e drammaticamente – denuncia l’irrilevanza della politica rispetto agli interessi di chi avrebbe dovuto essere lì, in questo caso gli industriali. L’irrilevanza confina con quel senso di estraneità che oggi colpisce, in un modo altrettanto imprevisto, Matteo Renzi, l’uomo del futuro già passato, dell’oggi improvvisamente divenuto ieri. Il premier, ora ex, che è costretto a ripetere oggi la promessa non mantenuta di ieri: “Questa volta se perdo lascio per davvero”. Per davvero e non per finta, dunque. I mille giorni del renzismo sanno già di muffa e di bugia, e la sua filiazione governativa, con Paolo Gentiloni mandato al periclitante ponte di comando, appare come la milizia dei caschi bianchi dell’Onu: esercito senza bandiere, esecutivo senza popolo e senza scopo. La velocità con cui mangiamo il nuovo, lo digeriamo e infine lo espelliamo va di pari passo con l’approssimazione con la quale selezioniamo questo nuovo. Un profetico Giovanni Sartori, la cui scomparsa è stata giustamente salutata come la perdita di un maestro nell’insegnamento rigoroso della scienza della politica, dieci anni fa – era il 18 settembre 2007 – in un editoriale titolato “La terra trema sotto la Casta” – prevedeva quel che poi sarebbe accaduto. L’enorme successo del “grillismo” come un “colpo di vento contro i miasmi della politica” irriducibilmente conservativa, chiusa agli alieni, in questo caso gli elettori, e sorda a ogni richiesta di cambiamento.

NEGLI ANNI, questa parola – cambiamento – si è fatta largo fino a espandersi nelle pieghe più nascoste della società e a mutare di senso. Da aspirazione politica a bisogno istantaneo. Cambiare è divenuta un’ansia da prestazione. Cosicché gli industriali del mobile, quegli stessi che due giorni fa hanno disertato per scoramento l’intervento del capo dello Stato, avevano applaudito per vent’anni Silvio Berlusconi, e si sono arresi dal venerarlo solo quando il Cavaliere ha trasferito il suo potere alle gonne delle olgettine. Gli sono poi bastati invece tre anni per mandare in soffitta Matteo Renzi e ora, come spiegava bene uno di essi, avanti un altro.

Da: Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2017

Scala Santa: tu vieni e preghi, tanto paga Acea

Come lo Stato, che accoglie i mecenati pur di vedere le sue bellezze rimesse a nuovo, anche il Vaticano cura il lifting fatturando i bonifici delle imprese. Mai però la pubblicità che – direbbe Mike Bongiorno – è pur sempre il sale della vita, era giunta così vicina al cuore di Gesù, dentro l’enorme mistero che la fede procura.

E SARÀ SEGNO anche questo della provvidenza divina che tutto guarda e tutto governa. Sono dettagli terreni ma anche i soldi hanno il loro quid. E rifare la facciata situata accanto alla Basilica di San Giovanni in Laterano, nell’edificio che Sisto V fece edificare per conservare la cappella privata dei Papi, il Sancta Sanctorum, ha il suo costo. E quindi via con la pubblicità. Tu vieni e preghi e lui, anzi lei, cioè Acea, paga. La soluzione ha davvero le sue convenienze ma pure, come tutte le questioni, un che di spiritualmente irrisolto. La Chiesa di Francesco, votata all’umiltà, a tornare povera tra i poveri, vicina a chi ha sete e fame, con il cuore dentro il flagello delle ingiustizie, delle guerre, della peste della cattiveria umana, ha pur sempre da fare i conti con la realtà: la sua imponente proprietà fondiaria, non solo chiese e campanili, ma palazzi di ogni sorta e taglio, hanno periodiche necessità di manutenzioni. Evitiamo qui di annotare gli effetti collaterali di tanto benessere immobiliare che tanti crucci ha dato a Francesco. La questione, anzi la domanda, ora è questa: dopo l’Acea verrà – per par condicio – anche il turno della Coca Cola? E –raggiunta la Scala Santa – quand’è che lo sponsor entrerà a San Pietro?

Da: Il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2017

Renzo Arbore: “Gli artisti badano ai soldi, le zucche vuote evitano di schierarsi”

renzo-arboreL’artista è inseguito dal l’ombra della sua ansia che gli tiene compagnia ogni giorno. L’artista è una persona differente fra tutti gli umani: ha una vocina che ogni giorno gli spiega il bene e il male della vita, ciò che deve fare e ciò che non può fare. Se deve parlare oppure se non può parlare. Quanti soldi deve chiedere, quanti ne deve rifiutare.

Renzo Arbore, la vita dell’artista è un inferno.

È un’ansia continua. Sono convinto per esempio che l’ansia, il sipario che si apre e si chiude, abbia condotto Domenico Modugno prima alla malattia e poi alla morte. Ma senza ansia non c’è arte.

L’artista se può non vede e non sente. Soprattutto non parla. Si fa intervistare solo se ha un disco da lanciare, un film da promuovere, uno spettacolo al quale invitare ad accorrere.

I silenti sono tanti nel mondo dello spettacolo. È il manager che comanda e contratta. O la casa discografica che decide e annota: tu farai il disco a dicembre e prima di dicembre è meglio avere la bocca cucita.

Poi arriva il disco, il film e le ospitate. È il cachet che traccia la linea.

Ospitate teleguidate. Il cantante arriva, ma la scaletta musicale del suo ultimo cd da affidare alle radio è decisa dalla sua etichetta. Il dj, il povero ospitante, ha solo il compito di seguire la linea verticale dell’azione manageriale.

L’artista, che è ricco di suo, impazzisce per i soldi.

C’è molta attenzione per i soldi. I soldi fanno bene e anch’io me ne accorgo. Ma sono vent’anni che mi chiedo: poi i soldi dove me li porto? Meglio, molto meglio per me, avere la possibilità di fare quel che mi piace.

E quando accade, come adesso sta succedendo alla Rai, che il cachet dimagrisca l’artista s’indigna e protesta.

Queste sono sceneggiate promosse dai manager. I manager sono dei negoziatori di altissimo livello e usano la tattica del rifiuto pro tempore. Un negoziato subisce tira e molla e complicate triangolazioni: si vende l’artista da solo, oppure in coppia con un altro più sfigato. È un pacchetto dono. Il mercato detta le regole dell’ingaggio, ma se il manager è un talentuoso allora anche il mercato va a farsi friggere.Continue reading